La libertà sindacale degli appartenenti ai corpi militari tra diritto internazionale e diritto interno: brevi spunti di riflessione. Pietro Lambertucci

 

Sommario. 1. Premessa. 2. Le fonti internazionali e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla libertà sindacale degli appartenenti ai corpi militari. 3. La disciplina del diritto nazionale 4. Prospettive evolutive e rilievi conclusivi.

 

1.Il problema della libertà sindacale degli appartenenti ai corpi militari si è posto, più volte, all’attenzione degli interpreti, non solo per le ragioni sistematiche, direttamente connesse all’individuazione, nel nuovo ordinamento costituzionale e in contrapposizione “polemica” con l’assetto corporativo, dei “confini” della libertà di associazione sindacale[1], ma anche su sollecitazioni di vicende esterne, quali, in particolare, il dibattito che poi ha condotto alla legge n. 121 del 1981, la quale solo per gli appartenenti della polizia di Stato, ha riconosciuto la possibilità di costituire organizzazioni sindacali[2].

Sulla questione non vanno trascurati  i profili che attengono  direttamente alle fonti comunitarie ed internazionali[3].

Pur in presenza di un poderoso corpus normativo antidiscriminatorio[4] (prima a livello comunitario e poi, per effetto di ricaduta, sul piano del diritto interno), non si tratta del diritto del singolo  di non subire discriminazioni, in ragione dell’esercizio (o meno)  del principio di libertà sindacale (valore paradigmatico, sotto questo versante, riveste anche, sul piano del diritto interno, l’art. 15 dello Statuto dei lavoratori), quanto di valutare se alcune categorie di lavoratori  possano essere legittimante escluse dal godimento dei diritti politici e sociali e, sul piano delle fonti sovranazionali, si può anticipare che l’attribuzione delle libertà fondamentali costituisce la regola, salvo limitate restrizioni che i diritti interni possono dettare per la tutela di valor pubblici preminenti.

 L’indagine,a tal riguardo, deve prendere le mosse dall’art. 12 della Carta di Nizza del 2000, il quale stabilisce, in maniera onnicomprensiva, che ogni individuo  ha diritto alla libertà di associazione, anche in campo sindacale, che implica poi “..il diritto..di fondare sindacati insieme con altri e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.”.

Sul piano, poi, del diritto internazionale – e in una prospettiva più articolata – La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (del 1950) – ratificata dal nostro Paese con la legge 4.8.1955, n. 848 – all’articolo 11 stabilisce che il richiamato diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderirvi non  può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle  stabilite dalla legge  e “..che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o delle morale e alla protezione dei diritti e delle libertà altrui” (art. 11, secondo comma, primo periodo, della Convenzione). Nel contempo si precisa che la disposizione non esclude che restrizioni legittime possano essere imposte all’esercizio di tali diritti “da parte dei membri delle forze armate, della polizia e dell’amministrazione dello Stato” (art. 11, secondo comma, secondo periodo).

La lettura coordinata della disposizione  non consente di ritenere che l’esercizio del diritto di associazione sindacale possa essere interdetto tout court per gli appartenenti alle forze armate, laddove le uniche restrizioni legittime (peraltro, legittimamente individuabili solo dalla legge) sono indicate, in misura puntuale, dallo stesso testo della Convenzione. In particolare, si tratta di misure necessarie per la salvaguardia di beni, di rilievo pubblicistico,  assolutamente prevalenti rispetto alla garanzia della libertà di aderire o di  costituire  associazioni sindacali, per la tutela, in quest’ultimo caso,  dell’interesse collettivo alla regolamentazione del rapporto di lavoro.

Per quanto riguarda, poi, il  nostro ordinamento giuridico,  la libertà di associazione sindacale e l’ attività di contrattazione collettiva sono state pienamente riconosciute ai dipendenti delle Pubbliche amministrazioni (v. d.lgs. n. 165 del 2001) e, in forma più  limitata, agli appartenenti alla polizia di Stato, per i quali è possibile esclusivamente  la costituzione di  sindacati c. d. di mestiere (che associano solo il personale della polizia ad ordinamento civile, ma che, in tale ambito, assumono la rappresentanza del medesimo) (art.  82, secondo comma, l. n. 121 del 1981).

In tale contesto perplessità suscita – anche in relazione al parallelo riconoscimento della libertà  sindacale al corpo  della  polizia – il sistema di rappresentanza collettiva degli interessi delle forze di polizia ad ordinamento miliare e delle forze armate, tutto “interno” all’Amministrazione militare e con la possibilità,  per le predette rappresentanze militari, come si vedrà  meglio successivamente[5], di partecipare alla concertazione interministeriale, senza poter attingere al più decisivo ruolo di agente negoziale, titolare del potere di contrattazione.

Un decisivo passo innanzi, ai fini del riconoscimento del principio della libertà sindacale agli appartenenti alle forze armate, è ora rappresentato dall’interpretazione del testo della Convenzione ad opera della la Corte europea dei diritti dell’uomo, con riguardo al contenzioso tra associazioni di militari e la Repubblica francese[6].

In questi casi la Corte europea ha ribadito che l’art. 11 della Convenzione, il quale protegge “la libertà di difendere gli interessi professionali degli aderenti di un sindacato attraverso l’azione collettiva dello stesso”, non esclude al secondo comma alcuna categoria professionale, mentre consente l’imposizione  di  “restrizioni legittime”  espressamente per le forze armate e la polizia, senza che, comunque, il “diritto di libertà sindacale dei loro affiliati sia messo in discussione”. In tale quadro ricostruttivo, che  postula un’interpretazione restrittiva, il divieto puro e semplice )per ragioni attinenti alla disciplina militare) opposto ad un ‘associazione professionale (ancorchè composta da militari) di esercitare qualsiasi azione in relazione con il proprio oggetto sociale  viene a vulnerare l’”essenza stessa” della libertà di associazione[7].

In tale quadro interpretativo si precisa ulteriormente che i governi nazionali ben potranno attuare istanze e procedure speciali per la soluzione delle preoccupazioni materiali e morali dei dipendenti delle forze armate “ma.. queste non possono sostituirsi al riconoscimento a favore dei militari di una libertà di associazione, la quale comprende il diritto di costituire sindacati e di aderire ad essi”, per cui le restrizioni indicate dalla Convenzione “..non possono privare i militari ed i loro sindacati del diritto generale di associazione per la difesa dei loro interessi professionali”[8]

Ma c’è dell’altro. La  Convenzione OIL 9.7.1948. n. 87 sulla libertà sindacale e la protezione del diritto sindacale  – ratificata dall’Italia con la legge 23.3.1958, n. 367 –  riconosce, all’articolo 2, ai lavoratori e datori di lavoro il diritto di costituire organizzazioni sindacali e di aderirvi, senza alcuna distinzione ed autorizzazione preventiva, consentendo alla legislazione nazionale di determinare “in quale misura le garanzie previste dalla presente convenzione si applicheranno alle forze armate e alla polizia” (art. 9, primo comma), con una  soluzione che, come prontamente rilevato dagli interpreti, esclude la permanenza di un divieto assoluto di associazione sindacale per le predette categorie[9], anche perché, come puntualizza la stessa Convenzione, la sua ratifica, ad opera degli Stati membri, “…non pregiudicherà in alcun modo le leggi, sentenze,consuetudini o accordi già esistenti che concedano ai membri delle forze armate e della polizia garanzie previste dalla presente convenzione” (art. 9, secondo comma)[10].

E’ vero che, alla stregua di un orientamento dottrinale,  la Convenzione in discorso non attribuirebbe un diritto di associazione sindacale, in quanto si limiterebbe solo a rinviare al legislatore nazionale la valutazione circa la possibile estensione delle “garanzie” alle forze armate e alla polizia[11], tuttavia, accogliendo tale interpretazione, innanzitutto, viene ad essere depotenziata la valenza precettiva dell’art. 2 della stessa  Convenzione e, comunque, la  già ricordata  “lettura” della dell’art. 11 della Convenzione per la salvaguardia  dei diritti dell’uomo rende ormai giustizia all’opinione che la libertà di associazione sindacale può essere solo oggetto di restrizioni, ma non certo di una radicale esclusione.

3. In ogni caso, della Convenzione n. 87 del 1948 si è “dimenticato” il nostro legislatore dapprima con riguardo allora al divieto di associazione sindacale per gli appartenenti alla polizia (il d.d.l. 24.4.1945, 205)[12], ma poi rimosso dall’art.82, l. n. 121 del 1981 ed ora con il D. lgs. 15.3.2010, n. 66,   Codice dell’ordinamento militare, il quale, all’articolo 1475, secondo comma, lapidariamente esclude che i militari possano costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali[13].

Di conserva la Corte costituzionale ha ribadito la legittimità costituzionale del divieto in quanto, per i militari,  rileva “.. nel suo carattere assorbente il servizio, reso in un ambito speciale come quello militare”, laddove la declaratoria di illegittimità costituzionale “..aprirebbe la via ad organizzazioni  la cui attività potrebbe risultare non compatibile con i caratteri di coesione interna e neutralità dell’ordinamento militare.”[14].

L’argomentazione, fatta propria dai giudici della Consulta per  respingere il sospetto di costituzionalità si presta a più di una critica, che si appunta, innanzitutto, sul metodo utilizzato dalla Corte, che sembra transitare dal piano individuale della specialità dell’ordinamento militare a quello collettivo della garanzia della “neutralità” di quest’ultimo, che verrebbe minata dalla presenza di associazioni sindacali.

Se fossero fondate tali argomentazioni – e svolgendole in tutte le necessarie implicazioni –  nel primo caso, se il rapporto d’impiego del militare è caratterizzato da obblighi che ne individuano un profilo di soggezione c.d. speciale nei confronti dell’Amministrazione militare, allora sarebbe incompatibile qualsiasi forma di rappresentanza  collettiva di interessi, potenzialmente configgenti con l’Amministrazione militare, alla quale sarebbe demandata, in via unilaterale, la tutela degli interessi (e la regolamentazione del rapporto di impiego) dei militari.

Nel secondo caso, del pari, sarebbe preclusa, per altra via e in radice,  la possibilità di un ‘ “aggregazione” collettiva degli interessi, perché l’introduzione del principio di libertà di associazione sindacale (e, al tempo stesso, del pluralismo sindacale), potrebbe disgregare la “compattezza” dell’ordinamento militare (con pericolose contrapposizioni, venate anche da una coloritura politica ?).

I ricordati sviluppi argomentativi sono rimasti nella “penna” dei giudici costituzionali, i quali si sono attestati sulla linea del legislatore, che, come già anticipato, istituisce organi di  rappresentanza  militare “interna” all’Amministrazione (artt. 1476 – 1482 del Codice dell’ordinamento militare), riconosce una serie di libertà fondamentali ai militari (artt. 1469 – 1475, nella considerazione che la tutela degli interessi collettivi non deve passare “……necessariamente  attraverso il riconoscimento di organizzazioni sindacali”[15].

Infatti,  gli organi della rappresentanza militare non costituiscono un vero e proprio sindacato, in quanto non utilizzano  gli strumenti tipici di quest’ultimo.

In tale contesto, se si comprende il divieto di esercitare lo sciopero (art. 1475, quarto comma del Codice dell’ordinamento militare), in quanto rientra tra le legittime restrizioni per la tutela della sicurezza  pubblica e dell’ordine pubblico (che sarebbero inevitabilmente colpiti dall’esercizio del potere di autotutela accordato ai militari), meno si comprende che la rappresentanza militare non possa essere un vero e  proprio agente negoziale, titolare del potere di contrattazione nei confronti  dell’Amministrazione militare.

Qui, viceversa, e diversamente da quanto previsto per le forze di polizia ad ordinamento civile (la Polizia di Stato) – per le quali, infatti,  il legislatore riconosce la possibilità di costituire organizzazioni sindacali  e attribuisce, altresì,  un piccolo nucleo di diritti sindacali (artt. 82 e 83 l. n. 121 del 1981) – il legislatore predispone un circuito di  mera “concertazione” su alcuni temi con L’amministrazione militare, per la regolamentazione del rapporto di impiego (d.lgs. 12.5.1995, n. 195).

In ogni caso, la rappresentanza militare ha solo poteri di proposta e istanza sugli interessi collettivi dei militari, nei confronti dell’Amministrazione militare, ma non possiede reali poteri di intervento. nè strumenti sanzionatori per far valere le proprie  prerogative[16].

4.Tale assetto normativo, a ben guardare, non si pone certo in linea con le fonti comunitarie, alla luce dell’interpretazione fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[17], per cui il riconoscimento della libertà di associazione sindacale, nel suo “nucleo essenziale”, contrasta con il divieto assoluto di costituire associazioni sindacali o di affilarsi a queste ultime.

Alla luce di tutto ciò è in corso una rivisitazione, a livello parlamentare, della regolamentazione della rappresentanza militare, dagli esiti incerti, che si avvia, sia pure timidamente, verso il riconoscimento di un potere negoziale (che supererebbe l’attuale fase, disciplinata dal d.lgs. n. 195 del 1995, di mera concertazione). A questo passo avanti però continua a mancare, per un verso, un adeguato meccanismo sanzionatorio, che possa essere attivato dalla rappresentanza militare in caso di violazione degli “spazi” di contrattazione devoluti dalla legge e, per altro verso, il riconoscimento di un canale di comunicazione tra la rappresentanza collettiva e la  propria base (un nucleo “minimo” di diritti sindacali) che solo la legge può proteggere, per consentire alla prima di svolgere il proprio “ruolo” di interlocutore negoziale dell’Amministrazione militare.

In realtà si potrebbe obiettare che una rappresentanza “interna” difficilmente, sul piano pratico, può svolgere un efficace ruolo di agente contrattuale che, implica, quantomeno, una non “subalternità” – se non una contrapposizione di interessi con la controparte negoziale –  che solo può garantire un sindacato esterno (come accade, ad esempio, per gli appartenenti alla polizia di stato).

Ma questo è quanto il legislatore sembra  disposto a concedere in materia di tutela sindacale dei militari, sul presupposto che la sindacalizzazione debba andare di pari passo con la “smilitarizzazione” del corpo[18], correlazione necessaria della  quale gli interpreti avevano dimostrato l’equivocità, in quando non desumibile da alcuna disposizione legislativa[19] e, comunque, del tutto superata oggi alla luce degli orientamenti della giurisprudenza della CEDU.

Anzi, a tale riguardo, ci si potrebbe interrogare se una mera rivisitazione della rappresentanza militare (anche con un rafforzamento del suo ruolo negoziale) possa soddisfare l’iter argomentativo accolto dalla giurisprudenza internazionale.

L’interrogativo, a nostro avviso, necessita di una risposta articolata alla luce del “nocciolo duro” che può ricavarsi dalle  decisioni altrove richiamate[20].

I giudici, a ben guardare,  non hanno escluso che i diritti nazionali possano prevedere “procedure speciali per la soluzione delle preoccupazioni materiali e morali dei dipendenti delle forze armate”[21], il che, riformulato in misura più congrua, autorizza i medesimi a stabilire procedure ad hoc per la regolamentazione del rapporto d’impiego dei militari. Sotto quest’ultimo profilo non trova ostacoli sul piano della legittimità (ma, semmai, per le considerazioni dianzi svolte, di mera opportunità) la predisposizione di una rappresentanza militare, quale interlocutore negoziale dell’Amministrazione militare per la regolamentazione del rapporto d’impiego.

Quello che, invece risulta contrario alla disciplina internazionale è la radicale esclusione di ogni forma di libertà associativa, con l’impossibilità di poter tutelare gli interessi, anche sul piano giudiziale, dei propri iscritti. A take stregua, se a livello legislativo, si vengano a prefigurare  libere associazioni di militari, quali enti esponenziali degli interessi dei propri iscritti, con la possibilità di agire in giudizio per la difesa degli interessi individuali dei propri iscritti, nonché di “segnalare” e proporre istanze a carattere collettivo alla Direzione militare, affiancandosi, in tal modo ed efficacemente, agli organi della rappresentanza militare, titolari del potere di contrattazione, si è fatto un sensibile passo innanzi verso l’applicazione del diritto internazionale.

Il “filo rosso”, infatti, che sembra legare tutti gli interventi della giurisprudenza in discorso è la valorizzazione della libertà associativa, soprattutto come possibilità di agire in “difesa degli interessi dei propri affiliati”[22] che, nella prospettiva evolutiva della disciplina dovrebbe comportare, da un lato,  una tutela “collettiva” delle prerogative (contrattuali) degli organi della rappresentanza militare (qualcosa di simile all’art. 28 fello Statuto dei lavoratori) e, dall’altro, una valorizzazione, anche sul piano processuale, di “libere” e rappresentative associazioni di militari.

Se questo è poco (rispetto al pieno riconoscimento del sindacato esterno”, come per gli appartenenti alla polizia di Stato) o molto 9rispetto all’attuale e blando potere di concertazione riconosciuto alla rappresentanza militare)solo l’esperienza concreta ci potrà dire: la legge cammina sempre nelle “gambe” degli uomini, ma, nel nostro caso, la mancanza può solo far solo rimanere inalterata la relazione di autorità che vige nelle caserme.

[1]  Nella manualistica v. per tutti, . G.  Ghezzi e U, Romagnoli., Il diritto sindacale, Zanichelli, Bologna, 1992,  47 ss: G. Giugni, Diritto sindacale, Cacucci, Bari, 2010,  39 ss.; M.V. Ballestrero, Diritto sindacale, Giappichelli, Torino, 111 s.; A, Vallebona, Istituzioni di diritto del lavoro.,I. Il diritto sindacale, Cedam,  Padova, 2015, 83, L. Gaeta, A. Viscomi, A, Zoppoli, Istituzioni di diritto del lavoro e sindacale. Vol. II. Organizzazione e attività sindacale. Giappichelli ,Torino,2013, 10 s.

[2]  Sul punto cfr., per tutti, AA, VV., Sindacato  polizia, a cura di F, Fedeli, Sapere edizioni, Milano – Rima, 1975;  AA. VV., Il sindacato di polizia, in Contrattazione, 1980, n. 1. 9 ss.;  F. Mancini,  Equivoci e silenzi sul sindacato di polizia, in Costituzione e movimento operaio, Il Mulino, Bologna, 1976, 249 ss.

[3] Per un   efficace “riepilogo”  della libertà sindacale nelle fonti internazionali  v. P. Bellocchi, La libertà sindacale, in Trattato di diritto del lavoro, diretto da M. Persiani e F. Carinci, vol. II, Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva,  a cura di G, Proia, Cedam, Padova, 2014, 3 ss. 11 ss.

[4]  Per un “riepilogo” anche dei profili giurisprudenziali v. F. Guarriello e  M. C. Cimaglia, Discriminazione (divieto di), in Dizionari del diritto  privato, promossi i da N. Irti,  Diritto del lavoro,  a cura do P. Lambertucci, Giuffrè, Milano, 2010,   177 ss.

[5]   V. infra n. 3.

[6]  Ci riferiamo alla sentenza CEDU del 2.10.2014 (causa Adefdromil  c. Francia)  relativa all’Associazione di Difesa dei Diritti dei Militari (ADEFDROMIL) e CEDU del  2.10.2014   (causa  Matelly c. Francia), relativa all’associazione “forum gendarmi e cittadini” della gendarmeria francese.

[7]  Le  parole  virgolettate sono  tutte tratte  dalla sentenza 2.10.2014, (causa Adefdromil. C. Francia) cit. la quale ulteriormente precisa che le predette “restrizioni” non possono recare “… pregiudizio alla essenza stessa del diritto di organizzarsi.”, per cui le motivazioni  in contrario addotte  non appaiono né pertinenti, né sufficienti, ne tanto meno “necessarie in una società democratica”.

[8]  V. in particolare,  CEDU  2.10.2014 (causa Matelly c. Francia), cit.

[9] V., in tal senso, già L. Mengoni, Il regime giuridico delle organizzazioni professionali in Italia,  in CECA  ( a cura di),   Il regime giuridico delle organizzazioni professionali nei paesi membri della CECA, Lussemburgo,  1966,  381 ss. 403

[10]  V. , per tale  corretta puntualizzazione,  M. Offeddu, Le Convenzioni internazionali del lavori e l’ordinamento giuridico italiano, Cedam, Padova,  1973, 185, nota 92.

[11]  V.,,  in tal senso, E. Ghera. Libertà sindacale e ordinamento della Polizia, Gcost., 1976,  656  ss. 672.

[12]  Per la tacita  abrogazione del  decreto luogtenenziale del 1945 su pronunciava già F. Mancini, Equivoci, cit., , 255.

[13] Per il riconoscimenti della  libertà di associazione sindacale anche ai militari  v.  anche l’ampio studio di M. Pedrazzoli, L’autotutela con le stellette, Critica del diritto, 1975,  115 ss.  122.

[14]  V. C. Cost. 17.12.1999, n. 449, Gcost., 1999, 3870, con nota di G. D’Elia, Sotto le armi non tacciono le leggi: a proposito della libertà sindacale dei militari, ivi, 2000, 550 ss.

[15] V. sempre C. Cost.17.12.19999, n. 449, cit.

[16] Per un’efficace sintesi di questi profili v. L. Menghini, Le articolazioni del “diritto sindacale separato”: polizie, carabinieri, forze armate, RGL, 1992, I,  377 ss.

[17]  V. retro n. 2

[18]  Così, ad esempio,  E. Ghera, Libertà sindacale, cit., 667 e 676.

[19]  V.,  in tal senso,per tutti, F. Mancini, Equivoci, cit., 251 s.

[20]  V. retro n. 2.

[21]  Così, testualmente, CEDU 2.10.2014 (causa Matelly c. Francia), cit.

[22]  Così sempre CEDU  2.10.2014 (causa Mastelly c.Francia), cit.