Discriminazione handicap, Tribunale di Milano, ordinanza 11 febbraio 2013.

TRIBUNALE MILANO

SEZIONE LAVORO

Il Giudice del Lavoro, dott.ssa Chiara COLOSIMO, nel procedimento ex art. 1, co. 47ss., Legge 92/2012 promosso

da

COGNOME Nome, con l’Avv. XXX

contro

SOCIETA’ s.r.l., con l’Avv. XXX

letti gli atti, esaminati i documenti, a scioglimento della riserva assunta il xxxxxx, osserva,

 

IN FATTO

 

con ricorso ex art. 1, co. 47ss., Legge 92/2012 depositato il 22 novembre 2012, Nome COGNOME (dipendente della convenuta dall’1/4/2010, con mansioni di Regional Bussiness Manager e qualifica dirigenziale C.C.N.L. Dirigenti Terziario) ha convenuto in giudizio SOCIETA’ s.r.l., eccependo la discriminatorietà del licenziamento intimatole dalla convenuta il 4/7/2012 e chiedendo al Tribunale, in via principale, di condannare la società convenuta all’immediata reintegrazione nel posto di lavoro e nelle mansioni di cui in precedenza, o altre equivalenti, oltre al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto dovuta dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegrazione (e, in ogni caso, in misura non inferiore a cinque mensilità), nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal momento del licenziamento sino quello di effettiva

reintegrazione.

In subordine, ha chiesto di condannare SOCIETA’ s.r.l. al pagamento, oltre che dell’indennità sostitutiva del preavviso e delle competenze di fine rapporto, dell’indennità supplementare nella misura di € 223.090,79.

Il tutto oltre interessi e rivalutazione e, in ogni caso, con vittoria delle spese di lite.

Si è costituita ritualmente in giudizio SOCIETA’ s.r.l., eccependo l’infondatezza

in fatto e in diritto delle domande di cui al ricorso e chiedendo il rigetto delle

avversarie pretese.

Con vittoria delle spese di lite.

Esperito inutilmente il tentativo di conciliazione e ritenuta la causa matura per la

decisione, il Giudice ha invitato i procuratori alla discussione orale e, all’esito, si è

riservato di decidere.

IN DIRITTO

Il ricorso è fondato e, pertanto, deve essere accolto.

Con lettera del 4 luglio 2012, SOCIETA’ s.r.l. ha intimato a Nome COGNOME  il licenziamento per ragioni così specificate: “i problemi di salute che ha, le stanno ostacolando il pieno esercizio delle sue funzioni da diversi mesi. Ha manifestato in più occasioni il bisogno di un ambiente di lavoro meno stressante. A tal fine, essendo preoccupati per la sua salute che influiva sulla sua capacità lavorativa in Italia, l’abbiamo informata che avremmo cercato, proprio in Italia, un nuovo Regional Bussiness Manager e a lei abbiamo offerto un nuovo ruolo strategico come Sales Manager Brand Owner (Direttore Vendite del marchio), sempre per l’Italia con le medesime condizioni economiche. Ci dispiace che lei non abbia accettato la nostra offerta di assumere il ruolo di “Sales Manager Brand Owner, per l’Italia”, che le avrebbe garantito che il suo pacchetto retributivo sarebbe stato mantenuto al livello attuale. Ci vediamo costretti a terminare il suo rapporto di lavoro con effetto immediato, a partire dal ricevimento da parte sua della presente comunicazione. Le pagheremo nei termini di legge le spettanze a lei dovute, compreso il pagamento del mancato preavviso. La preghiamo di restituire tutti i beni e le attrezzature aziendali ancora in suo possesso entro 7 giorni dalla ricezione della comunicazione” (doc. 24, fascicolo ricorrente).

Nome COGNOME eccepisce la discriminatorietà del licenziamento, affermando che lo stesso sarebbe stato intimato per il solo fatto di aver comunicato al datore di lavoro di essere affetta da una patologia grave e permanente.

Ritiene il giudicante, per le ragioni di seguito precisate, che la doglianza sia fondata.

Deve preliminarmente rammentarsi che in materia di licenziamenti, siano essi intimati per ragioni oggettive ovvero soggettive, vige la fondamentale e ineludibile regola dell’immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo di licenziamento.

Il principio dell’immodificabilità delle ragioni del licenziamento opera “come fondamentale garanzia giuridica per il lavoratore, il quale vedrebbe altrimenti frustrata la possibilità di contestare la risoluzione unilateralmente attuata e la validità dell’atto di recesso”, e “ha carattere generale, e vale quindi per tutti i casi di assoggettamento del rapporto di lavoro a norme limitatrici del potere di recesso del datore di lavoro, quali sono sia le norme della legge n. 604 del 1966 sia

quella di cui all’art. 2110, secondo comma, cod. civ.” (Cass. Civ., Sez. Lav., 13 agosto 2009, n. 18283).

Al fine di valutare la legittimità dell’operato della SOCIETA’ s.r.l., dunque, possono essere prese in considerazione esclusivamente le motivazioni che la società ha formalmente posto a giustificazione della risoluzione del rapporto per cui è causa.

Dunque, tutte le deduzioni di cui alla memoria difensiva volte a dimostrare presunte lamentele nei confronti della ricorrente, così come la diminuzione dei risultati economici aziendali, sono del tutto irrilevanti ai fini del decidere: come chiarito anche dalla parte convenuta nel proprio scritto difensivo, il licenziamento sarebbe stato determinato, esclusivamente, “dal rifiuto espresso dalla dott.ssa COGNOME di accettare il nuovo ruolo offerto di Account Executive Sales for Brand Owner per il mercato italiano che… avrebbe garantito alla ricorrente le medesime prerogative e lo stesso livello salariale” (pag. 19, memoria).

La pretestuosità del licenziamento così giustificato emerge per tabulas, atteso che l’11/6/2012 Nome COGNOME ha rappresentato all’azienda, tra l’altro, quanto segue: “ciò chiarito, ritengo che la posizione di Account Executive Brand Owner per l’Italia non possa essere in alcun modo paragonata in termini di importante responsabilità con quella di RBM, attualmente da me ricoperta. La mia assegnazione a tale posizione, dunque, costituirebbe un demansionamento, illegittimo ai sensi della legge italiana applicabile al mio rapporto di lavoro con la

Società. Non posso dunque accettare tale offerta. Tuttavia, desidero comunicarvi che se la Società mi ordinerà di assumere la posizione di Account Executive Brand Owner for Italy non avrò alternative se non quella di conformarmi a tale direttiva e, al contempo, adottare le più opportune iniziative per difendere i miei diritti ed interessi” (doc. 23, fascicolo ricorrente – traduzione della parte non contestata).

Dunque, Nome COGNOME non ha rifiutato di assumere la posizione di Account Executive Brand Owner per l’Italia, come affermato nella lettera di licenziamento, e peraltro ribadito anche in sede di discussione, ma si è al contrario resa disponibile ad adeguarsi alle direttive aziendali, fermo il diritto di agire al fine di tutelare i propri interessi a fronte di un cambio di ruolo ritenuto demansionante.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla convenuta, la riserva della lavoratrice non può in alcun modo essere considerata un rifiuto di fatto ad attenersi alle direttive datoriali, poiché costituisce null’altro se non l’esercizio – con modalità del tutto legittime – di un diritto espressamente riconosciutole dall’ordinamento.

Alla luce di quanto sin qui osservato, non può che concludersi per l’ingiustificatezza del licenziamento intimato alla ricorrente.

Tale rilievo, tuttavia, non è sufficiente a concludere altresì per la natura discriminatoria del recesso datoriale.

Il licenziamento ingiustificato, infatti, non può per ciò solo essere ritenuto discriminatorio poiché quest’ultimo esige un quid pluris, ossia la prova che, in assenza di un’obiettiva ragione di licenziamento, la scelta del lavoratore da licenziare sia stata dettata da un’ingiustificata differenza di trattamento che trova la propria ragion d’essere in una delle fattispecie discriminatorie contemplate dalla legge.

Il licenziamento ingiustificato è un mero arbitrio, il licenziamento discriminatorio

è invece quello fondato su un motivo odioso: sulla volontà di escludere dalla compagine sociale un soggetto per il solo fatto di una sua caratteristica personale che lo contraddistingue, per un puro pregiudizio di non identità e omologazione che guarda alla condizione psico-fisica ovvero alla personalità complessivamente intesa del lavoratore.

Le argomentazioni di parte ricorrente secondo cui le ragioni di discriminazione rilevanti nell’ambito di un rapporto di lavoro costituirebbero una categoria aperta non possono essere condivise.

Al riguardo, tuttavia, deve rammentarsi che i referenti normativi non sono costituiti esclusivamente dall’art. 4 Legge 604/1966 (1) e dall’art. 15 Statuto Lavoratori (2), ma anche dal Decreto Legislativo 216/2003 – attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione di condizioni di lavoro – che, all’art. 2, co. 1, precisa che “ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall’articolo 3, commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende

l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia

praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite: a) discriminazione

diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento

sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata

un’altra in una situazione analoga; b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un

criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le

persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di

handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di

particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

In ordine alla portata da attribuire al concetto di handicap nell’ambito della disciplina in commento, la Corte di Giustizia ha chiarito che “la nozione di “handicap” va intesa come un limite che deriva, in particolare, da minorazioni fisiche, mentali psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale”, e che “utilizzando la nozione di “handicap” all’art. 1 della direttiva di cui trattasi, il legislatore ha deliberatamente scelto un termine diverso da quello di “malattia””.

La Corte ha quindi escluso “un’assimilazione pura e semplice delle due nozioni”, precisando che “perché una limitazione possa rientrare nella nozione di “handicap” deve quindi essere probabile che essa sia di lunga durata” e che abbia l’attitudine a incidere od ostacolare la vita professionale per un lungo periodo (Corte Giustizia, Navas vs. Eurest Colectivadades SA, C-13/05).

A tale nozione deve farsi riferimento anche nel presente giudizio poiché, come rammentato dallo stesso Giudice Europeo, “dall’imperativo tanto dell’applicazione uniforme del diritto comunitario quanto del principio di uguaglianza discende che i termini di una disposizione di diritto comunitario che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata devono di norma essere oggetto nell’intera comunità di un’interpretazione autonoma e uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione e della finalità perseguita dalla normativa di cui trattasi” (Corte Giustizia, Navas vs. Eurest Colectivadades SA, C-13/05, cit.).

Sicché, sotto un profilo di ordine generale, se deve escludersi che possa essere richiamato il divieto di discriminazione fondata sull’handicap non appena si manifesti una qualunque malattia, di handicap può invece parlarsi ogniqualvolta la malattia sia di lunga durata e abbia l’attitudine a incidere negativamente sulla vita professionale del lavoratore.

Ritiene il giudicante che tale sia la nozione di handicap da richiamare nel caso di specie poiché, con lettera del 5/3/2012, Nome COGNOME ha rappresentato al datore di lavoro quanto segue: “vorrei dirvi che, nonostante io continui a venire in ufficio ogni giorno, non sono ancora al 100%. I risultati delle analisi di Gennaio dicono che ho una patologia molto grave per cui dovrò rimanere in cura per tutto il resto della mia vita. Sembra che sia in una forma lieve e che, con un po’ di fortuna, dovrei riuscire a condurre la stessa vita di prima; ma neanche i medici possono fare delle previsioni certe. Sto ancora cercando di digerire tutto questo. A metà febbraio ho cominciato i trattamenti. Un inconveniente di ciò è che mi sento molto stanca e perciò cerco di guidare il meno possibile per non rischiare di addormentarmi mentre guido. Questo dovrebbe via via migliorare e già è migliorato in realtà; tuttavia non sono ancora al 100%. I medici mi hanno consigliato di evitare lo stress, nei limiti del possibile. Sto facendo un grande sforzo per tenermi al passo e svolgere i miei ordinari compiti; l’unica cosa che cortesemente vi chiedo è di non ricevere compiti ulteriori in aggiunta alle mie ordinarie mansioni. Mi farebbe piacere se riuscissimo a mantenere riservata la vicenda” (doc. 13, fascicolo ricorrente – traduzione della parte non contestata).

Per come prospettata al datore di lavoro, la malattia sofferta da Nome COGNOME ha inequivocabilmente assunto il contenuto di un handicap: da un lato, la lavoratrice ha rappresentato di avere una “una patologia molto grave” che la costringerà a “rimanere in cura per tutto il resto della mia vita”; dall’altro, ha dato conto degli effetti delle cure obbligate: “a metà febbraio ho cominciato i trattamenti. Un inconveniente di ciò è che mi sento molto stanca e perciò cerco di guidare il meno possibile per non rischiare di addormentarmi mentre guido… I medici mi hanno consigliato di evitare lo stress, nei limiti del possibile. Sto facendo un grande sforzo per tenermi al passo svolgere i miei ordinari compiti…”.

Sotto questo profilo, è del tutto irrilevante che Nome COGNOME non abbia comunicato alla società l’esatta natura della malattia che l’affligge poiché, con la propria missiva del 5/3/2012, ha comunque delineato in maniera oltremodo chiara la gravità della situazione e gli effetti della stessa, e il quadro emergente dalla sua descrizione è senz’altro quello di una patologia grave e invalidante.

A tale comunicazione non può che essere ricondotta la decisione datoriale di risolvere immediatamente il rapporto di lavoro in essere con Nome COGNOME.

È questa una conclusione cui il giudicante perviene considerando, da un lato, il brevissimo arco temporale in cui le vicende per cui è causa si sono svolte e, dall’altro, il tenore della stessa lettera di licenziamento.

Sotto il profilo temporale, si osserva che dalla comunicazione della lavoratrice al licenziamento sono decorsi solo quattro mesi durante i quali, peraltro, Nome COGNOME è stata a lungo assente per malattia (22/3/2012-28/5/2012 – docc. 7, 8 e 9, fascicolo convenuta).

Quanto alla lettera di licenziamento, si evidenzia che la stessa fa riferimento ai “problemi di salute” che avrebbero ostacolato “il pieno esercizio delle sue funzioni da diversi mesi” e al fatto che la ricorrente avrebbe manifestato “in più occasioni il bisogno di un ambiente di lavoro meno stressante”. Nella medesima comunicazione, inoltre, il datore di lavoro rappresenta la propria preoccupazione per lo stato di salute della ricorrente che “influiva sulla sua capacità lavorativa in Italia” (doc. 23, fascicolo ricorrente –

traduzione della parte non contestata).

Fermo restando che è documentalmente provato che Nome COGNOME non ha formulato alcuna richiesta di cambio di mansioni, limitandosi a chiedere di “non ricevere compiti ulteriori in aggiunta alle mie ordinarie mansioni”, è oltremodo significativa la preoccupazione manifestata dalla parte datoriale a soli quattro mesi dalla comunicazione dell’insorgenza della malattia e dopo una prima e prolungata assenza della lavoratrice.

Per tutti questi motivi, il licenziamento intimato da SOCIETA’ s.r.l. a Nome COGNOME è discriminatorio.

Ai sensi dell’art. 3, Legge 108/1990, “il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti”.

Per questi motivi, SOCIETA’ s.r.l. deve essere condannata ex art. 18 Legge 300/1970 all’immediata reintegrazione di Nome COGNOME nel posto di lavoro e nelle mansioni di cui in precedenza, o altre equivalenti.

La convenuta, inoltre, deve essere condannata a risarcire alla lavoratrice il danno determinato nella retribuzione mensile globale di fatto (pari a € 12.100,00 lordi mensili, come congiuntamente precisato dalle parti in udienza) da corrispondersi dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione – detratto l’aliunde perceptum – e, comunque, in misura non inferiore a cinque mensilità, oltre interessi e rivalutazione.

SOCIETA’ s.r.l. deve essere condannata, infine, a versare i contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione.

*

La condanna al pagamento delle spese di lite segue la soccombenza e, pertanto, la società convenuta deve essere condannata al pagamento delle stesse liquidate come in dispositivo.

Ordinanza immediatamente esecutiva ex art. 1, co. 49, Legge 92/2012.

P.Q.M.

accerta e dichiara la natura discriminatoria e, conseguentemente, la nullità del licenziamento intimato a Nome COGNOME il 4/7/2012 e, per l’effetto, ordina a SOCIETA’ s.r.l. l’immediata reintegrazione della lavoratrice nel posto e nelle mansioni di cui in precedenza, o altre equivalenti.

Condanna la convenuta a risarcire a Nome COGNOME il danno determinato nelle retribuzioni globali di fatto (pari a € 12.100,00 lordi mensili) maturate dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione – detratto l’aliunde perceptum – e, comunque, in misura non inferiore a cinque mensilità, oltre interessi e rivalutazione.

Condanna SOCIETA’ s.r.l. a versare i contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione.

Condanna la convenuta alla rifusione delle spese di lite che liquida in complessivi € 5.000,00 oltre I.V.A. e C.P.A.

Ordinanza immediatamente esecutiva ex lege.

MANDA

alla Cancelleria per la tempestiva comunicazione alle parti costituite.

Milano, 11 febbraio 2013

 

(1) Che dispone che “il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dell’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacabili è nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata”.

(2) Che prevede che “è nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione