Condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, Discriminazione orientamento sessuale, Corte di cassazione Sezione I civile Ordinanza 15 dicembre 2020

FATTI DI CAUSA

  1. Con ricorso ai sensi degli artt. 28 d.lgs. 150/2011 e 702-bisc.p.c. dinanzi al Tribunale di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, l’Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI (lesbian-gay-bisexual-transgender-intersexual)-Rete Lenford (di seguito: Associazione o Rete Lenford) ha convenuto l’Avv. C T, al fine di ottenere l’accertamento del carattere discriminatorio delle dichiarazioni da lui rese nel corso di un’intervista radiofonica, consistite nell’avere egli affermato di non volere assumere e di non volersi avvalere della collaborazione, nel proprio studio, di persone omosessuali. Con ordinanza del 6 agosto 2014, il Tribunale ha accolto il ricorso, dichiarando illecito, alla luce del suo carattere discriminatorio, il comportamento tenuto dall’odierno ricorrente, condannandolo per l’effetto al risarcimento del danno nella misura di euro 10.000,00 ed ordinando la pubblicazione in estratto del provvedimento su di un quotidiano nazionale e condannando il convenuto altresì al pagamento delle spese di lite.
  1. Avverso tale provvedimento ha proposto appello, ai sensi dell’art. 702-quaterc.p.c., l’avv. C T, sollevando plurime censure di rito e di merito; in particolare l’appellante ha censurato il mancato rilievo officioso del difetto di legittimazione, sia processuale sia sostanziale, dell’Associazione, non potendo la stessa considerarsi ente esponenziale di diritti e/o interessi diffusi; ha eccepito l’incompetenza funzionale del giudice adito, con conseguente nullità del procedimento e dell’ordinanza impugnata ai sensi dell’art. 158 c.p.c.; ha contestato altresì la decisione di primo grado per aver rigettato l’eccezione di nullità del ricorso per mancanza dell’avvertimento exart. 163, comma 2, n. 7, c.p.c.; nel merito, ha dedotto l’inesistenza di un comportamento discriminatorio «diretto», la non corretta interpretazione ed applicazione dell’art. 2 d.lgs. 216/2003, la violazione dell’art. 3 del medesimo d.lgs. ed il difetto di motivazione. L’appellante avv. T ha inoltre sollevato questione di illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 2, lett. a) e b), e dell’art. 3, lett. a), del d.lgs. 216/2003 in relazione all’art. 21 Cost.; ha poi contestato l’erronea applicazione del principio dell’onere della prova, come disciplinato dall’art. 28, comma 4, del d.lgs. 150/2011. Infine, ha negato la sussistenza di un danno in capo all’Associazione e contestato la propria condanna al risarcimento e alle spese di lite.La Corte d’appello di Brescia, con sentenza n. 529 del 23 gennaio 2015, ha respinto integralmente l’impugnazione proposta, confermando in toto l’ordinanza conclusiva del giudizio di primo grado, compensando le spese del giudizio di appello.
  1. Avverso questa sentenza, con atto notificato il 29 maggio 2015, ha proposto ricorso per cassazione il soccombente avv. T, sulla base di nove motivi, illustrati da memoria. Ha resistito con controricorso l’Associazione intimata, depositando, altresì, una memoria.

Con ordinanza interlocutoria n. 19443 del 30 maggio 2018, la Corte ha ritenuto di richiedere, in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, l’intervento interpretativo della Corte di giustizia dell’Unione europea, in relazione alle seguenti questioni, attinenti al secondo e quinto motivo di ricorso:

  1. «Se l’interpretazione dell’art. 9 della direttiva n. 2000/78/CE sia nel senso che un’associazione, composta da avvocati specializzati nella tutela giudiziale di una categoria di soggetti a differente orientamento sessuale la quale, nello statuto, dichiari il fine di promuovere la cultura e il rispetto dei diritti della categoria, si ponga automaticamente come portatrice di un interesse collettivo e associazione di tendenza non profit, legittimata ad agire in giudizio, anche con una domanda risarcitoria, in presenza di fatti ritenuti discriminatori per detta categoria»;
  2. «Se rientri nell’ambito di applicazione della tutela antidiscriminatoria predisposta dalla direttiva n. 2000/78/CE, secondo l’esatta interpretazione dei suoi artt. 2 e 3, una dichiarazione di manifestazione del pensiero contraria alla categoria delle persone omosessuali, con la quale, in un’intervista rilasciata nel corso di una trasmissione radiofonica di intrattenimento, l’intervistato abbia dichiarato che mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi della collaborazione di dette persone nel proprio studio professionale, sebbene non fosse affatto attuale né programmata dal medesimo una selezione di lavoro».

A seguito del rinvio pregiudiziale, il procedimento è stato sospeso ai sensi dell’art. 295 c.p.c.

La Corte di giustizia UE (Grande Sezione), con sentenza del 23 aprile 2020, ha così statuito:

1) «La nozione di condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro contenuta nell’art. 3, par. 1, lett. a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che in essa rientrano delle dichiarazioni rese da una persona nel corso di una trasmissione audiovisiva secondo le quali tale persona mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi, nella propria impresa, della collaborazione di persone di un determinato orientamento sessuale, e ciò sebbene non fosse in corso o programmata una procedura di selezione di personale, purché il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico».

2) «La direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale in virtù della quale un’associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consista nel difendere in giudizio le persone aventi segnatamente un determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di persone, sia, in ragione di tale finalità e indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa, automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva summenzionata e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, ai sensi di detta direttiva, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa».

Entrambe le parti hanno chiesto fissarsi udienza per la prosecuzione del giudizio ex art. 297 c.p.c., essendo venuta meno la causa della sospensione.

Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Entrambe le parti hanno depositato ulteriore memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c., non avendo la Corte territoriale provveduto alla lettura del dispositivo in udienza, con la conseguente nullità della sentenza exart. 156, comma 2, c.p.c., trattandosi di rito del lavoro.

1.1. Il ricorrente, premesso che il giudizio era stato introdotto con il rito sommario di cognizione ex artt. 702-bis c.p.c. e 28 d.lgs. 150/2011 innanzi al Giudice del lavoro e che l’appello era stato introdotto con ricorso secondo il rito lavoristico e nel rispetto dei termini di cui all’art. 702-quater c.p.c., ritiene che il giudizio d’appello avrebbe dovuto svolgersi secondo il rito «ordinario» del lavoro; di conseguenza, la Corte territoriale avrebbe violato il disposto dell’art. 437 c.p.c., non procedendo alla lettura del dispositivo in udienza, con conseguente nullità della sentenza.

1.2. Il motivo è infondato.

La controversia in questione non è soggetta al rito del lavoro e comunque non è stata trattata secondo quel rito.

L’art. 28 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150 (recante «Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69», cosiddetto «decreto riti») ha stabilito che le controversie in materia di discriminazione previste dall’art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, dall’art. 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215, dall’art. 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, che è il caso di specie), dall’art. 3 della l. 1° marzo 2006, n. 67 e dall’art. 55-quinquies del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dallo stesso articolo.

Come lo stesso ricorrente espressamente afferma a pag. 14 del suo ricorso, l’art. 702-quater c.p.c., in materia di appello nel rito sommario di cognizione, non contiene alcuna previsione relativa al rito ed al modello del giudizio d’impugnazione, limitandosi a prevedere che «l’ordinanza emessa ai sensi del sesto comma dell’articolo 702-ter produce gli effetti di cui all’articolo 2909 del codice civile se non è appellata entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione. Sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene indispensabili ai fini della decisione, ovvero la parte dimostra di non aver potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile».

A fronte del silenzio serbato dal legislatore, la giurisprudenza di questa Corte, dapprima con l’ordinanza del 26 giugno 2014, n. 14502 in riferimento all’appello ex art. 702-quater c.p.c., contro l’ordinanza del Tribunale reiettiva del ricorso avverso il diniego di permesso di soggiorno per motivi familiari di cui all’art. 30, comma primo, lett. a), del d.lgs. 286/1998, poi con la sentenza delle Sezioni unite 10 febbraio 2014, n. 2907 (con riferimento all’appello avverso sentenze in materia di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, pronunciate ai sensi dell’art. 23 della l. 24 novembre 1981, n. 689, in giudizi iniziati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150), e infine con la sentenza resa dalle Sezioni unite della Cassazione dell’8 novembre 2018, n. 28575, ha ritenuto che la previsione legislativa della possibilità dell’appello, riguardo ad una decisione emessa a seguito di procedimento di primo grado regolato da un rito sommario (nella specie quello di cui all’art. 28 del d.lgs. 150/2011) imponesse – in difetto di diversa regolamentazione legislativa, nel caso ritenuta sussistente – di identificare la disciplina dell’impugnazione in quella prevista per l’ordinario processo di cognizione.

Invero, l’assenza nell’art. 702-quater di alcuna regolamentazione circa la forma dell’appello implicava l’esclusione di una sorta di «trascinamento del rito» di cui al giudizio sommario di primo grado (cfr. Sez. un., 9 ottobre 2018, n. 28575 cit.), con la conseguenza che, salva l’applicazione diretta del disposto del secondo e del terzo inciso dell’art. 702-quater [che si sovrappongono alla disciplina dell’appello ordinario e, peraltro, con previsioni che, almeno fino alla modifica del terzo comma dell’art. 345 c.p.c., operata dall’art. 54, comma 1, lett. b), del d.l. 83/2012, convertito nella l. 134/2012, erano rimaste prive di effettiva specialità], l’appello rimane regolato dalle norme disciplinatrici del rito ordinario.

1.3. Appare ininfluente, poi, che il giudizio di impugnazione sia stato assegnato alla sezione lavoro della Corte di appello di Roma per ragioni di competenza tabellare e in coerenza con l’assegnazione del giudizio di primo grado, circostanza questa che assume rilievo solo nella prospettiva della distribuzione interna degli affari, priva di ricadute sulla determinazione del rito da seguire.

Né si può condividere l’argomento speso dal ricorrente nella memoria del 17 maggio 2018 per desumere dal riferimento alla competenza per materia del giudice del lavoro contenuto nella sentenza impugnata, in sede di esame del secondo motivo di appello, la «presuntiva» applicazione delle norme di quel rito.

Le norme del rito del lavoro non sono state applicate nel giudizio di secondo grado, così come non lo erano state nel primo (pag. 2, primo rigo, dello svolgimento del processo), né il ricorrente indica come e in qual modo sarebbero state applicate dalla Corte bresciana.

Nel trattare del secondo motivo di gravame, poi, alle pagine 13 e 14 della sentenza impugnata, la Corte territoriale si pronuncia sulla competenza e non sul rito, per giunta precisando, del tutto correttamente, che non si poneva un problema di competenza ma solo di rispetto delle disposizioni tabellari all’interno dello stesso ufficio giudiziario.

1.4. In sintesi: il rito del lavoro non è stato applicato e non doveva esserlo.

  1. Con il secondo motivo, il ricorrente censura la violazione o falsa applicazione degli artt. 75, 81 e 100 c.p.c., nonché la falsa applicazione dell’art. 5 d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216.

2.1. Il ricorrente lamenta che la Corte del merito abbia ravvisato la capacità processuale e la legittimazione ad agire dell’associazione, nonostante questa sia composta esclusivamente da avvocati, o praticanti tali, e sia specializzata nella difesa giudiziaria dei diritti di tali persone.

Secondo il ricorrente, resta dunque priva di rilievo l’enunciazione statutaria dell’intento di diffonderne la «cultura» delle persone LGBT, mero presupposto ideologico dell’associazione medesima; viceversa, un’associazione può dirsi portatrice di interessi collettivi ed ente di essi esponenziale solo ove partecipata dai soggetti attivi per la realizzazione di tali interessi.

Ciò non potrebbe predicarsi di un’associazione composta esclusivamente di avvocati, il cui vero obiettivo è quello di offrire tutela giudiziaria e che non può quindi ritenersi ente rappresentativo dell’interesse della categoria.

Si porrebbe quindi – prosegue il ricorrente – un problema di sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c., in difetto di una specifica disposizione legislativa che preveda la qualità di ente esponenziale in capo all’Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI-Rete Lenford.

2.2. La Corte d’appello, dopo la ricostruzione della disciplina europea e nazionale sul punto, ha riconosciuto la legittimazione ad agire dell’Associazione, in quanto dedita alla «tutela dei diritti e degli interessi delle persone omosessuali», in considerazione dello statuto di quest’ultima, secondo il quale essa «ha lo scopo di contribuire a sviluppare e diffondere la cultura e il rispetto dei diritti delle persone LGBTI, sollecitando l’attenzione del mondo giudiziario», e «gestisce la formazione di una rete di avvocati (…), favorisce e promuove la tutela giudiziaria, nonché l’utilizzazione degli strumenti di tutela collettiva, presso le Corti nazionali e internazionali».

Rete Lenford è stata ritenuta associazione rappresentativa dell’interesse leso ex art. 5 del d.lgs. 216 del 2003 sulla base della deduzione, ex adverso non contestata, dello svolgimento di «una imponente attività di formazione, informazione e sensibilizzazione sul tema dei diritti delle persone e delle coppie omosessuali», «della pubblicazione di diversi volumi sul tema», dell’offerta, tramite gli avvocati associati, di «consulenza legale a diversi cittadini omosessuali in tema di discriminazione, arrivando ad ottenere anche pronunce della Corte costituzionale (n. 138/2010) e della Corte di cassazione (n. 4184/2012) in materia di matrimonio tra persone dello stesso sesso».

2.3. Il quesito posto alla Corte di giustizia UE con l’ordinanza interlocutoria di questa Corte riguardava direttamente l’interpretazione della norma europea e domandava: «Se l’interpretazione dell’art. 9 della direttiva n. 2000/78/CE sia nel senso che un’associazione, composta da avvocati specializzati nella tutela giudiziale di una categoria di soggetti a differente orientamento sessuale la quale, nello statuto, dichiari il fine di promuovere la cultura e il rispetto dei diritti della categoria, si ponga automaticamente come portatrice di un interesse collettivo e associazione di tendenza non profit, legittimata ad agire in giudizio, anche con una domanda risarcitoria, in presenza di fatti ritenuti discriminatori per detta categoria».

2.3.1. La Corte di giustizia UE con la sentenza 23 aprile 2020 ha risposto che: «La direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale in virtù della quale un’associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consista nel difendere in giudizio le persone aventi segnatamente un determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di persone, sia, in ragione di tale finalità e indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa, automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva summenzionata e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, ai sensi di detta direttiva, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa».

2.3.2. Più in dettaglio, la Corte di giustizia – come sottolinea l’avv. T nella sua memoria, ma non nega neppure l’Associazione Rete Lenford – ha risposto, in motivazione, in senso negativo al quesito circa l’interpretazione del diritto europeo.

La Corte di giustizia ha ricordato infatti che «ai sensi dell’art. 9, par. 2, della direttiva 2000/78, gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un legittimo interesse a garantire che le disposizioni di tale direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno di una persona che si ritenga lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla direttiva suddetta».

Il diritto dell’Unione, quindi, non esige che ad un’associazione, come l’odierna controricorrente, sia riconosciuta negli Stati membri la legittimazione ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi scaturenti dalla direttiva 2000/78, nel caso in cui non sia identificabile alcuna persona lesa.

2.3.3. La Corte di giustizia ha aggiunto, tuttavia, che il diritto dell’Unione (art. 8) ammette gli Stati membri a concedere una tutela più incisiva di diritto nazionale rispetto agli atti discriminatori in ambito lavorativo (nel caso basati sull’orientamento sessuale) e soprattutto che non contrasta con il diritto dell’Unione una normativa nazionale che preveda la legittimazione attiva di un’associazione esponenziale, anche composta da avvocati, a prescindere dal suo scopo o meno di lucro.

Secondo la CGUE, quindi, uno Stato membro ben può operare una scelta estensiva, avvalendosi della facoltà sancita dall’art. 8, par. 1, della direttiva 2000/78, letto alla luce del considerando 28, che stabilisce che gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste nella direttiva stessa.

In tal caso, spetta a tale Stato decidere se e a quali condizioni un’associazione possa avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far constatare l’esistenza di una discriminazione vietata dalla direttiva n. 78 del 2000 e a far sanzionare tale discriminazione, nonché stabilire «se lo scopo di lucro o meno dell’associazione debba avere un’influenza sulla valutazione della legittimazione dell’associazione stessa ad agire in tal senso».

In tale prospettiva – ha sostenuto la Corte di giustizia UE – l’art. 9, par. 2, della direttiva 2000/78 non osta in alcun modo a che uno Stato membro, nella propria normativa nazionale, riconosca alle associazioni aventi un legittimo interesse a far garantire il rispetto di tale direttiva il diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare gli obblighi derivanti dalla direttiva stessa senza agire in nome di una determinata persona lesa ovvero in assenza di una persona lesa identificabile (sentenza del 25 aprile 2013, Asociatia Accept, C-81/12, EU:C:2013:275, punto 37).

2.4. La questione interpretativa si trasferisce quindi sul versante del diritto nazionale; a tal proposito la Corte di giustizia ammette entrambe le soluzioni e del resto l’Italia ha sostenuto nel giudizio dinanzi alla CGUE che la questione, in ultima analisi, atteneva al diritto nazionale.

2.4.1. L’art. 5 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 al comma 1 prevede che «le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso (…) sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio».

Al comma 2 aggiunge però che «i soggetti di cui al comma primo sono altresì legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione».

2.4.2. Giova ricordare che l’art. 5 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, così corretto dall’art. 2 del d.lgs. 2 agosto 2004, n. 256, recitava originariamente:

«Le rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio.

Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione».

2.4.3. Il testo attuale è il frutto di modifiche apportate nel 2008 ad opera dell’art. 8-septies del d.l. 8 aprile 2008, n. 59, inserito dall’art. 1 della l. 6 giugno 2008, n. 101, in sede di conversione, in seguito e in relazione alla messa in mora subita dall’Italia nell’ambito della procedura di infrazione n. 2006/2441, relativa alla non corretta applicazione della direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

2.4.4. La definizione degli enti esponenziali legittimati ossia «le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso» è sostanzialmente assimilabile a quella contenuta nell’art. 9 della Direttiva, dove si parla delle «associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate».

Il criterio scelto dal legislatore per attribuire la legittimazione alle associazioni e alle organizzazioni è quello della rappresentatività dell’interesse leso, senza richiedere che i soci e aderenti ne siano specificamente e personalmente titolari.

Nulla osta quindi, sul terreno del diritto nazionale, al pari di quello europeo, come chiarito dalla Corte di giustizia, a che l’associazione esponenziale raccolga le adesioni di avvocati con la finalità statutaria, fra l’altro, di difendere in giudizio le persone caratterizzate da un certo orientamento sessuale (LGBTI) piuttosto che associare persone di quell’orientamento.

2.4.5. È pur vero che la norma in questione attribuisce la legittimazione ad agire agli enti esponenziali, in difetto di un intervento pubblico preventivo selettivamente teso ad accertare la rappresentatività dell’associazione, in difformità dalla disciplina prevista in altri settori in cui la legittimazione presuppone l’iscrizione in un albo pubblico o comunque un controllo pubblico [cfr. ordinanza interlocutoria, pag. 9: elenco ex art. 5 d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215, di attuazione della direttiva 2000/43/CE, con riguardo alla discriminazione a causa della razza; art. 52, comma 1, lett. a), d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, in tema di registro delle associazioni, degli enti e degli altri organismi privati che svolgono le attività a favore degli stranieri immigrati; artt. 137 e 139 d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, in tema di associazione dei consumatori e degli utenti; artt. 13 e 18 della l. 8 luglio 1986, n. 349, in materia di danno ambientale; nonché – può aggiungersi – art. 840-bis, comma 2, c.p.c., in tema di legittimazione all’azione di classe in capo a organizzazioni e associazioni iscritte in un elenco pubblico istituito presso il Ministero della giustizia].

2.4.6. Il dato testuale appare tuttavia insuperabile, tanto più che il legislatore del 2008 è intervenuto sul tessuto di una norma che prevedeva un requisito di rappresentatività relativo alle organizzazioni sindacali e ha inteso allargare la platea dei soggetti legittimati, senza porre alcun altro requisito che la rappresentatività del diritto o dell’interesse leso, in evidente e quindi non casuale divergenza dalla norma «gemella» contenuta nell’art. 15 del d.lgs. 215/2003, in tema di discriminazioni etniche e razziali, pur oggetto anch’essa di contestuale intervento di revisione ad opera dello stesso d.l. 59/2008 con l’art. 8-sexies, esso pure introdotto dalla legge di conversione.

2.4.7. Non vi è neppure spazio per il dubbio di legittimità costituzionale, adombrato dal ricorrente, a fronte dell’evidente esercizio di una discrezionalità legislativa.

2.4.8. Non possono essere condivise neppure le argomentazioni del ricorrente, sviluppate per vero solo con la memoria illustrativa del 29 ottobre 2020, rivolte ad invocare il principio di equivalenza di tutela.

Nel caso in esame coloro che fanno valere diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione non soffrono alcun svantaggio di protezione rispetto a coloro che invocano situazioni giuridiche soggettive nazionali, visto che la disciplina italiana assimila completamente i presupposti della legittimazione attiva nei due commi dell’art. 5 del d.lgs. 216 del 2003.

Nella fattispecie, poi, il principio di equivalenza verrebbe invocato come fuor d’opera e solo per restringere la tutela accordata dall’ordinamento nazionale, non per ampliarla nei diversi settori ove il nostro ordinamento avrebbe introdotto indebite restrizioni.

2.4.9. Con la memoria del 29 ottobre 2020 il ricorrente avv. T insiste sulla necessità dell’esclusione dello scopo di lucro dell’associazione esponenziale.

Al riguardo Rete Lenford contesta le avversarie osservazioni e sostiene che il suo statuto esclude espressamente lo scopo di lucro e offre prove documentali in questo senso.

A tal proposito occorre ricordare, in primo luogo, che la Corte di giustizia, specificamente sollecitata dall’ordinanza di rimessione n. 19443 del 2018 (pag. 11) con riferimento alla raccomandazione della Commissione europea dell’11 giugno 2013 (2013/396/UE) ha espressamente escluso che il diritto europeo osti a una normativa nazionale che attribuisca la legittimazione attiva scaturente dalla direttiva n. 78 del 2000 a far rispettare gli obblighi «indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa», chiarendo che l’introduzione o meno di tale requisito rientra nelle facoltà degli Stati membri (cfr. § 64).

In secondo luogo, va constatato che l’art. 5 del d.lgs. 216/2003 non richiede, almeno esplicitamente, il requisito dell’assenza dello scopo di lucro, oggettivo (che si ha quando l’attività svolta ha come scopo la produzione di utili) o soggettivo (che si ha quando gli utili vanno ai soci, anziché finanziare attività di carattere ideale, culturale, benefico ecc.).

2.4.9.1. La Corte osserva tuttavia che il secondo motivo di ricorso (pag. 15-16 del ricorso) non propone affatto tale questione.

Come si è ricordato, il ricorrente ha contestato che Rete Lenford fosse un ente esponenziale legittimato sia perché composta esclusivamente da avvocati, sia perché il suo «vero scopo» sarebbe solo quello di offrire tutela giudiziaria, sia perché mancherebbe un crisma legislativo, sia perché la Corte di appello di Brescia avrebbe errato accogliendo una interpretazione estensiva.

La questione dello scopo o meno di lucro dell’Associazione controricorrente è estranea al motivo di ricorso, così ampliato indebitamente con la memoria.

Nel giudizio civile di legittimità, con le memorie di cui all’art. 378 c.p.c., destinate esclusivamente ad illustrare ed a chiarire i motivi della impugnazione, ovvero alla confutazione delle tesi avversarie, non possono essere dedotte nuove censure né sollevate questioni nuove, che non siano rilevabili d’ufficio, e neppure può essere specificato, integrato o ampliato il contenuto dei motivi originari di ricorso (Sez. 2, n. 24007 del 12 ottobre 2017, Rv. 645587-01; Sez. 1, n. 26332 del 20 dicembre 2016, Rv. 642766-01; Sez. 6-3, n. 3780 del 25 febbraio 2015, Rv. 634440-01; Sez. 2, n. 30760 del 28 novembre 2018, Rv. 651598-01).

2.4.9.2. La questione inoltre appare nuova nell’ambito dell’intero giudizio, poiché il ricorrente non ha indicato quando e come avrebbe formulato tale eccezione nel corso del giudizio di merito, sottoponendola al contraddittorio.

Qualora una questione giuridica – implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa (Sez. 6-5, n. 32804 del 13 dicembre 2019, Rv. 656036-01; Sez. 2, n. 2038 del 24 gennaio 2019, Rv. 652251-02; Sez. 2, n. 20694 del 9 agosto 2018, Rv. 650009-01).

2.5. Le censure del ricorrente non appaiono meritevoli di accoglimento neanche nella parte in cui affermano che, una volta riconosciuta la qualifica di ente esponenziale all’Associazione, si porrebbe un problema di sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c., in difetto di una specifica disposizione legislativa che preveda tale qualità in capo alla controricorrente e le attribuisca la capacità di rappresentare gli interessi della categoria.

2.5.1. L’art. 5 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 («Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro»), afferma espressamente, al comma primo, che «le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso (…) sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio». Al comma secondo si aggiunge che «i soggetti di cui al comma primo sono altresì legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto ed immediato le persone lese dalla discriminazione».

Risulta pertanto evidente che lo stesso legislatore, con le disposizioni citate, ha inteso attribuire la legittimazione ad processum alle associazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, non solo quando le stesse agiscano a tutela di discriminazioni perpetrate a danno di soggetti individuabili, ma anche in presenza di discriminazioni collettive.

2.5.2. Invero, con il secondo comma del citato art. 5, il legislatore ha riconosciuto all’associazione la rappresentanza ex lege per conto di una collettività indeterminata, a condizione che venga operato positivamente un duplice accertamento, relativo: a) all’impossibilità di individuare il soggetto o i soggetti singolarmente discriminati; b) alla rappresentatività dell’associazione rispetto all’interesse collettivo in questione.

Il requisito sub a) postula che la discriminazione, in quanto compiuta in violazione della parità di trattamento sul lavoro, abbia colpito una categoria indeterminata di soggetti, rientrante nel disposto dell’art. 2 d.lgs. n. 216 del 2003.

Il requisito sub b) va verificato sulla base dell’esame dello statuto associativo, il quale dovrà univocamente contemplare la tutela dell’interesse collettivo assunto a scopo dell’ente, che di esso si ponga quale esponenziale: deve, dunque, trattarsi di un interesse proprio dell’associazione, posto in connessione immediata con il fine statutario, cosicché la produzione degli effetti del comportamento controverso si risolva in una lesione diretta dello scopo istituzionale dell’ente, il quale contempli e persegua un fine ed un interesse, assunti nello statuto a ragione stessa della sua esistenza e azione.

2.5.3. La sentenza impugnata ha ritenuto l’Associazione, odierna controricorrente, legittimata all’azione per il fatto che, secondo l’art. 2 dello statuto, l’associazione si propone, in generale, «lo scopo di contribuire a sviluppare e diffondere la cultura e il rispetto dei diritti delle persone» con date preferenze sessuali «sollecitando l’attenzione del mondo giudiziario», e, quindi, in particolare, che essa «gestisce la formazione di una rete di avvocati…, favorisce e promuove la tutela giudiziaria, nonché l’utilizzazione degli strumenti di tutela collettiva, presso le Corti nazionali e internazionali» (p. 11-12 sentenza impugnata), così conformandosi ai principi di diritto nazionale e sovranazionale sin qui esposti.

2.5.4. L’art. 5 del d.lgs. 216 del 2003, in difetto di previsione di un controllo pubblico preventivo, in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, ha demandato al giudice del merito la verifica della rappresentatività dell’associazione rispetto all’interesse collettivo che essa pretende di tutelare.

La Corte bresciana ha adempiuto a questo compito, tra l’altro valorizzando, oltre che il contenuto delle norme statutarie di Rete Lenford, le risultanze circa il suo concreto operato: ossia l’attività formativa, informativa, divulgativa e di supporto giurisdizionale da essa svolta, sulla base di elementi di fatto ritenuti neppur contestati dall’attuale ricorrente (sentenza impugnata, pag. 12; vedi supra, nel dettaglio, § 2.2.), con accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità, se non per vizio motivazionale nei limiti attualmente consentiti dall’art. 360, n. 5, c.p.c. e comunque non specificamente censurato.

2.6. La censura, in parte qua, deve essere ritenuta inammissibile.

Conseguentemente, il secondo motivo, proposto sulla base di censure in parte infondate e in parte inammissibili, deve essere complessivamente rigettato con l’enunciazione dei seguenti principi di diritto:

«In tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, l’art. 5, comma 2, del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, come modificato dall’art. 8-septies del d.l. 8 aprile 2008, n. 59, convertito con modificazioni nella l. 6 giugno 2008, n. 101, costituisce esplicazione della facoltà riconosciuta agli Stati membri dall’art. 8 della direttiva 2000/78 di concedere una tutela più incisiva di diritto nazionale rispetto agli atti discriminatori in ambito lavorativo, attribuendo – nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa – la legittimazione attiva ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno a un’associazione che sia rappresentativa del diritto o dell’interesse leso.

Il requisito della rappresentatività dell’ente, per il quale non è stabilito alcun controllo preventivo, deve essere verificato dal giudice del merito sulla base dell’esame del suo statuto, che deve contemplare la previsione univoca del perseguimento della finalità di tutela dell’interesse collettivo assunto a scopo dell’ente, e del suo concreto operato, con un accertamento fattuale che è insindacabile in sede di legittimità, se non per vizio della motivazione nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.».

  1. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione delle regole sulla competenza.

3.1. Il ricorrente sostiene che non sussiste la competenza funzionale del giudice del lavoro, con conseguente violazione dell’art. 158 c.p.c. e carenza di potere giurisdizionale; infatti, non si tratterebbe di una controversia neppure «latamente» di lavoro, come invece affermato dalla sentenza impugnata, non essendo mai stato dedotto un rapporto di tal genere, ma solo un presunto e mai avvenuto reclutamento; né le controversie sulle prestazioni degli avvocati sono soggette al rito del lavoro, poiché riguardano liberi professionisti e non lavoratori subordinati.

3.2. A detta del ricorrente, la controversia avrebbe dovuto essere incardinata dinanzi al giudice ordinario e tale vizio di costituzione dell’organo giudicante avrebbe prodotto una nullità rilevante ai sensi dell’art. 158 c.p.c.

Precisamente, in presenza di una ripartizione di funzioni tra giudici appartenenti allo stesso Tribunale competente per materia, l’esercizio della giurisdizione dell’uno piuttosto che dell’altro, tra gli organi individuati per funzione, sarebbe fonte di carenza di potere giurisdizionale.

3.3. Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente non deduce e non prospetta una questione di competenza; di più, egli non contesta e anzi riconosce implicitamente che la controversia avrebbe dovuto essere trattata presso il Tribunale e la Corte di appello di Brescia.

Il richiamo all’art. 158 c.p.c. è fuor d’opera visto che non si prospetta alcun vizio di costituzione del giudice, ravvisabile solo quando gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all’ufficio, ossia non investita della funzione esercitata secondo le regole dell’ordinamento giudiziario (Sez. 3, 28 febbraio 2019, n. 5808; Sez. 2, 24 gennaio 2019, n. 2047; Sez. 1, 9 gennaio 2016, n. 22845).

In ogni caso, secondo la giurisprudenza di questa Corte a seguito dell’istituzione del giudice unico di primo grado, la ripartizione di funzioni fra le sezioni di uno stesso ufficio giudiziario non implica l’insorgenza di una questione di competenza ma, esclusivamente, di rito, riguardando la distribuzione degli affari all’interno dello stesso ufficio (Sez. 6-3, n. 8905 del 5 maggio 2015, Rv. 635212-01; Sez. 3, n. 20494 del 23 settembre 2009, Rv. 609471-01; Sez. un., n. 1045 del 28 settembre 2000, Rv. 540558-01).

In tal senso si è espressa la Corte bresciana sia pur con la concorrente ratio decidendi formulata alla pagina 14, secondo capoverso, non specificamente censurata.

  1. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 164, comma 3, c.p.c., per la mancanza nell’atto introduttivo dell’avvertimento di cui all’art. 163, comma 1, n. 7, c.p.c., che avrebbe in ogni caso imposto al giudice di primo grado di fissare una nuova udienza.

4.1. La doglianza è inammissibile e comunque manifestamente infondata, anche se è vero che l’art. 702-bis c.p.c. estende anche al ricorso introduttivo del processo sommario di cognizione il requisito dell’avvertimento ex art. 163, comma 2, n. 7, c.p.c. (Sez. 2, 29 settembre 2015, n. 19345).

4.2. In primo luogo il ricorrente si limita a dedurre la violazione della regola e a dolersi della nullità conseguente, senza addurre un concreto pregiudizio al suo diritto di difesa che ne sarebbe derivato.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la parte che propone ricorso per cassazione deducendo la nullità della sentenza per un vizio dell’attività del giudice lesivo del proprio diritto di difesa, ha l’onere di indicare il concreto pregiudizio derivato, atteso che, nel rispetto dei principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire, la impugnazione non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria ma mira a eliminare il concreto pregiudizio subito dalla parte, sicché l’annullamento della sentenza impugnata è necessario solo se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole rispetto a quella cassata (Sez. 2, 2 agosto 2019, n. 20874; Sez. 1, 6 marzo 2019, n. 6518; Sez. 3, 13 febbraio 2019, n. 4159; Sez. 2, 9 agosto 2017, n. 19759; Sez. 3, 27 gennaio 2014, n. 1612; Sez. 3, 13 maggio 2014, n. 10327).

4.3. Inoltre, come la Corte d’appello ha correttamente rilevato, l’Avv. T, costituendosi nel giudizio di primo grado, non si è limitato a eccepire la nullità dell’atto introduttivo del giudizio per mancanza dell’avvertimento di cui all’art. 163, n. 7, c.p.c., ma si è altresì difeso nel merito.

Invero, come già affermato da questa Corte (Sez. 6-3, n. 21910 del 16 ottobre 2014, Rv. 632986-01) l’art. 164, terzo comma, c.p.c., là dove, in ipotesi di nullità della citazione per vizi relativi alla vocatio in ius, quali l’inosservanza del temine di comparizione e l’omissione dell’avvertimento dell’art. 163, n. 7, c.p.c., esclude che la nullità della citazione sia sanata dalla costituzione del convenuto, se egli eccepisca tali nullità, perché in tal caso il giudice deve fissare nuova udienza nel rispetto dei termini, presuppone che il convenuto, nel costituirsi, si sia limitato alla sola deduzione della nullità, senza anche svolgere difese e richiedere la fissazione di una nuova udienza, contegno, questo, che integra sanatoria della nullità della citazione.

Il dovere del giudice di provvedere alla fissazione di nuova udienza non si ricollega ad un’istanza del convenuto, ma direttamente alla proposizione dell’eccezione. Ne deriva che, se il convenuto, costituendosi, svolge le sue difese, il presupposto per l’applicazione della norma non sussiste.

Il legislatore, invero, non avendo richiesto un’istanza del convenuto in aggiunta all’eccezione, ha inteso ricollegare il dovere di fissazione di nuova udienza a una costituzione finalizzata alla sola formulazione dell’eccezione e non anche ad una costituzione che alla formulazione dell’eccezione accompagni lo svolgimento delle difese. Se così fosse, la fissazione dell’udienza dovrebbe avere luogo pur in presenza di una difesa completamente articolata, come è avvenuto nel caso di specie, e sarebbe priva di scopo.

4.4. D’altro canto, occorre considerare che il convenuto che si sia visto notificare una citazione inosservante del termine a comparire o senza l’avvertimento svolto ai sensi dell’art. 163, n. 7, c.p.c. può scegliere di costituirsi e sanare la nullità della citazione, oppure di non costituirsi e lasciare che il giudice la rilevi, oppure ancora costituirsi e limitarsi ad eccepirla; lo spettro di tali possibilità, che rimette al convenuto la decisione su come reagire di fronte alla nullità, esclude che egli abbia anche una quarta possibilità, cioè di costituirsi, eccepire la nullità e svolgere contemporaneamente le sue difese.

Si aggiunga che, poiché la fissazione di una nuova udienza è finalizzata ad assicurare che l’esercizio del diritto di difesa fruisca del termine a comparire o dell’avvertimento siccome ritenuti astrattamente necessari dal legislatore per il rispetto del diritto di difesa, il consentire al convenuto di costituirsi e svolgere l’eccezione e nel contempo le sue difese significa rimettere a lui lo spostamento dell’udienza, in chiara contraddizione con il fatto che, nonostante la nullità, ha svolto le sue difese, pur potendolo non fare.

4.5. In caso di diversa esegesi della norma, la fissazione della nuova udienza nel rispetto dei termini assumerebbe il valore di una concessione al convenuto di un ulteriore termine per integrare le sue difese; invece, poiché il legislatore parla di udienza nel rispetto dei termini tale udienza assume relativamente al convenuto la stessa funzione di quella indicata nella citazione e, dunque, di un’udienza in relazione alla quale il suo comportamento è regolato dagli artt. 166 e 167 c.p.c. e non di un’udienza rispetto alla quale dovranno integrarsi le difese.

Ed ancora l’opposta soluzione, qualora le difese già svolte dal convenuto evidenzino in rito o nel merito ragioni di rigetto della domanda, la fissazione della nuova udienza, in quanto doverosa, impedirebbe al giudice di ravvisare le condizioni per la maturità della causa per la decisione a favore dello stesso convenuto.

4.6. Alla luce di tali considerazioni, non merita accoglimento l’assunto del ricorrente secondo il quale il giudice del primo grado avrebbe dovuto fissare una nuova udienza «a prescindere da un’istanza di parte»: nella specie, l’odierno ricorrente ha sì eccepito la nullità del ricorso per mancanza dell’avvertimento ex art. 163, n. 7, c.p.c., ma non ha formulato alcuna richiesta di fissazione di una nuova udienza e soprattutto ha svolto compiutamente le proprie difese nel merito, così sanando la nullità del ricorso.

Conseguentemente, il motivo deve essere rigettato con l’enunciazione del seguente principio di diritto:

«In tema di nullità della citazione per vizi relativi alla vocatio in ius, quali l’inosservanza del termine di comparizione e l’omissione dell’avvertimento prescritto dall’art. 163, n. 7, c.p.c., l’art. 164, terzo comma, c.p.c., laddove esclude che la nullità della citazione sia sanata dalla costituzione del convenuto, che eccepisca tali nullità – con l’effetto della necessità della fissazione di nuova udienza nel rispetto dei termini -, presuppone che il convenuto, nel costituirsi, si sia limitato alla sola deduzione della nullità, senza svolgere le proprie difese nel merito».

  1. Il quinto e il sesto motivo, strettamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

5.1. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 2, comma 1, lett. a), e 3 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216.

Egli sottolinea che in occasione dell’intervista che ha dato luogo alla domanda giudiziale non si era affatto presentato come datore di lavoro, ma, al contrario, aveva semplicemente ragionato quale privato cittadino e si era limitato ad esprimere un’opinione in riferimento alla categoria degli avvocati.

Ciò era reso palese dal contesto stesso delle sue dichiarazioni, rese non a fronte di un’offerta di lavoro pubblicamente esternata ma durante una trasmissione radiofonica scherzosa e basata sulla provocazione, in cui egli aveva espresso a tinte forti il proprio pensiero, in modo, tuttavia, del tutto astratto ed avulso da qualsiasi ambito lavorativo effettivo.

Non si trattava, cioè, della manifestazione pubblica di una politica di assunzione, tanto più che il ricorrente era in pensione, mentre, nelle sentenze europee Feryn e Asociatia, citate dal giudice del merito, la discriminazione oggetto di valutazione aveva riguardato una procedura di assunzione in corso.

Opinare il contrario avrebbe comportato l’inammissibile compressione dei diritti di libera manifestazione del proprio pensiero di cui all’art. 21 Cost.

Il giudice del merito avrebbe dovuto fare applicazione della teoria dei controlimiti per il contrasto dell’ipotetica opinione della Corte UE con i principi supremi del nostro ordinamento e sollevare la questione pregiudiziale comunitaria, come presupposto di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, invece direttamente disattesa.

5.2. Con il sesto motivo il ricorrente solleva la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, lett. a) e b), e dell’art. 3 d.lgs. n. 216 del 2003, in relazione all’art. 21 Cost., chiedendo di proporre la questione pregiudiziale comunitaria innanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea, al fine di permettere alla Corte costituzionale il controllo sul rispetto dei controlimiti suesposti.

5.3. Giova preliminarmente rilevare che l’art. 2 della Direttiva del 27 novembre 2000, n. 2000/78/CE, al paragrafo 2, precisa che:

«a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

  1. b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale. (…)

La presente direttiva lascia impregiudicate le misure previste dalla legislazione nazionale che, in una società democratica, sono necessarie alla sicurezza pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati e alla tutela della salute e dei diritti e delle libertà altrui».

Il successivo art. 3, concernente il «campo d’applicazione», prevede:

«1. Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:

  1. a) alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione;
  2. b) all’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
  3. c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione;
  4. d) all’affiliazione e all’attività in un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, nonché alle prestazioni erogate da tali organizzazioni. (…)».

5.4. A livello interno, l’art. 1 del d.lgs. n. 216 del 2003, rubricato «oggetto», dispone: «Il presente decreto reca le disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione, in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini».

L’art. 2, circa la «nozione di discriminazione», prevede:

«1. Ai fini del presente decreto (…) per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:

  1. a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
  2. b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone. (…)».

L’art. 3, in tema di «ambito di applicazione», prevede:

«1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree:

  1. a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
  2. b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento;
  3. c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
  4. d) affiliazione e attività nell’àmbito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni. (…)».

5.5. Alla luce del quadro normativo, euro-unitario e nazionale, l’ambito di applicazione della tutela antidiscriminatoria risulta riferito alla situazione che concerne l’instaurazione, l’esecuzione o la conclusione di un rapporto di lavoro; tale normativa persegue l’obiettivo di ricercare una parità di trattamento sul lavoro, sin dalle fasi prodromiche all’inserimento nel contesto lavorativo, al fine di assicurare l’aumento dell’occupazione e quindi il miglioramento delle condizioni di vita.

5.6. Nel caso di specie, come statuito dalla Corte di giustizia nella sentenza resa in via pregiudiziale nel presente procedimento (pag. 12), il fatto che nessuna trattativa ai fini di un’assunzione fosse in corso quando le dichiarazioni discriminatorie sono state rese non esclude che tali dichiarazioni potessero rientrare nell’ambito di applicazione materiale della direttiva 2000/78.

Invero «se talune circostanze, come l’assenza di una procedura di selezione in corso o programmata, non sono decisive per stabilire se delle dichiarazioni siano relative ad una determinata politica di assunzioni e rientrino dunque nella nozione di “condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro” ai sensi dell’art. 2, par. 1, lett. a), della Direttiva 2000/78, è però necessario, affinché dichiarazioni siffatte rientrino nell’ambito di applicazione materiale di quest’ultima (…), che esse possano essere effettivamente ricondotte alla politica di assunzioni di un determinato datore di lavoro, il che impone che il collegamento che esse presentano con le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro presso tale datore di lavoro non sia ipotetico. L’esistenza di tale collegamento deve essere valutata dal giudice nazionale adito nell’ambito di una valutazione globale delle circostanze caratterizzanti le dichiarazioni in questione».

5.7. Pertanto, la Corte bresciana ha correttamente ritenuto che il contenuto discriminatorio di una condotta lesiva delle disposizioni normative in oggetto dovesse essere valutato «in considerazione del pregiudizio, anche solo potenziale, che una categoria di soggetti potrebbe subire in termini di svantaggio o di maggiore difficoltà, rispetto ad altri non facenti parte di quella categoria, nel reperire un bene della vita, quale l’occupazione» (pag. 24, sentenza impugnata).

La stessa Corte, con valutazione in fatto incensurabile in questa sede, ha ritenuto che le dichiarazioni rese dall’avv. T nell’intervista radiofonica abbiano integrato espressioni idonee a dissuadere gli aspiranti candidati omosessuali dal presentare le proprie candidature allo studio professionale dell’odierno ricorrente, così ostacolandone e/o rendendo maggiormente difficoltoso l’accesso al lavoro.

5.8. Sotto diverso profilo, non può essere condiviso nemmeno l’assunto del ricorrente secondo cui l’avv. C T in quel frangente non si sarebbe presentato «come datore di lavoro, ma come privato cittadino, esprimendo una sua opinione e riferendosi unicamente alla categoria degli avvocati» (pag. 20 ricorso).

Invero, come affermato dalla Corte di giustizia (pag. 12 della decisione pregiudiziale), ad assumere rilievo ai fini della valutazione del carattere discriminatorio delle dichiarazioni in questione sono, in primo luogo, lo status dell’autore delle dichiarazioni e la veste nella quale egli si è espresso, che lo configurino come un potenziale datore di lavoro.

In secondo luogo, devono essere presi in considerazione la natura ed il contenuto delle dichiarazioni in questione, che devono riferirsi alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro e dimostrare l’intenzione di discriminare e, infine, il contesto nel quale le dichiarazioni sono state effettuate, in particolare il loro carattere pubblico o privato, e anche il fatto che siano state oggetto di diffusione tra il pubblico.

Non può quindi ritenersi, nel caso concreto, seguendo la falsariga del ragionamento ermeneutico tracciato dalla Corte di giustizia, che il collegamento delle dichiarazioni dell’avv. T con le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro presso di lui e il suo studio professionale, quale datore di lavoro, fosse «meramente ipotetico».

Egli infatti era titolare di un tale studio ed esercitava la professione forense e quindi era potenzialmente un possibile datore di lavoro e assuntore di collaboratori (avvocati, praticanti o impiegati); non rileva neppure che egli percepisse una pensione, visto che egli era dichiaratamente ancora attivo, cosa comunque da verificarsi con riferimento all’epoca del fatto e non all’epoca del giudizio, previa tempestiva deduzione nel processo.

È comunque dirimente il rilievo che secondo la Corte di giustizia il carattere discriminatorio delle dichiarazioni consegue alla non mera ipoteticità della veste di datore di lavoro del dichiarante: situazione questa da escludere con riferimento alla figura di un avvocato molto noto e titolare di uno studio professionale, che rivela pubblicamente la propria scelta programmatica in tema di politica di assunzioni nel suo studio.

Il tema della natura satirica della trasmissione radiofonica «La Zanzara» nel cui contesto sono state rese le dichiarazioni non risulta trattato specificamente nella sede di merito, unica pertinente a una tale valutazione e anche nei motivi di ricorso.

Ciò tanto più che, come risulta dalla sentenza impugnata che le riporta estesamente, le dichiarazioni dell’avvocato T e le sue precisazioni confermative ben determinate anche dopo gli interventi correttivi di conduttore e co-conduttore, hanno un contenuto preciso e inequivocabile: comunque il ricorrente non sostiene affatto che le sue dichiarazioni erano state scherzose e quindi non corrispondenti alle sue reali opinioni, ma assume di essersi limitato a esprimere liberamente il proprio pensiero senza che fosse in corso una procedura di assunzione.

5.9. Alla luce di tali criteri, risulta ineccepibile il ragionamento logico seguito dalla Corte territoriale che, pur constatando che l’art. 21 della Costituzione garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, ha affermato che tale libertà non ha natura di diritto assoluto e pertanto non può spingersi sino a violare altri principi costituzionalmente tutelati, quali, nella specie, gli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost. (cfr. pag. 29 della sentenza impugnata) che tutelano la parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro e la realizzazione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale.

5.10. Le considerazioni sin qui esposte consentono altresì di ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente con il sesto motivo di ricorso.

La Corte di giustizia ha infatti affrontato anche i problemi connessi all’eventuale limitazione all’esercizio della libertà di espressione, ritenuto fondamento essenziale di una società democratica e pluralista rispecchiante i valori sui quali l’Unione si fonda, a norma dell’art. 2 TUE e dell’art. 11 della Carta (sentenza del 6 settembre 2011, Patriciello, C-163/10, EU:C:2011:543, punto 31).

La Corte UE ha rammentato che, in forza dell’art. 52, par. 1, della Carta, la libertà di espressione non è un diritto assoluto e il suo esercizio può incontrare delle limitazioni, purché esse siano previste dalla legge e rispettino il contenuto essenziale di tale diritto nonché il principio di proporzionalità, vale a dire siano necessarie e rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale riconosciuti dall’Unione o all’esigenza di tutela dei diritti e delle libertà altrui.

Secondo la Corte di giustizia, tale situazione sussiste nel caso di specie perché le limitazioni all’esercizio della libertà di espressione scaturiscono dalla direttiva 2000/78 e rispettano inoltre il contenuto essenziale della detta libertà, in quanto applicate unicamente al fine di garantire il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro e la realizzazione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale.

Tali limitazioni – prosegue la Corte di giustizia – rispettano altresì il principio di proporzionalità, poiché i motivi di discriminazione proibiti sono specificamente elencati, l’ambito di applicazione materiale e personale è ben delimitato e l’ingerenza nell’esercizio della libertà di espressione non va oltre quanto è necessario per realizzare gli obiettivi della direttiva, vietando unicamente le dichiarazioni che costituiscono una discriminazione in materia di occupazione e di lavoro.

Infine tali limitazioni sono necessarie per garantire i diritti in materia di occupazione e di lavoro delle persone appartenenti ai gruppi di persone caratterizzati da uno dei motivi previsti specificamente dalla direttiva.

5.11. Non convince il tentativo del ricorrente di invocare con riferimento alla libertà di espressione del pensiero la teoria dei «controlimiti», elaborata dalla Corte costituzionale, che postula l’intangibilità dei principi supremi e dei diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale dello Stato, al fine di salvaguardare l’essenza dell’ordinamento interno nei suoi caratteri peculiari da qualunque forma di aggressione e/o interferenza che possa provenire dalle fonti interne o esterne all’ordinamento.

La Corte costituzionale afferma infatti che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscono un limite all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma, Cost. ed operano altresì quali controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione europea, oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato, rappresentando gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale. In un sistema accentrato di controllo di costituzionalità, la verifica della compatibilità costituzionale (cioè della conformità ai principi irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale) della norma internazionale da immettere ed applicare nell’ordinamento interno, così come interpretata nell’ordinamento internazionale ed avente rango costituzionale in virtù del rinvio operato dall’art. 10, primo comma, Cost., spetta alla sola Corte costituzionale, con esclusione di qualsiasi altro giudice. Infatti, la competenza della Corte è determinata dal contrasto di una norma con una norma costituzionale e, ovviamente, con un principio fondamentale dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero con un principio posto a tutela di un diritto inviolabile della persona, contrasto la cui valutazione non può competere ad altro giudice che al giudice costituzionale. Ogni soluzione diversa si scontra con la competenza a quest’ultimo riservata dalla Costituzione (Corte costituzionale, 22 ottobre 2014, n. 238).

I principi elaborati dalla Corte di giustizia e sopra esposti appaiono perfettamente compatibili con quelli dell’ordinamento costituzionale italiano, nel quale la riconosciuta libertà di manifestazione del proprio pensiero con qualsiasi mezzo deve pur sempre essere contemperata con gli altri principi e diritti garantiti e tutelati dalla Costituzione e cioè i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità, ex art. 2 Cost., il principio di eguaglianza, anche nella sua componente sostanziale in vista della rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, ex art. 3 Cost., il diritto effettivo al lavoro e la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, ex artt. 4 e 35 Cost.

  1. Con il settimo motivo, il ricorrente censura la violazione dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, con riguardo all’onere probatorio.

6.1. Il ricorrente lamenta che la Corte del merito abbia ritenuto che, ai sensi del citato art. 28, spettasse al convenuto, di fronte all’allegazione di elementi di fatto relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, dare la prova dell’insussistenza del fatto censurato, pur avendo egli dimostrato di non avere in corso nessuna assunzione, né che vi fosse alcuna «prassi» di assunzione presso di lui, mancando così il presupposto per l’applicazione della normativa.

6.2. Il motivo è inammissibile per difetto di pertinenza e specificità.

Infatti la sentenza impugnata non ha affatto affermato che vi fosse una procedura di assunzione in corso ed anzi ha ritenuto espressamente (pag. 26) irrilevante tale circostanza, neppur normalmente praticata nella prassi di selezione seguita dagli studi professionali; la sentenza ha dato invece rilievo alle dichiarazioni rese dall’avv. T, ravvisando nelle stesse, con giudizio di fatto non insindacabile in questa sede, l’esternazione di una politica di assunzione discriminatoria volta ad escludere i candidati (non solo avvocati e praticanti, ma anche collaboratori) con orientamento omosessuale, disvelata dalle sue dichiarazioni di non volere persone omosessuali nel proprio studio professionale, di curare a questo scopo una cernita adeguata a prevenire tale evenienza, di non voler assumere omosessuali e di mettere «paletti» in questo senso.

Valutazione questa che, come si è visto nel precedente § 5, è conforme al diritto dell’Unione.

  1. Con l’ottavo motivo, il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 28, comma 5, d.lgs. n. 150 del 2011.

7.1. Il ricorrente sostiene che l’associazione avversaria non possedeva soggettività giuridica e non avrebbe quindi potuto richiedere il risarcimento; non vi sarebbe stata nessuna condotta discriminatoria; inoltre sarebbe errato procedere alla liquidazione del danno sulla base del parametro della notorietà del ricorrente e della diffusione delle sue dichiarazioni, incongrui alla stregua dell’art. 1226 c.c. e rivelanti un intento di mera sanzione discrezionale, mentre la sola pubblicazione del provvedimento avrebbe potuto raggiungere lo scopo riparatorio in modo adeguato.

7.2. Il ricorrente nel lamentare la violazione o falsa applicazione dell’art. 28, comma 5, del d.lgs. 150/2011, ripropone censure e argomentazioni già svolte nel giudizio di appello.

A suo parere, la decisione della Corte d’appello di ancorare l’entità del risarcimento ad elementi quali la notorietà dell’appellante e la diffusione delle sue dichiarazioni, non sembrava espressione del principio di equità di cui all’art. 1226 c.c. ma, piuttosto, tradiva una discrezionalità esercitata con l’intento di infliggere una punizione esemplare.

7.3. Il motivo è inammissibile.

Come correttamente eccepito dall’associazione controricorrente, la determinazione equitativa di un importo a titolo di risarcimento, nel caso ex art. 28 d.lgs. 150/2011, è questione di fatto, che non può essere proposta in sede di legittimità se non sotto il profilo del vizio di motivazione, qui nemmeno lamentato (Sez. 1, 11 ottobre 2006, n. 21802; Sez. 3, 11 novembre 2005, n. 22895).

È consolidato infatti l’orientamento secondo cui l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito (Sez. 3, n. 24070 del 13 ottobre 2017, Rv. 645831-01; Sez. 3, n. 13153 del 25 maggio 2017, Rv. 644406-01; Sez. 1, n. 5090 del 15 marzo 2016, Rv. 639029-01).

Questa Corte ha anche precisato che poiché la liquidazione equitativa, anche nella sua forma cosiddetta pura, consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale il giudice è chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento. Nel consegue che, allorché non siano indicate le ragioni dell’operato apprezzamento e non siano richiamati gli specifici criteri utilizzati nella liquidazione, la sentenza incorre sia nel vizio di nullità per difetto di motivazione (indebitamente ridotta al disotto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost.) sia nel vizio di violazione dell’art. 1226 c.c. (Sez. 3, n. 22272 del 13 settembre 2018, Rv. 650596-01); è pertanto sindacabile in sede di legittimità, come violazione dell’art. 1226 c.c. e, nel contempo, come ipotesi di assenza di motivazione, di motivazione apparente, di manifesta ed irriducibile contraddittorietà e di motivazione perplessa od incomprensibile, la valutazione del giudice di merito che non abbia indicato, nemmeno sommariamente, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al quantum (Sez. lav., n. 16595 del 20 giugno 2019, Rv. 654240-01).

7.4. Come affermato anche dalla Corte di giustizia nella sentenza 23 aprile 2020, l’art. 9, par. 2, della direttiva 2000/78 non osta a che uno Stato membro, nella propria normativa nazionale, riconosca alle associazioni aventi un legittimo interesse a far garantire il rispetto di tale direttiva il diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare gli obblighi derivanti dalla direttiva stessa senza agire in nome di una determinata persona lesa ovvero in assenza di una persona lesa identificabile (sentenza del 25 aprile 2013, Asociatia Accept, C-81/12, EU:C:2013:275, punto 37).

Qualora uno Stato membro operi una scelta siffatta, è tenuto segnatamente a stabilire se lo scopo di lucro o meno dell’associazione debba avere un’influenza sulla valutazione della legittimazione dell’associazione stessa ad agire in tal senso, e a precisare la portata di tale azione, in particolare le sanzioni irrogabili all’esito di quest’ultima, tenendo presente che tali sanzioni devono, a norma dell’art. 17 della direttiva 2000/78, essere effettive, proporzionate e dissuasive anche quando non vi sia alcuna persona lesa identificabile (pagg. 15-16, sentenza del 23 aprile 2020, causa C-507/18).

7.5. La Corte territoriale ha correttamente fatto applicazione del disposto di cui all’art. 28, comma 5, d.lgs. 150/2011 nella parte in cui dispone che il giudice, con l’ordinanza che definisce il giudizio, può condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti.

7.6. Invero, come recentemente chiarito dalle Sezioni unite di questa Corte, nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione poiché, accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo-riparatoria dell’istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza), è emersa anche una natura polifunzionale che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva (Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601).

Nel panorama normativo, molteplici sono le disposizioni che dimostrano la funzione lato sensu sanzionatoria della responsabilità civile. Tra queste, può essere menzionato proprio l’art. 28 del d.lgs. n. 150/2011 sulle controversie in materia di discriminazione, che dà facoltà al giudice di condannare il convenuto al risarcimento del danno tenendo conto del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento (cfr. Sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601 cit.).

7.7. Inoltre – e il rilievo appare dirimente – la Corte d’appello (pagine 34-35 della sentenza impugnata) ha sì dato rilievo al prestigio e alla pubblica notorietà del dichiarante, ma solo nella prospettiva, del tutto corretta in termini di apprezzamento dell’intensità del pregiudizio, della risonanza mediatica e della propagazione delle sue dichiarazioni; ne ha valutato la portata in linea oggettiva, in termini di chiarezza e offensività; ha considerato altresì l’atteggiamento soggettivo del dichiarante che non le aveva mai smentite, dimostrando una certa pervicacia nella sua condotta; in buona sintesi, ha dato conto in modo lineare e comprensibile degli elementi soppesati ai fini della liquidazione, tutti congrui, pertinenti e dotati di attitudine inferenziale: le critiche del ricorrente scivolano inevitabilmente pertanto sul versante del merito insindacabile in sede di legittimità.

  1. Con il nono motivo, il ricorrente censura la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 c.p.c. e 5, comma 6, d.m. n. 55 del 2014, con riferimento al giudizio di primo grado, avendo la Corte territoriale accolto solo parte delle domande dell’Associazione, con parziale reciproca soccombenza.

Inoltre, le spese avrebbero superato il massimo previsto dall’art. 5, comma 6, d.m. n. 55 del 2014, perché i compensi previsti per le tre fasi di studio, introduttiva e decisionale per lo scaglione di riferimento a partire da euro 26.001,00 erano di euro 3.513,00.

8.1. Il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e dell’art. 5, comma sesto, d.m. 55/2014, ritenendo errata la statuizione della Corte d’appello, nella parte in cui ha confermato la condanna dell’odierno ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di primo grado, essendo risultato «parte sostanzialmente soccombente».

Non si tratterebbe, a suo dire, di una soccombenza totale, ma al più parziale e, pertanto, la Corte avrebbe dovuto compensare o ridurre sensibilmente le spese.

8.2. La censura è inammissibile, perché involge la valutazione di merito sulla sostanziale soccombenza, insindacabile in sede di legittimità (Sez. 1, n. 13229 del 16 giugno 2011, Rv. 618273-01).

Inoltre la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (Sez. 2, n. 30592 del 20 dicembre 2017, Rv. 646611-01).

Sotto altro profilo, in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Sez. 6-3, n. 11329 del 26 aprile 2019, Rv. 653610-01; Sez. 6-3, n. 24502 del 17 ottobre 2017, Rv. 646335-01; Sez. un., n. 14989 del 15 luglio 2005, Rv. 582306-01).

Infine, la censura non si confronta neppure in modo completo e puntuale con la ratio decidendi, visto che la Corte bresciana ha espressamente motivato sul carattere marginale delle domande dell’Associazione non accolte (pubblicazione del provvedimento su due quotidiani – e non uno solo – e maggior quantificazione del danno in euro 15.000,00 – rispetto a euro 10.000,00 accordati).

8.3. La doglianza è inammissibile anche nella seconda parte in cui contesta l’importo delle spese liquidate in primo grado e asseritamente confermate erroneamente in appello perché superiori a quanto previsto dall’art. 5, comma 6, del d.m. 55/2014.

La censura incorre infatti nei vizi di non autosufficienza e non specificità poiché non dà conto, se non in modo del tutto generico (pag. 9, primo capoverso), del contenuto dell’ottavo motivo di appello ove si parla solo di una condanna alle spese in primo grado «sproporzionata rispetto al valore della lite visto il d.m. 55/2014».

Così riferita, la censura sarebbe stata inammissibilmente generica. Né tale valutazione può essere modificata alla luce delle indicazioni della sentenza impugnata che, a pagina 4, nel ricapitolare i motivi di appello, fa riferimento solamente a una contestazione della quantificazione delle spese di lite.

La Corte d’appello, con valutazione in fatto incensurabile in questa sede, ha infatti chiarito che «il valore dell’odierno procedimento non può ridursi a quello riguardante il danno non patrimoniale oggetto di risarcimento, posto che ai sensi dell’art. 10 c.c., e dell’art. 5 del d.m. 55/2014, il valore della causa va determinato sommando il valore delle domande e la domanda di accertamento della sussistenza di una condotta discriminatoria è senz’altro di valore indeterminato. Da ciò deriva che lo scaglione utilizzabile è diverso da quello indicato dal ricorrente e va individuato, quantomeno, in quello superiore, che parte dalla somma di euro 26.001,00» (pag. 36 sentenza impugnata).

Dal che si desume che il motivo di appello aveva fatto riferimento a uno scaglione differente e inferiore.

Infine la censura appare generica anche laddove sostiene che avrebbe dovuto farsi riferimento solo alle attività di studio, introduzione e decisione, senza alcuna ulteriore esplicazione degli incombenti processuali che avevano caratterizzato lo svolgimento della controversia, che pur aveva comportato lo svolgimento di una udienza di trattazione.

Giova ricordare che in tema di spese processuali, salvo il rispetto dei parametri minimi e massimi, la determinazione in concreto del compenso per le prestazioni professionali di avvocato è rimessa esclusivamente al prudente apprezzamento del giudice di merito (Sez. 1, n. 4782 del 24 febbraio 2020, Rv. 657030-01).

Per altro verso, la condanna al pagamento di euro 5.000,00 per compensi professionali non supera affatto né i parametri massimi (euro 13.402,00), né quelli medi (euro 7.254,00), previsti per lo scaglione di riferimento (superiore ad euro 26.001,00), considerando le quattro voci (studio, introduzione, trattazione e decisione) e la situazione non muta neppure considerando solo tre voci (studio, introduzione, trattazione e decisione) perché i parametri massimi sono di euro 9.962,00 e quelli medi di euro 5.534,00.

  1. Il ricorso deve dunque essere rigettato.

Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese processuali per la novità delle questioni in tema di legittimazione attiva alla proposizione dell’azione in tema di discriminazione e di necessità del collegamento fra le dichiarazioni discriminatorie e una procedura di assunzione in atto, su cui non constavano precedenti e che hanno reso necessaria la proposizione alla Corte di giustizia dell’Unione europea di una questione pregiudiziale interpretativa ex art. 267 TFUE.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese processuali.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, ove dovuto.