Rifiuto del rider di sottoscrivere un contratto previsto da un’organizzazione non rappresentativa, discriminazione sindacale, Tribunale Palermo, ordinanza del 12 aprile 2021

TRIBUNALE ORDINARIO DI PALERMO

Sezione Lavoro

Il Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro ed in persona del Giudice dott. Cinzia Soffientini, nella causa civile RGL n. 740 del 2021 tra,

FILCAMS CGIL PALERMO, NIDIL CGIL PALERMO, FILT CGIL PALERMO, nella qualità di mandatari ex art. 5 D.Lgs. n. 216/2003 di P F con gli avv.ti DE MARCHIS GOMEZ CARLO, LO MONACO GIORGIA, BIDETTI MARIA MATILDE, SERGIO VACIRCA

e S. F S.R.L., con gli avv.ti IMPURGIA SERGIO, MARINELLI MASSIMILIANO, BUTTA’ FILIPPO,

sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 30.03.2021, ha pronunciato la seguente

ordinanza

Con ricorso depositato in data 29.01.2021 le associazioni in epigrafe deducevano che F P(in nome e per conto del quale agivano, di seguito indicato come “il ricorrente”), svolgente attività di “ciclofattorino” in favore della società resistente in forza di successivi contratti di collaborazione di durata annuale, aveva subito – nel periodo 26.06.2020/02.11.2021 – una discriminazione nello svolgimento della propria attività in ragione della sua affiliazione e militanza sindacale, consistente nel rifiuto da parte della società datoriale di assegnargli le sessioni di lavoro prenotate, e di avere parimenti subito, per le medesime ragioni – nel periodo successivo – una discriminazione nelle condizioni di lavoro, per non essergli stato consentito di rinnovare il suo rapporto con S F.

Concludeva quindi con la domanda di accertamento del carattere discriminatorio sindacale della mancata conferma/assegnazione delle sessioni di lavoro prenotate e del recesso dal contratto di lavoro comunicata con lettera del 21 ottobre 2020, nonché con la domanda di condanna della resistente al risarcimento del danno patrimoniale subito dal giugno 2020 al ripristino del rapporto contrattuale e comunque fino alla sua naturale scadenza e del danno non patrimoniale causato dalle discriminatorie in misura pari ad € 13.903,08.

Chiedeva altresì la pubblicazione dell’emanando provvedimento nella pagina del sito web di S Fs.r.l. dedicata all’offerta di impiego: “unisciti a noi” e su almeno tre quotidiani nazionali con il formato piena pagina nonché ordinarsi, ai sensi dell’art. 28, 5 co. del d.lgs 1 settembre 2011 n. 150, l’adozione di un piano di rimozione delle discriminazioni di carattere sindacale ovvero delle prassi che ostacolano l’esercizio dei diritti sindacali conformemente, sentite le organizzazioni sindacali.

Con memoria in data 18.03.2021 si costituiva in giudizio la resistente che deduceva, in via preliminare, la inammissibilità dell’azione per essere le discriminazioni causate dalla affiliazione sindacale escluse dall’ambito di applicazione del D.Lgs n. 216/2003. Nel merito, la società affermava la infondatezza del ricorso, del quale chiedeva il rigetto.

In assenza di attività istruttoria, all’udienza del 30.03.2021 la causa veniva assunta in riserva

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Occorre in via preliminare affermare l’ammissibilità del ricorso.

Come ha recentemente chiarito la Suprema Corte, “In tema di discriminazione vietata, l’espressione «convinzioni personali» di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. 216/2003 comprende anche le motivazioni e l’affiliazione sindacale che — al pari di quella religiosa — ben può ritenersi un’ideologia connotata da specifici motivi di appartenenza a un ente qualificato a rappresentare opinioni, idee e convinzioni, rilevanti ai fini della tutela poiché oggetto di possibili atti discriminatori vietati.” (così Cassazione civile, sez. lav. , 02/01/2020 , n. 1).

Pertanto, deve ritenersi che la condotta dedotta in giudizio rientri tra quelle tutelabili con lo strumento oggi azionato.

Nel merito, premesso che la qualificazione del rapporto non è oggetto del presente giudizio, deve osservarsi che parte ricorrente deduce l’esistenza di due distinte condotte discriminatorie, l’una relativa al periodo 26.06.2020/02.11.2020, nel quale la società resistente non gli avrebbe più assegnato gli incarichi di consegna in ragione della attività sindacale svolta, l’altra, relativa al periodo successivo, determinata dalla risoluzione anticipata del contratto in corso e dalla successiva mancata sottoscrizione del nuovo contratto.

Afferma la resistente che la mancata assegnazione degli incarichi per il periodo successivo al 26 giugno (che dunque rappresenta circostanza in punto di fatto non contestata) sarebbe stata conseguenza dell’inadempimento del ricorrente, che si rifiutava di effettuare le consegne direttamente al piano del cliente e pretendeva di lasciare gli alimenti in portineria, o in ascensore, difformemente da quanto previsto nella lettera di assunzione dell’incarico e comunque da quanto stabilito dalla società stessa.

Deduce poi che la mancata sottoscrizione del nuovo contratto sarebbe da imputarsi ad una scelta esclusiva del ricorrente, che non lo ha sottoscritto non condividendone la disciplina.

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Con riferimento alla prima delle condotte dedotte in giudizio, deve osservarsi che la nozione di discriminazione sia diretta che indiretta è stabilita dall’art. 2 del D.Lgs. 216/2003, che definisce la prima come riferita alle ipotesi in cui “per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga” e la seconda con riferimento ai casi in cui “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

Mentre nel caso di discriminazione diretta è la condotta, il comportamento tenuto, che determina la disparità di trattamento, nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l’effetto di un atto, di un patto di una disposizione di una prassi in sè legittima; di un comportamento che è corretto in astratto e che, in quanto destinato a produrre i suoi effetti nei confronti di un soggetto con particolari caratteristiche, che costituiscono il fattore di rischio della discriminazione, determina invece una situazione di disparità che l’ordinamento sanziona (Cass. 25/07/2019, n. 20204).

La discriminazione opera obiettivamente ovvero in ragione dei mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (cfr Cass. n. 28543/2018; n. 6575/2016) e la comparazione può essere attuale o meramente ipotetica.

Per ciò che concerne l’onere della prova, deve osservarsi che “Nei giudizi antidiscriminatori, i criteri di riparto dell’onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all’ art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui all’ art. 4 del d.lgs. 216 del 2003 (applicabile ratione temporis), che non stabiliscono un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente, prevedendo una presunzione di discriminazione indiretta per l’ipotesi in cui, specie nei casi di coinvolgimento di una pluralità di lavoratori, abbia difficoltà a dimostrare l’esistenza degli atti discriminatori; ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione” (così Cass. n. 1/2020 cit.).

Venendo al caso concreto, deve osservarsi che la circostanza che dal 28 giugno 2020 non siano più stati assegnati al ricorrente incarichi di consegna non è contestata. Parimenti non contestata, tenuto conto delle difese delle parti, è la circostanza che il ricorrente abbia fatto reiteratamente richiesta alla società resistente di applicare un protocollo che escludesse il contatto con cliente, da sostituirsi con la consegna della merce nell’eventuale androne o altro spazio comune al piano terra del luogo di destinazione, ovvero attraverso la collocazione del pacco in ascensore, e ciò – si afferma – al fine di tutelare la salute del lavoratore e del cliente in tempi di emergenza COVID.

Risulta dunque evidente che occorre stabilire se questa condotta sia lecita, rappresentando sostanzialmente una reazione del lavoratore alla violazione, da parte del datore di lavoro, del dovere di garantirne la sicurezza, obbligo sancito dall’art. 2087 cc., perché soltanto se la condotta del lavoratore rappresenta una reazione lecita all’inadempimento datoriale, allora la reazione della società può senz’altro essere configurata come discriminatoria.

Dispone l’art. 2087 cc che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

In altre parole, al datore di lavoro è imposto il dovere di porre in atto ogni misura necessaria ed idonea a prevenire non soltanto i rischi tipici insiti all’ambiente di lavoro; egli è altresì chiamato ad un dovere di prevenzione anche rispetto a quelli derivanti da fattori esterni. Ciò in quanto la sicurezza dei lavoratori è un bene di rilevanza costituzionale, che impone all’imprenditore di anteporre alla propria attività e al profitto derivante dall’impresa, la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori.

Il datore di lavoro assume una posizione di garanzia che gli impone di adottare ogni misura preventiva imposta dalla legge, nonché dalla comune prudenza e quelle che, da una valutazione in concreto, si rivelino necessarie per adempiere al dovere di protezione e prevenzione.

Naturalmente, tale posizione di garanzia deve essere esaminata alla luce della situazione sanitaria in atto e non vi è dubbio che sia riferita anche ai “riders”, indipendentemente dalla qualificazione giuridica del rapporto (cfr. art 47 septies D.Lgs. n. 81/2015)

Orbene, tenuto conto delle disposizioni impartite dal Ministero della Salute via via nel tempo, deve ritenersi che il datore di lavoro sia sicuramente obbligato alla consegna delle mascherine chirurgiche e del gel igienizzante (cfr, in termini Tribunale , Bologna , sez. lav. , 14/04/2020 , n. 2529; Trib. Firenze 01.04.2020), presidi che la resistente afferma – e la circostanza non è stata contestata – di avere consegnato (cfr. pag 9 memoria: “la convenuta dotò immediatamente i propri rider di mascherine chirurgiche, quando queste erano introvabili sul mercato, e diede loro 5 euro per l’acquisto di prodotti igienizzanti per le mani”).

E’ poi fuor di dubbio che, sempre nel rispetto delle direttive emanate dal Ministero della Salute, e comunque in applicazione delle regole generali reiteratamene emanate dagli organi competenti, la consegna debba essere effettuata in sicurezza, e quindi mantenendo sempre la distanza. Sarebbe poi legittimo, se non obbligatorio, richiedere al consumatore di indossare, quando riceve il pacco, una mascherina. Infine, il Consiglio Superiore di Sanità ha chiarito che la consegna deve essere effettuata senza entrare nell’abitazione del cliente.

Al contrario, nessuna delle linee guida attualmente adottate e comunque nessuna disposizione proveniente dal Ministero della Sanità include, tra le misure da adottare, la consegna negli spazi comuni al piano terra (androni, portinerie ecc) ovvero direttamente nell’ascensore, ovvero esclude la consegna al piano.

Peraltro, deve anche osservarsi che non vi è alcuna deduzione in atti che consenta di ritenere tale misura idonea a tutelare – o a maggiormente tutelare – il lavoratore dal rischio di contrarre il virus.

Deve quindi ritenersi che l’esclusione della consegna ai piani non rappresenti una misura necessaria, o idonea, per prevenire i rischi – tipici e non – insiti all’ambiente di lavoro, così che la condotta tenuta dal ricorrente non può essere considerata quale legittima reazione ad un comportamento illegittimo del datore di lavoro. Conseguentemente, deve affermarsi che la pretesa di non consegnare ai piani configuri un inadempimento del lavoratore, inadempimento che ha reso legittima l’esclusione operata dal datore di lavoro (esclusione operata, per concorde ammissione delle parti, anche nei confronti degli altri lavoratori che avevano tenuto la stessa condotta).

Deve pertanto escludersi, alle luce delle considerazioni che precedono, la lamentata discriminazione.

La sopra esposta conclusione trova poi ulteriori elementi di conferma nel fatto (si tratta di circostanze non contestate) che l’attività sindacale del ricorrente ha avuto inizio nel novembre 2019; che la società resistente ha comunque proceduto al rinnovo del contratto in data 26 giugno, e ciò nonostante gli interventi di denuncia del ricorrente – che hanno avuto anche eco mediatica; che altri iscritti al sindacato e firmatari del documento prodotto sub 26 non hanno subito alcuna riduzione delle consegne, elementi tutti che – benchè ininfluenti rispetto alla dedotta discriminazione personale – comunque concorrono a contestualizzare le condotte in esame.

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Con riferimento alla seconda delle condotte denunciate, “non aver potuto proseguire il suo rapporto di lavoro fino alla naturale scadenza del contratto in quanto il rapporto negoziale è stato risolto ante tempus per non avere accettato un accordo collettivo sottoscritto da altra associazione sindacale in coerenza con la sua affiliazione sindacale”, deve osservarsi – in punto di fatto – che la circostanza che la resistente abbia risolto ante tempus il contratto in essere (che avrebbe avuto la sua naturale scadenza il 27.06.2021) al fine di fare poi sottoscrivere un nuovo contratto “il cui contenuto sia armonizzato alle clausole contenute nel predetto contratto collettivo nazionale”, non è contestata.

Per ciò che concerne poi la proposta di sottoscrivere, allo scadere del termine di preavviso, un nuovo contratto, disciplinato in forza dell’accordo medio tempore sottoscritto – per quanto concerne parte datoriale – da A e – per quanto concerne i lavoratori – da UGL, si appalesa del tutto irrilevante stabilire se tale proposta sia stata effettivamente rivolta al ricorrente oppure no, sia perché la condotta denunciata riguarda la risoluzione del rapporto (e non la sua eventuale nuova instaurazione), sia perché comunque il ricorrente ha espressamente dichiarato che “la sua coerenza sindacale (che) non gli ha consentito di accettare un accordo collettivo nel quale il Sig. Pace non si identificava. “.

Deduce parte resistente che tale scelta sarebbe stata “necessitata”, resa obbligatoria dalla sua appartenenza al sindacato firmatario dell’accordo.

Occorre in via preliminare osservare che l’art. 3 del contratto di collaborazione del 27.06.2020 stabilisce che “Il presente contratto ha la durata di un anno con decorrenza dalla data di sottoscrizione in calce indicata e non è soggetto a rinnovo automatico, di guisa che, decorso il suddetto termine, il rapporto fra le parti deve intendersi sciolto. Ciascuna parte potrà recedere dal presente contratto tramite comunicazione scritta da inviare all’altra con 15 giorni di preavviso….”.

Benchè la clausola contrattuale sembri prevedere la libera recedibilità dal contratto per entrambe le parti, deve tuttavia richiamarsi quanto disposto dal primo comma dell’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015, secondo cui “1. A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalita’ di esecuzione sono organizzate dal committente [anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro]. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalita’ di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.

Come è noto, la Suprema Corte ha recentemente affermato che “L’ articolo 2, comma 1, del decreto legislativo n. 81/2015 (nel suo testo precedente alla novella contenuta nel d.l. n. 101/2019 ) deve essere interpretato nel senso che l’intero insieme delle norme protettive dettate per il lavoro subordinato si applica anche al rapporto di collaborazione autonoma — escluse soltanto le norme ontologicamente incompatibili con la struttura della fattispecie —, quando il rapporto stesso sia caratterizzato dall’assoggettamento della prestazione lavorativa a organizzazione da parte del creditore, anche quando non vi sia assoggettamento pieno al suo potere direttivo e neppure assoggettamento a coordinamento spazio-temporale” (Cassazione civile , sez. lav. , 24/01/2020 , n. 1663).

Deve quindi ritenersi che la clausola di recesso citata non possa essere interpretata come di recedibilità ad nutum, dovendosi necessariamente richiedere, per la risoluzione del rapporto ante tempus, che questa sia quanto meno conforme a principi di correttezza e buona fede.

Occorre dunque chiedersi se la causa addotta dalla resistente risponda a tali requisiti.

Già in tempi risalenti la Suprema Corte aveva affermato che “Il contratto collettivo di lavoro (postcorporativo e di natura privatistica) – che è un contratto aperto all’adesione di soggetti non iscritti alle associazioni stipulanti – deve essere osservato dal datore di lavoro, iscritto all’associazione imprenditoriale contraente, anche nei confronti del dipendente non iscritto al sindacato dei lavoratori stipulante, ove tale lavoratore, indipendentemente dalla sua iscrizione al sindacato sottoscrittore, manifesti la volontà di aderire al contratto collettivo con la richiesta che il contratto di lavoro individuale si conformi alla disciplina concordata dalle contrapposte associazioni di categoria.” (così Cassazione civile, sez. lav. , 09/09/1982 , n. 4860).

In sostanza, dunque, i contratti collettivi di lavoro non dichiarati efficaci “erga omnes”, in quanto costituiscono atti di natura negoziale e privatistica, si applicano esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti.

Non esiste quindi nel nostro ordinamento “un principio di inscindibilità tra iscrizione a una associazione datoriale e contratto collettivo applicabile. Tale conclusione, che comporterebbe una limitazione della libertà, per le parti del rapporto, di individuare il contratto collettivo più adatto al tipo di assetto aziendale, non trova alcun supporto nel dato legislativo che solo limita la scelta della iscrizione all’organizzazione datoriale, ma che, sicuramente, non comporta, per una sorta di automatismo, la esclusiva applicazione dei contratti collettivi stipulati dalla organizzazione sindacale, alla quale per il predetto divieto abbia dovuto iscriversi l’azienda” (così Cassazione civile sez. lav., 14/05/2003, n.7465).

Ne deriva quindi, da un lato, che “Il datore di lavoro non ha alcun obbligo di applicazione diretta al rapporto della contrattazione collettiva di settore; ne con segue che, quando l’attività può essere disciplinata da diversi contratti collettivi, potrà scegliere a quale aderire in base alla propria convenienza.” (Tribunale , Roma , sez. lav. , 18/01/2017 , n. 370) e, d’altro lato, che – in applicazione del principio di libertà sindacale – “la stessa efficacia non può essere estesa ai lavoratori i quali, aderendo a un’organizzazione sindacale diversa da quella che ha stipulato l’accordo aziendale, ne condividano l’esplicito dissenso.” (così Cassazione civile , sez. lav. , 28/05/2004 , n. 10353).

Emerge dunque chiaramente che l’ordinamento riconosce e tutela la volontà individuale del lavoratore di dissentire dall’applicazione di quella disciplina, in quanto ritenuta peggiorativa di altra e diversa disciplina che potrebbe essere ritenuta applicabile nella stessa azienda in cui il lavoratore è impiegato (cfr. in termini anche Cassazione civile , sez. lav. , 14/07/2014 , n. 16089).

Facendo applicazione dei richiamati principi al caso di specie, deve quindi affermarsi che la risoluzione del contratto in essere non era “necessitata” e che la mancata prosecuzione del rapporto con il ricorrente concreti una palese discriminazione per motivi sindacali, dovendosi ritenere del tutto legittimo il rifiuto del lavoratore – che ha esplicitato il proprio dissenso alla nuova regolamentazione – di sottoscrivere un contratto regolamentato da una disciplina concordata con una associazione sindacale diversa da quella di appartenenza.

Il ricorso sul punto merita pertanto accoglimento.

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Occorre a questo punto stabilire quali conseguenze derivino dall’accertato carattere discriminatorio del recesso del 21 ottobre 2020.

Orbene, vero è che la consolidata giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato che “Nel contratto di lavoro a tempo determinato la risoluzione anticipata senza giusta causa va regolata dalle norme del codice civile ed, in particolare, dai criteri generali sanciti dagli art. 1223 segg. cod. civ., per cui il danno che il prestatore d’opera eventualmente subisce per effetto dell’arbitrario recesso del datore di lavoro va risarcito mediante la retribuzione complessiva che egli avrebbe percepito sino alla scadenza convenzionale del rapporto, detratti però quei proventi che il lavoratore, dopo la risoluzione del rapporto abbia conseguito, usando la ordinaria diligenza, da una nuova attività lavorativa.” (così la più risalente Cass. 9122/1997, seguita da Cass. 4648/2013 “Il contratto a tempo determinato, in quanto non soggetto alla disciplina di cui alla l. 15 luglio 1966 n. 604, non può essere risolto anticipatamente per giustificato motivo oggettivo; in caso di illegittimo recesso anticipato, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, commisurato all’entità dei compensi che avrebbe percepito fino alla data della scadenza del contratto.”).

Tuttavia, nel caso di specie, il recesso non è solo illegittimo, ma è nullo in ragione della sua natura discriminatoria.

Così che, se da un lato è vero che nel caso di specie si tratta di rapporto di collaborazione a termine, d’altro lato non può non evidenziarsi che “Il rapporto di lavoro dei cosiddetti riders” addetti al food delivery è inquadrabile nell’ambito delle collaborazioni etero-organizzate di cui all’ art. 2 d.lg. n. 81/2015 che non costituiscono un tertium genus intermedio tra la subordinazione e il lavoro autonomo, ma una fattispecie alla quale, al verificarsi delle caratteristiche individuate dallo stesso art. 2 citato, la legge, in un’ottica rimediale, ricollega imperativamente l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione, al fine di tutelare prestatori ritenuti in condizione di debolezza economica e, quindi, meritevoli della stessa protezione di cui gode il lavoratore subordinato.” (così Cass 1663/2020 cit.).

A ciò si aggiunga che la legislazione sovranazionale e nazionale sono certamente indirizzate alla massima tutela dell’individuo (sia come singolo, sia come appartenente ad un gruppo) nell’ambito di situazioni che possono dare luogo a discriminazione, massima tutela che sarebbe pregiudicata se dovesse affermarsi la impossibilità di rimuovere gli effetti della discriminazione stessa.

Infine, deve comunque osservarsi che, trattandosi di nullità, soccorre il generale principio secondo il quale “quod nullum est, nullum producit effectum”.

Pertanto, alla luce delle superiori considerazioni, accertata la nullità del recesso, deve affermarsi il diritto del ricorrente al ripristino del rapporto fino alla sua naturale scadenza (26.06.2021), nonché il diritto del ricorrente a percepire le retribuzioni che avrebbe percepito dalla illegittima risoluzione fino all’effettivo ripristino del rapporto alle condizioni di cui al contratto del 27.06.2020, retribuzioni parametrate all’importo di € 1.158,59 lordi al mese (il compenso medio emerge dalla tabella indicata in ricorso, non contestata).

Inoltre, tenuto conto di quanto disposto dal quinto comma dell’art. 28 del D.Lgs. n. 150/2011, deve ritenersi che la natura discriminatoria della condotta fondi il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, che può equitativamente essere determinato in € 5.000,00.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, tenuto conto del limitato accoglimento

PQM

In parziale accoglimento del proposto ricorso,

–dichiara la natura discriminatoria del recesso intimato al ricorrente in data 21 ottobre 2020;

–per l’effetto ordina alla resistente il ripristino del rapporto alle condizioni di cui al contratto del 27.06.2020, fino alla sua naturale scadenza (26.06.2021);

–dichiara il diritto del ricorrente a percepire le retribuzioni che avrebbe percepito dalla illegittima risoluzione del rapporto fino al suo effettivo ripristino, retribuzioni parametrate all’importo di € 1.158,59 lordi al mese;

–condanna la resistente al risarcimento del danno non patrimoniale, che può equitativamente essere determinato in € 5.000,00 netti;

— condanna la S Fsrl alla rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi € 2.870,00 oltre spese forfettarie, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Palermo il 12/04/2021

Il Giudice

Cinzia Soffientini