Mancato rinnovo del contratto alla lavoratrice incinta, Tribunale di Avezzano, decreto del 25 aprile 2021

TRIBUNALE ORDINARIO DI AVEZZANO

SEZIONE CIVILE

DECRETO

Il Giudice dott. Antonio Stanislao Fiduccia,

nel ricorso ex art. 38, D.Lgs. n. 198/2006, iscritto al n. 103/2021 R.G., promosso da:

C M, con il patrocinio degli avv.ti Manuela Rinaldi e Salvatore Braghini

RICORRENTE

contro

XXXXX, con il patrocinio dell’avv. Guido De Santis

RESISTENTE

ha pronunciato il seguente

DECRETO

Con ricorso ex art. 38, D. Lgs. n. 198/2006 C M adiva l’intestato Tribunale, per ivi sentire accogliere le seguenti conclusioni:

-Accertare e dichiarare la sussistenza di una discriminazione ai danni della Sig.ra C M, in ragione del suo stato di gravidanza, consistita nella mancata assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato per 6 mesi alle dipendenze della XXXX, nonostante l’utile collocazione della medesima al n. 7 della graduatoria utilizzata al tal fine (approvata in via definitiva con Deliberazione del direttore generale n. 278 del 11/11/2019) e lo scorrimento della graduatoria stessa in favore di altri soggetti collocati in posizioni inferiori rispetto a quella della ricorrente; per l’effetto, previa disapplicazione di ogni illegittimo atto e/o provvedimento presupposto, connesso e/o consequenziale adottati dall’XXXXX, rimuovere gli effetti di tale discriminazione, ordinando e/o disponendo nei confronti dell’azienda convenuta l’assunzione/proroga della Sig.ra C M, con effetti giuridici ed economici dal 28.10.2020 ovvero da altra data, con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato nel profilo di assistente sociale per 6 mesi alle dipendenze della predetta XXXXX, e condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno commisurato al pagamento delle retribuzioni maturate e maturande, con riferimento all’ultima retribuzione onnicomprensiva lorda, sin dalla data di tempestiva assunzione che si sarebbe realizzata in assenza della condotta discriminatoria e fino alla scadenza della proroga/assunzione per 6 mesi, ossia fino al 28 aprile 2021 ovvero ad altra data, comprensivo della quota di 13esima mensilità TFR e contributi previdenziali nonché interessi legali fino all’effettiva presa di servizio e all’effettivo soddisfo.

 -Adottare tutti i provvedimenti ritenuti opportuni onde rimuovere ogni pregiudizio subito e subendo dalla lavoratrice.

-Condannare, in ogni caso, XXXXX  , in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro-tempore, al pagamento delle spese di lite, oltre Iva e Cpa, spese generali come per legge, con distrazione in favore dei procuratori antistatari.”.

La ricorrente esponeva di aver operato nel profilo professionale di assistente sociale con contratto a tempo determinato stipulato con la XXXX (di seguito XXXX), con decorrenza 28.4.2020 e termine 27.10.2020; che, in data 25.9.2020, il Responsabile ……., dott. D P, in vista dell’approssimarsi della scadenza contrattuale delle due unità operative di assistenti sociali T D (presso i Consultori Familiari di ….e ….) e C M (presso il Consultorio di ….), indirizzava una richiesta alla Direzione della XXXX di proroga del rapporto di lavoro delle due figure di assistenti sociali, per motivi di necessità e urgenza; che, mentre per il T veniva disposta la proroga,per la C non veniva assunta pari deliberazione, come risultava dalla nota prot. 0235437/20, a firma del Direttore dell’UOC del Personale dott. D, laddove è riportata “la indicazione di non disporre la prosecuzione dell’incarico a tempo determinato, scadente il 27/20/2020, in luogo della maternità, di cui al d.Lgs. n. 151/2001, che in base alla documentazione in atti, risulta attivata nel confronti della S.V. medesima fino al 22/01/2020”; che dalle interlocuzioni della ricorrente con i funzionari della XXXXX emergeva che l’azienda non procedesse a prorogare i contratti in scadenza per il personale che risultasse assente; che, in data 14.1.2020, la ricorrente trasmetteva una diffida, indirizzata alle figure apicali dell’Azienda e al dott. D P, osservando che la determina della XXXXX prot. 0235437/20, ostativa della prosecuzione del rapporto di lavoro, si appalesava illegittima in quanto discriminatoria, chiedendo così all’Azienda di deliberare la proroga del suo rapporto di lavoro “con effetto immediato o con decorrenza dal giorno successivo alla cessazione dell’interdizione obbligatoria (22 gennaio 2021) peraltro imminente”; che, in data 27.1.2021, con nota a firma del Direttore Generale della XXXX, R T, e del Direttore del personale, E D, comunicavano la correttezza dell’operato della XXXX, in quanto la mancata proroga della ricorrente non era dovuta al suo stato di gravidanza e l’azienda non era tenuta a dar seguito alle richieste dei dirigenti delle articolazioni aziendali, né a motivare atti che non rispondono a deliberazioni assunte nell’ambito della propria discrezionalità tenuto conto dei vincoli di bilancio; che la ricorrente, inoltre, anche successivamente alla scadenza del contratto di lavoro a tempo determinato, non risultava destinataria, a motivo dell’assenza per gravidanza, neppure di successive proposte di assunzione sulla base dello scorrimento della graduatoria in cui la C è inserita, venendo così scavalcata da scritti nella medesima graduatoria in posizione deteriore.

A sostegno del ricorso, la ricorrente deduceva il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalla XXX, in ragione dello stato di gravidanza, non avendo la resistente fornito alcuna motivazione sulle ragioni per cui il contratto a tempo determinato fosse stato prorogato al collega T e non alla C e per le quali avesse addirittura proceduto a nuove assunzioni attingendo dalla graduatoria saltando l’odierna ricorrente.

Si costituiva in giudizio l’XXXX, resistendo al ricorso e chiedendone il rigetto.

L’XXX resistente contestava la sussistenza della condotta discriminatoria ed, in particolare, la prassi ex adverso dedotta di non rinnovare i contratti dei dipendenti assenti, tanto più se assenti per gravidanza. Deduceva l’insussistenza di un diritto soggettivo del lavoratore alla proroga del contratto a tempo determinato; che la proroga del contratto dell’assistente sociale T era stato deciso dall’XXXX per aver verificato l’urgenza e la necessità di prolungare l’assistenza sociale nell’area di ….; che nell’ufficio ove aveva prestato assistenza la ricorrente non era stato più assegnato altro assistente sociale; che lo stato di gravidanza della C non aveva alcun ruolo nella decisione di non formalizzare un nuovo contratto; che, peraltro, la ricorrente aveva contestato la comunicazione di fine incarico solo nel gennaio 2021, ovvero quasi al termine del congedo di maternità; che i rinnovi degli altri dipendenti sono stati eseguiti senza distinzioni di sesso o età, sulla base della sussistenza di particolari requisiti, non replicabili in tempi brevi, ovvero nelle sole ipotesi in cui il mancato rinnovo avrebbe potuto determinare criticità nell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza; che l’art. 2 del contratto a tempo determinato stipulato con la C prevedeva che espressamente: “…Il contratto si risolverà automaticamente il 27 ottobre 2020, fatta salva la condizione di prorogabilità dell’incarico”; che, pertanto, non sussisteva in capo all’XXXX alcun obbligo di rinnovo o proroga, non essendo l’Azienda neppure tenuta a giustificare al lavoratore le ragioni della mancata proroga.

La causa veniva istruita sulla documentazione ritualmente prodotta dalle parti.

***

Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

Le doglianze poste dalla ricorrente a sostegno del ricorso non attengono propriamente alla contestazione del potere datoriale di decidere, in base alla proprie esigenze organizzative, la proroga o meno di contratti a tempo determinato, quanto piuttosto alla sussistenza di una discriminazione nei suoi confronti, atteso che, pur a seguito della nota del Responsabile U….. del 25.9.2020, che indirizzava richiesta alla Direzione aziendale e amministrativa di proroga del rapporto delle due figure di assistenti sociali C M e T D, per motivi di “necessità e urgenza”, osservando che “la mancanza di tale figura professionale sarebbe di pregiudizio per l’utenza consultoriale”, tanto da adombrare il rischio di una “interruzione di pubblico servizio”, l’XXXXX si determinava, tuttavia, a prorogare solo il contratto di lavoro del T e non quello della collega C, in ragione della sua assenza per maternità.

Non è, quindi, in questione nel caso che occupa l’esistenza o meno di un diritto soggettivo, in capo alla ricorrente, ad ottenere una proroga del contratto a termine in scadenza al 27.10.2020, bensì la sussistenza di un comportamento discriminatorio della XXXX resistente che, pur riconoscendo sussistere l’esigenza della proroga dei contratti a tempo determinato stipulati con le unità di assistenti sociali dell’Area …., tuttavia, la concedeva al solo T, pretermettendo, invece, la ricorrente a causa del suo stato di gravidanza, o comunque a causa della sua assenza per la fruizione del congedo di maternità.

A tale proposito recente giurisprudenza di legittimità ha affermato che il mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice che si trova in stato di gravidanza può integrare una discriminazione basata sul sesso, atteso che -a parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di rinnovo da parte del datore di lavoro, anche con riguardo alla prestazione del contratto in scadenza della stessa lavoratrice, esigenze manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi –ben può essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza (Cass., Sez. Lav. 26.2.2021, n. 5476).

Né vale invocare l’esercizio di un potere discrezionale circa l’opportunità di disporre il rinnovo (o la proroga) di un contratto in scadenza e dedurre che il lavoratore può al riguardo al più vantare una mera aspettativa di per sé non giuridicamente tutelata.

Pur nell’ambito dell’esercizio di un potere discrezionale è, infatti, possibile verificare se sia stato riservato un trattamento meno favorevole, a parità di situazioni, ad una lavoratrice in ragione del suo stato di gravidanza.

Ancor prima che nel diritto nazionale, la gravidanza, la maternità e la genitorialità trovano tutela in ambito comunitario.

L’art. 157 TFUE sancisce l’obbligo della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile e stabilisce un fondamento giuridico generale per l’adozione di misure riguardanti l’uguaglianza di genere, incluse la parità e la lotta alla discriminazione sulla base della gravidanza o della maternità sul luogo di lavoro. L’art. 33, paragrafo 2, della Carta dell’UE afferma che: “Al fine di poter conciliare vita familiare e vita professionale, ogni individuo ha il diritto di essere tutelato contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio”.

Le direttive europee contro la discriminazione vietano la differenza di trattamento fondata su taluni motivi oggetto di protezione -secondo un elenco circoscritto, che corrisponde alla elencazione contenuta nell’art. 10 TFUE -e, tra essi, il genere (v. Direttiva 2004/113/CE sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di accesso ai beni e servizi; Direttiva 2006/54/CE sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego, che ha riunito e modificato le direttive riguardanti l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego: la direttiva 76/207/CEE relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro; la direttiva 86/378/CEE relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale; la direttiva 75/117/CEE per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile; la direttiva 97/80/CE riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso).

Anche la Corte di Giustizia ha contribuito notevolmente all’evoluzione della materia in questione.

In particolare, la Corte ha enunciato il principio secondo cui “qualora il mancato rinnovo di un contratto di lavoro a tempo determinato sia motivato dallo stato di gravidanza della lavoratrice, esso costituisce una discriminazione diretta basata sul sesso” incompatibile con il diritto dell’U.E. (CGUE, C-438/99, Jimenez Melgar,4.10.2001).

Ed, ancora, qualsiasi trattamento sfavorevole direttamente o indirettamente connesso alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso (CGUE, C-32/93, Webb, 14.7.1994; CGUE, C-421/92, Habermann-Beltermann, 5.5.1994; CGUE C-531/2015 Otero Ramos, 19.10.2017).

Nel nostro ordinamento interno il D.Lgs. n. 198/2006, (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) si è specificamente occupato del comportamento discriminatorio fondato sul sesso ed ha promosso, sul piano sostanziale, le pari opportunità di carriera e di lavoro tra i sessi, lasciando all’attore la scelta tra il rito “ordinario” del lavoro e un rito speciale appositamente delineato.

Il D.Lgs. n. 5/2010ha, poi, dato attuazione alla direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (c.d. di rifusione).

Il  D.Lgs. n. 150/2011 ha, quindi, ricondotto il procedimento contro le discriminazioni al modello del rito sommario di cognizione ex art. 702-bisc.p.c. e ss.

Ebbene, l’art. 25, comma 1, del Codice delle pari opportunità, come modificato dall’art. 8-quater, comma 1, lettera a), del D.L. n. 59/2008 convertito con modificazioni dalla L. n. 101/2008 e successivamente dall’art. 1, comma 1, lettera p), numero 1), del D.Lgs. n. 5/2010, prevede che: “Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”. Il comma 2 del medesimo articolo stabilisce, poi, che: “Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.

Il successivo comma 2-bis, aggiunto dall’art. 1, comma 1, lettera p), numero 2), del D.Lgs. n. 5/2010, stabilisce che: “Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”.

Quel che rileva, dunque, è che, in presenza di situazioni analoghe, sia stato posto in essere un atto o un comportamento pregiudizievole e comunque sia stato attribuito un trattamento meno favorevole ad una lavoratrice in ragione del suo stato di gravidanza.

Quanto alla concreta dimostrazione di una situazione di tal genere, si osserva che l’art. 40 del Codice delle pari opportunità prevede che: “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione”.

La norma da ultimo richiamata fonda la propria ratio nell’art. 4 della Direttiva 97/80/CE riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso (“1. Gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari, adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta. 2. La presente direttiva non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più favorevole alla parte attrice”).

Circa l’operatività della norma citata, la Suprema Corte di Cassazione ha già da tempo affermato che, nei giudizi antidiscriminatori, sia proposti con le forme del procedimento speciale sia con quelle dell’azione ordinaria (v. Cass. 5.6.2013, n. 14206), i criteri di riparto dell’onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all’art. 2729 cod. civ. (finendosi altrimenti per porre a carico di chi agisce l’onere di una prova piena del fatto discriminatorio, ancorché raggiunta per via presuntiva), bensì quelli speciali, che non stabiliscono un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente; ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione (v. Cass.n. 5476/2021 cit.; Cass. 2.1.2020, n. 1; Cass. 12.10.2018, n. 25543).

Nel caso che occupa deve ritenersi assolto dalla ricorrente l’onere probatorio relativo al fattore di rischio, consistente, nello specifico, nella pacifica assenza della lavoratrice, al momento della scadenza del contratto e della scelta datoriale relativa alla sua proroga, per congedo di maternità, quindi nel suo stato di gravidanza, nonché al trattamento meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio

Emerge, infatti, dalle delibere del Direttore Generale n. 1853 del 22.10.2020 e n. 1934 del 4.11.2020 che non solo il collega T, il quale, pur trovandosi nella medesima situazione contrattuale della ricorrente, ha beneficiato, a differenza dell’odierna ricorrente, della proroga del suo contratto di lavoro a tempo determinato per ulteriori 6 mesi, ma anche altri 7 colleghi in scadenza del termine contrattuale, anch’essi nel profilo professionale di collaboratore professionale –assistente sociale, hanno beneficiato della proroga del termine.

D’altra parte,la stessa XXXX procedeva, con deliberazioni del Direttore Generale n. 2017 del 13.11.2020 e n. 2363 del 31.12.2020, all’assunzione a tempo determinato di ben 9 unità con profilo di collaboratore professionale –assistente sociale (cat. D), di cui due segnatamente nell’Area …..

La resistente XXXX, di contro, si è limitata a contestare la natura discriminatoria della propria condotta nei confronti della C, genericamente deducendo l’inconferenza della mancata proroga contrattuale con lo stato di gravidanza della ricorrente, la sussistenza di un suo potere discrezionale di disporre o meno la proroga, l’insussistenza di un obbligo di giustificare la mancata concessione della proroga, senza, tuttavia, dimostrare, con precisione, gravità e concordanza, circostanze idonee ad escludere la natura discriminatoria di tale condotta.

Deve, pertanto, essere ordinata all’XXX la cessazione del suo comportamento discriminatorio nei confronti della ricorrente, con rimozione dei suoi effetti, mediante proroga ora per allora, a tutti gli effetti, sia economici sia giuridici, del contratto a tempo determinato scaduto in data 27.10.2020, per 6 mesi, quindi, con decorrenza dal 28.10.2020 e termine finale al 28.4.2021.

A norma dell’art. 36, legge n. D.Lgs. 198/2006, con il decreto che definisce il ricorso per la rimozione della condotta discriminatoria, il Tribunale può altresì provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita.

Deve, pertanto, essere accolta la domanda della ricorrente di condanna dell’XXXX resistente al risarcimento del danno da lucro cessante, consistente nella perdita delle retribuzioni che la ricorrente avrebbe percepito per il periodo di 6 mesi della proroga del contratto a termine,  commisurate all’ultima retribuzione onnicomprensiva lorda, comprensiva della quota di tredicesima, t.f.r. e contributi previdenziali, essendo tale perdita conseguenza immediata e diretta del comportamento discriminatorio accertato della resistente. Il tutto oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali ex art. 1284, comma 1, c.c. dalla data di maturazione di ogni singolo credito retributivo al saldo.

Le spese di lite liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza della resistente.

P.Q.M.

Il Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, domanda ed eccezione disattese, così provvede:

– ordina all’XXXXXX la cessazione della condotta discriminatoria accertata e la rimozione dei suoi effetti, con conseguente concessione della proroga per 6 mesi del contratto a tempo determinato scaduto il 27.10.2020;

– Condanna XXXXXX al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, della somma corrispondente alle retribuzioni perdute nel periodo dal 28.10.2020 al 28.4.2021, commisurate all’ultima retribuzione onnicomprensiva lorda, comprensiva della quota di tredicesima, t.f.r. e contributi previdenziali, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali exart. 1284, comma 1, c.c., dalla maturazione di ogni singolo credito al saldo;

– condanna XXXXX al pagamento delle spese del procedimento, liquidate in complessivi € 2.965,50, di cui € 118,50 per spese effettive ed € 2.847,00 per compensi, oltre rimborso forfettario delle spese di lite nella misura del 15% del compenso, IVA e CPA come per legge, da distrarsi in favore degli avv.ti Manuela Rinaldi e Salvatore Braghini in solido, dichiaratisi antistatari.

Si comunichi.

Avezzano, 25 aprile 2021

Il Giudice

dott. Antonio Stanislao Fiduccia