Esposizione del crocifisso in aula, discriminazione, Cassazione Sezioni Unite, sentenza 6 luglio – 9 settembre 2021

FATTI DI CAUSA

1. Nel corso degli anni 2008 e 2009 il professor F C., docente di ruolo di materie letterarie presso l’Istituto professionale di Stato per i servizi “Alessandro Casagrande” di Terni, venne sottoposto a procedimento disciplinare, tra l’altro, perché, prima dell’inizio delle sue ore di lezione nella classe III A del suddetto Istituto, rimuoveva sistematicamente, in “autotutela”, il crocifisso dalla parete dell’aula, per poi riappenderlo al termine delle stesse, così contravvenendo ad una circolare del dirigente scolastico che aveva recepito una richiesta di affissione del simbolo proveniente dagli studenti riuniti in assemblea.

2. Nell’aula della classe III A il crocifisso era stato affisso, inizialmente, su richiesta avanzata da due alunne all’assistente tecnico, depositario degli arredi scolastici.

Il professor C. manifestò a più riprese, sia agli studenti che ad alcuni colleghi e al dirigente scolastico, la propria disapprovazione verso la presenza del simbolo religioso, reclamando il rispetto della propria libertà di insegnamento e di coscienza in materia religiosa e del principio di neutralità della scuola pubblica.

Dal canto loro, gli studenti, nell’assemblea di classe tenutasi il 18 ottobre 2008, deliberarono, a maggioranza, di mantenere affisso il simbolo durante tutte le ore di lezione, comprese quelle del professor C.

All’assemblea fecero seguito la circolare n. 25/65 del 21 ottobre 2008, con cui il dirigente scolastico richiamò i docenti al dovere di rispettare la volontà espressa dagli studenti, e l’ordine di servizio in data 23 ottobre 2008, con il quale lo stesso dirigente impartì la disposizione che il simbolo religioso fosse fissato stabilmente alla parete, diffidando formalmente il docente “dal continuare in questa rimozione che sta creando negli studenti frustrazione, incertezza e preoccupazione”.

Il 3 novembre 2008 si tenne il consiglio di classe della III A, durante il quale si diede atto: della situazione di “laicità pluralista” della scuola; della circostanza che all’interno della classe la presenza del simbolo non aveva creato alcun problema agli alunni, tra cui vi erano anche ragazzi musulmani e provenienti dall’Europa orientale; della necessità di risolvere il problema onde “smorzare la tensione di quest’ultimo periodo”.

Il professor C. provvide nuovamente, il 5 novembre 2008, a rimuovere il simbolo all’inizio della lezione, per poi riappenderlo al termine di essa.

Su segnalazione del dirigente dell’Istituto, la Direzione scolastica regionale avviò il procedimento disciplinare, anche per le offese (“cialtrone”, “poco democratico”, “di scarso spessore”, “approssimativo”) rivolte dal professor C. allo stesso dirigente scolastico nel corso del consiglio di classe.

L’11 febbraio 2009 il Consiglio di disciplina per il personale docente, esprimendo il parere previsto dall’art. 503 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, ritenne che al professor C. dovesse essere irrogata la sanzione disciplinare della sospensione dall’insegnamento per trenta giorni, in particolare rilevando che:

– l’insegnante aveva reiteratamente attuato un comportamento in contrasto con la volontà espressa dalla maggioranza degli alunni;

– quella volontà era stata poi accolta dal dirigente scolastico, che ne aveva prescritto il rispetto a tutti i docenti con la circolare, seguita da una diffida indirizzata specificamente al professor C., il quale avrebbe dovuto osservare le disposizioni del superiore gerarchico;

– il richiamo alla libertà di insegnamento era pretestuoso, perché smentito dai comportamenti del docente, in palese contrasto con la volontà espressa dai docenti nel consiglio di classe;

– il docente era venuto meno consapevolmente all’obbligo di rapportarsi con gli altri organi collegiali ai fini del raggiungimento degli obiettivi condivisi;

– il gesto di “togliere e mettere” il crocifisso, collegato all’ingresso in aula dell’insegnante, non era educativo, perché non teneva conto della particolare sensibilità dei soggetti in fase evolutiva a lui affidati;

– con il comportamento complessivamente tenuto, l’incolpato era venuto meno ai doveri, alla responsabilità e alla correttezza cui devono essere sempre improntate l’azione e la condotta di un docente, considerata la sua funzione educativa e formativa.

Tenuto conto del parere espresso dal Consiglio di disciplina, il dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale irrogò al C. la sanzione della sospensione dall’insegnamento per trenta giorni, che fu eseguita a decorrere dal 16 febbraio 2009.

3. Con due distinti ricorsi, poi riuniti, il professor C. ha impugnato dinanzi al Tribunale di Terni, sezione lavoro, sia l’ordine di servizio del dirigente scolastico, sia il provvedimento dell’Ufficio scolastico che gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della sospensione dall’insegnamento per trenta giorni: il primo, in quanto discriminatorio nei confronti dei docenti che non si riconoscevano nel crocifisso; il secondo, poiché volto a sanzionare una condotta che, ad avviso del ricorrente, costituiva invece legittimo esercizio del potere di autotutela in relazione ai diritti fondamentali di libertà di insegnamento e di libertà di coscienza in materia religiosa.

4. Il Tribunale, con sentenza n. 122/13 depositata il 29 marzo 2013, ha respinto le domande del docente.

Il giudice del lavoro ha richiamato la sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo del 18 marzo 2011, nel caso Lautsi e altri c. Italia, decisione per la quale la presenza del simbolo nella scuola pubblica, di per sé, non pregiudica il diritto degli alunni all’istruzione, la libertà educativa dei genitori nei confronti dei figli e quella di coscienza e religione, e non pone in essere discriminazioni su base religiosa.

Secondo il giudice del lavoro di Terni, se la presenza del crocifisso non produce una indebita influenza sugli allievi, a maggior ragione non è idonea, in quanto tale, a limitare la libertà di religione, di espressione e di insegnamento di un docente di materie letterarie, ovvero di una persona dotata di età, esperienze, maturità e formazione ben superiori a quelle di un ragazzo.

Ha osservato il Tribunale che la presenza del simbolo non impedisce ad un insegnante di esercitare nei confronti dei propri alunni le sue funzioni di docente e di educatore in linea con i suoi convincimenti morali o filosofici.

Il giudice del lavoro di Terni ha escluso che la determinazione del dirigente scolastico, di recepimento della volontà degli studenti, come manifestata nell’assemblea di classe, abbia comportato per il professor C. un trattamento meno favorevole rispetto a quello che è stato o sarebbe stato riservato ad un altro docente in una situazione analoga. La circolare n. 25/65 è stata diretta a tutti gli insegnanti, indipendentemente dalle loro convinzioni religiose, allo scopo di rispettare la volontà degli studenti della classe III A. Ha puntualizzato inoltre il Tribunale che la circolare non riguardava tutte le aule della scuola e, pertanto, non imponeva né assicurava la presenza del crocifisso ovunque, sicché tale simbolo poteva mancare anche ove, eventualmente, fossero presenti insegnanti di fede cattolica.

Tanto meno – ha osservato il primo giudice – sono ravvisabili, nel caso concreto, molestie riconducibili al comma 3 dell’art. 2 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, essendo da escludere che gli atti posti in essere dal dirigente scolastico siano stati motivati da ragioni religiose “consistenti nel positivo apprezzamento per i valori cristiani, esplicitato nella circolare”. Tale circolare, infatti, nel richiamare la decisione degli allievi, aggiunge sì che la scelta degli studenti è “coerente con la cultura italiana, che ha nel pensiero cristiano una componente fondamentale, e con le leggi e la Costituzione di questo Paese”; l’affermazione, tuttavia, “non appare espressione di un giudizio positivo sui valori cristiani, ma enunciazione di un fatto oggettivo, non essendo revocabile in dubbio, quanto meno sotto il profilo storico, che il pensiero cristiano ha influito in modo significativo sulla cultura del nostro Paese”. Del resto – ha proseguito il Tribunale – se effettivamente il dirigente scolastico, mosso da motivi religiosi, avesse voluto “strumentalizzare” la volontà dei ragazzi ed affermare il valore confessionale del simbolo, ben avrebbe potuto, anche prendendo spunto dall’autonoma iniziativa degli alunni della III A, imporre l’affissione del crocifisso in tutte le classi della scuola, il che, invece, non è avvenuto.

In definitiva, secondo il Tribunale, il comportamento del docente ha integrato una violazione dei doveri di formazione ed educazione propri di ogni insegnante, perché, al di là delle convinzioni personali del ricorrente, la questione dell’affissione in aula del crocifisso era stata oggetto di plurimi approfondimenti, in contesti diversi, sia da parte dei ragazzi che dei docenti, all’esito dei quali risultava evidente il senso della presenza del predetto simbolo in aula e la mancanza di qualsivoglia intento discriminatorio diretto a limitare la libertà del singolo insegnante.

5. La Corte d’appello di Perugia, sezione lavoro, con sentenza n. 165/14 depositata il 19 dicembre 2014, ha respinto il gravame proposto dal professor C.

La Corte territoriale ha escluso che la condotta tenuta dal dirigente scolastico possa essere qualificata discriminatoria, innanzitutto perché l’ordine di servizio è stato indirizzato all’intero corpo docente e, quindi, non è stata realizzata alcuna disparità di trattamento.

La Corte di Perugia ha precisato, inoltre, che l’esposizione del crocifisso non ha limitato la libertà di insegnamento e che il ricorrente non ha titolo per dolersi dell’asserita violazione del principio di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione nonché di quello di laicità dello Stato, perché gli stessi danno origine, non a diritti soggettivi dei singoli, bensì ad interessi diffusi, la cui tutela è affidata agli enti esponenziali della collettività nel suo complesso e solo nei casi di espressa previsione di legge ad associazioni o enti collettivi che di quegli interessi sono portavoce.

La Corte territoriale ha aggiunto che nell’ambito del rapporto di impiego il dipendente può azionare il potere di autotutela solo per far valere diritti soggettivi inviolabili; pertanto, nella specie, il professor C., invocando la laicità dello Stato, non poteva disobbedire all’ordine.

Il giudice d’appello ha rilevato, inoltre, che l’esposizione del crocifisso non è lesiva di diritti inviolabili della persona né è, di per sé sola, fonte di discriminazione tra individui di fede cristiana e soggetti appartenenti ad altre confessioni religiose. Ha poi richiamato la motivazione della sentenza pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 18 marzo 2011 per sostenere che il simbolo è essenzialmente “passivo” e la sua esposizione nel luogo di lavoro, così come è stata ritenuta non idonea ad influenzare la psiche degli allievi, a maggior ragione non è sufficiente a condizionare e comprimere la libertà di soggetti adulti e ad ostacolare l’esercizio della funzione docente.

La sezione lavoro della Corte d’appello ha precisato al riguardo che il dirigente scolastico ha imposto agli insegnanti solo di tollerare l’affissione del crocifisso nell’aula, non certo di prestare ossequio ai valori della religione cristiana o di partecipare a cerimonie con funzioni di carattere religioso, sicché il comportamento del ricorrente non poteva essere giustificato dalla mera percezione soggettiva di una violazione dei suoi diritti di libertà.

Infine, la Corte territoriale ha evidenziato che non possono trovare applicazione negli istituti scolastici secondari superiori le disposizioni regolamentari che prescrivono l’affissione del crocifisso nelle aule delle scuole elementari e medie inferiori, ma da ciò non si può desumere un divieto e, pertanto, non può essere ritenuto illegittimo il provvedimento del dirigente scolastico che ha ritenuto di impartire una direttiva conforme al deliberato dell’assemblea di classe.

Quest’ultima non aveva il potere di stabilire quali dovessero essere gli arredi dell’aula, ma la circostanza – ha affermato la Corte d’appello – non spiega alcuna incidenza causale sulla legittimità della sanzione disciplinare, inflitta al C. in ragione della reiterata e plateale violazione degli ordini impartiti dal superiore gerarchico.

6. Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello il professor F C. ha proposto ricorso, con atto notificato il 29 aprile-4 maggio 2015, sulla base di otto motivi.

Hanno resistito, con controricorso, il Ministero dell’istruzione, università e ricerca e l’Istituto professionale di Stato per i servizi “Alessandro Casagrande” di Terni.

7. Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360, n. 3 e n. 4, c.p.c., il professor C. denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216; nullità della sentenza ex art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia in riferimento alla lamentata violazione dell’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 216 del 2003 e dell’art. 2087 c.c.”, addebitando alla Corte territoriale di avere erroneamente ritenuto che il carattere discriminatorio dell’ordine di servizio potesse essere escluso per il solo fatto che lo stesso si rivolgesse all’intero corpo docente, senza considerare che quell’ordine, apparentemente neutro, in realtà aveva determinato una situazione di svantaggio per gli insegnanti non aderenti alla religione cattolica. Il ricorrente si duole inoltre che il giudice d’appello non si sia pronunciato sulla sussistenza della discriminazione nella forma delle molestie, espressamente denunciata sia in primo grado che nell’atto di gravame. Con quest’ultimo, in particolare, era stato rappresentato anche che il datore di lavoro, violando il precetto di cui all’art. 2087 c.c., anziché tutelare la personalità morale del lavoratore, gli aveva imposto un comportamento contrario alla sua coscienza, ed aveva esercitato pressioni, anche attraverso la minaccia di iniziative disciplinari, poi effettivamente intraprese.

Il secondo mezzo censura la “violazione e falsa applicazione degli artt. 19 e 33 Cost., nonché dell’art. 1 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297”, perché, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice d’appello, la presenza del crocifisso in classe sarebbe lesiva del diritto alla libertà negativa di religione e alla libertà di coscienza dell’insegnante. Ad avviso del ricorrente, il rifiuto di prestare obbedienza all’ordine di servizio doveva essere ritenuto manifestazione della libertà di coscienza e della libertà di insegnamento, intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente.

Con il terzo motivo si denuncia la “violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost. e del principio costituzionale supremo di laicità dello Stato”, censurandosi la sentenza impugnata nella parte in cui, facendo leva su una lettura errata della motivazione della sentenza delle Sezioni unite di questa Corte 14 marzo 2011, n. 5924, ha escluso che si potessero ravvisare nella fattispecie diritti soggettivi. Il ricorrente evidenzia che con quella pronuncia era stato esaminato un caso non sovrapponibile a quello oggetto di causa, perché il magistrato incolpato, che aveva rifiutato di tenere udienza anche in aule prive del crocifisso, pretendeva, invocando il principio di laicità dello Stato, che il simbolo fosse rimosso da tutti i locali, e pertanto l’affermazione contenuta nella pronuncia si riferiva a quest’ultima pretesa, con la quale, in effetti, si faceva valere un interesse diffuso e non un diritto soggettivo. Il ricorrente sostiene che il principio di laicità, che impone equidistanza e imparzialità verso tutte le confessioni, sarebbe leso dalla preferenza accordata ad un unico simbolo, perché in tal modo viene privilegiata una religione rispetto agli altri culti.

Con il quarto motivo, che denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 19 e 33 Cost., del principio di laicità, degli artt. 9, 14 e 53 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dell’art. 2 del Protocollo n. 1, il ricorrente sostiene che l’esposizione del crocifisso in un’aula scolastica sarebbe lesiva delle libertà del docente e critica la sentenza impugnata per avere fatto applicazione della citata pronuncia della Grande Camera senza verificare quali fossero le garanzie offerte dal diritto interno e senza considerare che l’intervento della Corte europea era stato provocato dai genitori di un alunno e non da un docente. Ad avviso del ricorrente, se per il discente il simbolo può essere considerato “passivo”, non altrettanto può dirsi per l’insegnante che “vede la propria voce coperta o autorata da un simbolo confessionale posto sopra di sé”.

Con il quinto motivo si censura la “violazione degli artt. 23, 97 e 113 Cost., del principio di legalità dell’azione amministrativa e dei principi dello Stato di diritto”, sul rilievo che la posizione del titolare di un ufficio pubblico non potrebbe essere ricostruita in termini di libertà, atteso che gli organi dello Stato sono titolari di poteri retti dal principio di legalità, con la conseguenza che non poteva nella specie la Corte d’appello ritenere che l’atto con il quale era stata imposta l’affissione fosse legittimo solo perché non vietato.

Il sesto motivo denuncia la “violazione e falsa applicazione dell’art. 494 del d.lgs. n. 297 del 1994; errata e falsa applicazione dei principi in materia di autotutela del lavoratore”, giacché l’illegittimità delle determinazioni datoriali legittimava, ad avviso del ricorrente, la loro inosservanza e, quindi, la condotta tenuta dal docente non poteva essere ritenuta egoistica e non rispettosa dei diritti degli alunni, in quanto finalizzata a difendere anche i diritti dei dissenzienti che, in occasione dell’assemblea di classe, non avevano approvato l’affissione.

Con il settimo motivo, in subordine, il ricorrente eccepisce la “nullità della sentenza ex art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia in ordine alla domanda di nullità della sanzione disciplinare per difetto dell’elemento soggettivo e violazione di legge per violazione dei principi in materia di illecito disciplinare” ed addebita alla Corte territoriale di avere omesso di considerare che il convincimento del docente in merito alla sussistenza di un suo diritto soggettivo integra una causa di giustificazione putativa che esclude la sanzionabilità disciplinare.

L’ottavo motivo è rubricato “domanda di risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 216 del 2003, da determinarsi in via equitativa”. Con esso il ricorrente sostanzialmente ripropone la domanda risarcitoria sulla quale la Corte non ha pronunciato, perché assorbita dalla ritenuta insussistenza della denunciata discriminazione.

8. Il ricorso è stato inizialmente fissato in camera di consiglio dinanzi alla Sezione lavoro di questa Corte.

In prossimità della camera di consiglio dinanzi alla Sezione, il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.

Il pubblico ministero, con atto depositato il 22 giugno 2020, ha concluso chiedendo il rinvio a nuovo ruolo per la trattazione del ricorso in udienza pubblica ex art. 375, ultimo comma, c.p.c.

9. Con ordinanza interlocutoria 18 settembre 2020, n. 19618, in esito alla camera di consiglio tenutasi il 22 luglio 2020, la Sezione lavoro ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, sul rilievo che il ricorso prospetta una questione di massima di particolare rilevanza, che involge il bilanciamento, in ambito scolastico, fra le libertà ed i diritti tutelati rispettivamente dagli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 297 del 1994, che garantiscono, da un lato, la libertà di insegnamento, intesa come autonomia didattica e libera espressione culturale del docente, e, dall’altro, il rispetto della coscienza civile e morale degli alunni. L’interrogativo riguarda i modi di risoluzione di un eventuale conflitto e la possibilità di far prevalere l’una o l’altra libertà nei casi in cui le stesse si pongano in contrasto fra loro. Secondo l’ordinanza di rimessione, vengono in rilievo temi più generali, perché la vicenda è stata innescata dalla richiesta, formulata dagli studenti, di affissione nell’aula scolastica del crocifisso, sicché occorre confrontarsi, tenendo conto delle posizioni espresse dalla giurisprudenza, con il significato del simbolo, con il principio di laicità dello Stato e con la tutela della libertà religiosa, e interrogarsi sul carattere discriminatorio di atti o comportamenti del datore di lavoro che, in ragione del credo, pongano un lavoratore in posizione di svantaggio rispetto agli altri.

10. Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, secondo comma, c.p.c.

11. Fissato all’udienza pubblica delle Sezioni unite del 6 luglio 2021, il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dall’art. 23, comma 8-bis, del d.l. n. 137 del 2020, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020, senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.

12. Il pubblico ministero, in prossimità della camera di consiglio, ha depositato conclusioni scritte, concludendo come in epigrafe.

Secondo il pubblico ministero, la determinazione prescrittiva adottata dall’amministrazione scolastica non è conforme al modello, o metodo, della ricerca del ragionevole accomodamento attraverso una procedimentalizzazione della dialettica in vista della composizione di un conflitto su diritti di pari dignità, poiché assume semplicemente, e immediatamente, una posizione autoritativa, ancorché a favore della volontà espressa dalla classe degli alunni, ed esprime così una posizione di obbligo generalizzato che ricalca, semplicemente, la medesima natura e la medesima impostazione che connota il r.d. 30 aprile 1924, n. 965.

Il pubblico ministero ritiene che al giudice di merito debba essere rimessa la valutazione circa la legittimità complessiva della sanzione disciplinare applicata a seguito della reiterata violazione della circolare dirigenziale da parte dell’insegnante, per la riedizione del giudizio in svolgimento del seguente principio di diritto: (a) è illegittimo, e deve essere disapplicato per contrasto con i principi costituzionali di laicità dello Stato e di separazione tra la sfera civile e quella religiosa, un atto amministrativo generale ovvero un provvedimento amministrativo specifico che impone la collocazione del simbolo religioso del crocifisso in un’aula della scuola pubblica; (b) è legittima la collocazione del medesimo simbolo, nella stessa aula, se attuata in autonomia nel contesto scolastico sulla base di un metodo “mite” o se disposta con atto dell’amministrazione che recepisce la volontà espressa in tal senso dalle diverse componenti della comunità scolastica interessata, secondo le concrete modalità da quest’ultima definite; (c) non ha rilievo, in questo come in altri ambiti di funzione pubblica (per esempio, quello della giustizia), la posizione assunta da chi non sia partecipe di quella comunità né di quella funzione, trattandosi di soggetto che solo occasionalmente entra in contatto con l’istituzione o con la relativa attività.

L’Ufficio del Procuratore generale ritiene, infine, non sussistente, o comunque non sufficientemente dimostrata, l’esistenza di una discriminazione vietata dall’art. 2 del d.lgs. n. 216 del 2003.

13. La difesa del ricorrente, a sua volta, ha presentato una memor[i]a illustrativa, con la quale ha svolto considerazioni finali in dialogo, in parte consonante, in parte critico, con le conclusioni della Procura generale, e ha insistito sul carattere discriminatorio delle condotte dell’amministrazione scolastica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Le Sezioni unite sono investite di una questione di massima di particolare importanza.

La questione riguarda la compatibilità tra l’ordine di esposizione del crocifisso, impartito dal dirigente scolastico di un istituto professionale statale sulla base di una delibera assunta a maggioranza dall’assemblea di classe degli studenti, e la libertà di insegnamento e di coscienza in materia religiosa, intesa quest’ultima anche come libertà negativa, da assicurare ad ogni docente.

Si tratta di stabilire se la determinazione del dirigente scolastico, rivolta a tutti gli insegnanti della classe, si ponga in contrasto con il principio della libertà di insegnamento del docente dissenziente che desideri fare lezione senza essere costretto nella matrice religiosa impressa dal simbolo affisso alla parete, e collida con il divieto di discriminazione su base religiosa.

2. La questione sorge in un caso nel quale è stata applicata una sanzione disciplinare al docente di lettere per avere sistematicamente rimosso il crocifisso dalla parete dell’aula prima di iniziare le sue lezioni, per poi ricollocarlo al suo posto al termine delle stesse.

3. Nel rimettere alle Sezioni unite la soluzione della questione di massima, la Sezione lavoro di questa Corte osserva che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non è imposta da disposizioni di legge ma solo da regolamenti, risalenti nel tempo, applicabili tuttavia alle sole scuole medie inferiori e alle scuole elementari, passando poi a ricostruire il quadro giurisprudenziale di riferimento e confrontando gli approdi del Consiglio di Stato e della Corte di cassazione.

La Sezione lavoro ritiene non dirimente il richiamo alla decisione della Grande Camera della Corte di Strasburgo nel caso Lautsi ed altri c. Italia, data la non completa sovrapponibilità delle fattispecie, giacché “in questo caso viene in rilievo il valore del simbolo in relazione non all’utente del servizio bensì al soggetto che è chiamato a svolgere la funzione educativa, di talché si potrebbe dubitare dell’asserito ‘ruolo passivo’ qualora all’esposizione del simbolo si attribuisse il significato di evidenziare uno stretto collegamento fra la funzione esercitata ed i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama”.

L’ordinanza di rimessione dubita della compatibilità, in tal caso, della affissione del crocifisso nella scuola pubblica con il principio di laicità, rilevando che “il docente della scuola pubblica, non confessionale, potrebbe fondatamente sostenere che quel collegamento si pone in contrasto con il principio di laicità dello Stato, inteso ‘non come indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità’ (Corte cost. n. 67 del 2017), e ravvisare nell’esposizione del simbolo una lesione della sua libertà di coscienza e di religione, minata dal richiamo di valori propri di un determinato credo religioso a fondamento dell’attività pubblica prestata”.

La Sezione rimettente afferma inoltre che la rilevata insussistenza, da parte della Corte d’appello, di una discriminazione diretta nel provvedimento del dirigente scolastico non basta di per sé a escludere la configurabilità di una discriminazione indiretta, giacché l’esposizione del crocifisso potrebbe porre “il docente non credente, o aderente ad un credo religioso diverso da quello cattolico, in una situazione di svantaggio rispetto all’insegnante che a quel credo aderisce, perché solo il primo si vede costretto a svolgere l’attività di insegnamento in nome di valori non condivisi, con conseguente lesione di quella libertà di coscienza che il datore di lavoro è tenuto a salvaguardare ogniqualvolta la prestazione possa essere utilmente resa con modalità diverse, che quella libertà garantiscano”.

Nell’ordinanza si sottolinea che dalla astratta configurabilità di una discriminazione indiretta discenderebbe l’ulteriore questione della valutazione sulla sussistenza o meno di una “finalità legittima” che giustifichi la compressione del diritto di libertà religiosa del docente, e se questa possa essere rappresentata dalla volontà manifestata dall’assemblea di classe: soluzione che tuttavia finirebbe per collidere con il principio, affermato dalla Corte costituzionale, secondo cui in materia di religione nessun rilievo può essere attribuito al criterio quantitativo.

La Sezione rimettente si chiede, infine, “se, a fronte della volontà manifestata dalla maggioranza degli studenti e dell’opposta esigenza esplicitata dal docente, l’esposizione del simbolo fosse comunque necessaria o se non si potesse realizzare una mediazione fra le libertà in conflitto, consentendo, in nome del pluralismo, proprio quella condotta di rimozione momentanea del simbolo della cui legittimità qui si discute, posta in essere dal ricorrente sull’assunto che la stessa costituisse un legittimo esercizio del potere di autotutela”.

4. Per perimetrare la questione di massima occorre partire dal caso.

Esso trae origine da una circolare del dirigente scolastico dell’istituto professionale.

Con tale circolare il dirigente scolastico ha richiamato la delibera con cui gli studenti della terza classe, riuniti in assemblea, avevano deciso di tenere affisso il crocifisso durante tutte le ore di lezione; e dopo aver ritenuto la scelta degli studenti “coerente con la cultura italiana, che ha nel pensiero cristiano una componente fondamentale, e con le leggi e la Costituzione di questo Paese”, ha invitato formalmente tutti i docenti “a rispettare e a tutelare la volontà degli studenti, autonomamente determinatasi ed espressa con chiarezza nel verbale di assemblea”.

Poiché il professor C. ha continuato a rimuovere il crocifisso durante le ore di lezione da lui tenute, ne è derivato, a seguito di ulteriore diffida, il procedimento disciplinare, anche per gli insulti rivolti dal docente al dirigente scolastico in presenza degli studenti, procedimento conclusosi con l’irrogazione della sanzione della sospensione per trenta giorni.

5. La vicenda all’esame delle Sezioni unite si presenta come nuova, almeno parzialmente.

Innanzitutto perché all’origine di essa c’è una delibera di assemblea studentesca a favore dell’esposizione del crocifisso, non l’ossequio burocratico ad una qualche disciplina che imponga l’ostensione del simbolo.

In secondo luogo perché il caso invita a esaminare gli effetti simbolici del crocifisso sull’insegnante dissenziente e non sullo studente.

6. La fattispecie presenta posizioni in conflitto o in tensione all’interno dello spazio pubblico scolastico: il diritto degli studenti, i quali si riconoscono nel simbolo del crocifisso che hanno deliberato di vedere affisso sulla parete della loro aula, e la libertà del docente, che si esprime attraverso una resistenza alla affissione.

I temi coinvolti sono quelli della laicità e della non discriminazione, i quali non solo rimandano alla necessaria equidistanza tra le istituzioni e le religioni nell’orizzonte multiculturale della nostra società, ma anche interrogano al fondo le stesse radici e ragioni dello stare insieme tra individui liberi e uguali in quello spazio pubblico di convivenza, la scuola, che è sede primaria di formazione del cittadino.

7. L’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non è prevista da alcuna disposizione di rango legislativo, ma è, essa stessa, affidata e appesa a un quadro normativo fragile, sia per il grado non primario della fonte che detta esposizione contempla, sia, soprattutto, per l’epoca pre-costituzionale della emanazione della relativa disciplina, un’epoca segnata, tra l’altro, da un confessionalismo di Stato e da una struttura fortemente accentrata e autoritaria dello Stato stesso.

L’esposizione del crocifisso, difatti, è prevista da regolamenti che includono il crocifisso tra gli arredi scolastici: si tratta dell’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, e dell’art. 119 del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297 (e della tabella C allo stesso allegata), rispettivamente per le scuole medie ed elementari. Il citato art. 118 del r.d. n. 965 del 1924 – inserito nel capo XII relativo ai locali e all’arredamento scolastico – dispone che ogni istituto di istruzione media “ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re”; l’art. 119 del r.d. n. 1297 del 1928, a sua volta, stabilisce che gli arredi delle varie classi scolastiche sono elencati nella tabella C, allegata allo stesso regolamento, e tale elencazione include il crocifisso per ciascuna classe elementare.

8. In ordine alla esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche il quadro normativo di riferimento è, dunque, debole per la mancanza di una previsione legislativa rivolta a disciplinare la fattispecie. L’esposizione del crocifisso non è stabilita da una legge.

E tuttavia, le Sezioni unite non sono sole nell’esame della questione di massima.

Per un verso, sono guidate dalla forza peculiare dei principi fondamentali che entrano in gioco, dalla libertà religiosa al principio di laicità nelle sue diverse declinazioni, al pluralismo, al divieto di discriminazioni, alla libertà di insegnamento nella scuola pubblica aperta a tutti. Tali principi, definiti dalla Costituzione italiana, dalle Carte dei diritti e dalle Corti che ne sono gli interpreti, costituiscono la bussola per rinvenire nell’ordinamento la regola per la soluzione del caso.

Per altro verso, sono supportate da una fitta rete di precedenti giudiziali e di contributi della dottrina: gli uni rappresentano i sentieri già percorsi dall’esperienza giurisprudenziale per risolvere controversie che presentano elementi di somiglianza, e sono tanto più rilevanti in mancanza di una legge del Parlamento; gli altri offrono la ricostruzione del quadro di sistema e l’elaborazione di linee di prospettiva coerenti con le attese della comunità interpretante.

Infine, sono accompagnate dai contributi offerti dal processo e dal suo svolgersi nel contraddittorio tra le parti. La nomofilachia delle Sezioni unite è un farsi, un divenire che si avvale dell’apporto dei giudici del merito e delle riflessioni del Collegio della Sezione rimettente, dell’opera di studio e di ricerca del Massimario, degli approfondimenti scientifici e culturali offerti dagli incontri di studio organizzati dalla Formazione decentrata presso la Corte, delle sollecitazioni e degli stimoli, espressione di ius litigatoris, derivanti dalle difese delle parti e del contributo, ispirato alla salvaguardia del pubblico interesse attraverso il prisma dello ius constitutionis, del pubblico ministero.

Le Sezioni unite sono dunque inserite in un contesto di confronto, di dialogo e di contraddittorio tra le parti, che consente alla Corte di legittimità di svolgere il suo ruolo con quella prudenza “mite” che rappresenta un connotato del mestiere del giudice.

9. Occorre muovere dalla esposizione del quadro giurisprudenziale di riferimento.

9.1. Il Consiglio di Stato (Sez. VI, 13 febbraio 2006, n. 556) ha escluso che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, disposta dalle autorità competenti in esecuzione delle norme regolamentari degli anni venti del secolo scorso, sia lesiva dei contenuti delle norme fondamentali del nostro ordinamento costituzionale che danno forma e sostanza al principio di laicità che connota oggi lo Stato italiano. Ciò in quanto “il crocifisso è atto ad esprimere, … in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana”: “[n]on si può pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad una suppellettile, oggetto di arredo, e neppure come ad un atto di culto; si deve pensare piuttosto come ad un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili sopra richiamati, che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato”.

9.2. Diverse sono le questioni affrontate dalla giurisprudenza di questa Corte.

La questione del crocifisso è stata esaminata in un procedimento penale diretto contro una persona perseguita per essersi rifiutata, per la presenza del simbolo, di assumere l’incarico di scrutatore in un seggio elettorale dislocato in una scuola. Affrontando la questione sotto il profilo penale della causa di giustificazione, la Corte (Cass. pen., Sez. IV, 1° marzo 2000, n. 4273), nel mandare assolto lo scrutatore, ha affermato che costituisce giustificato motivo di rifiuto dell’ufficio la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello Stato e l’adempimento dell’incarico a causa dell’organizzazione elettorale in relazione alla presenza nella dotazione obbligatoria di arredi dei locali destinati a seggi elettorali, pur se casualmente non di quello di specifica designazione, del crocifisso o di altre immagini religiose. Il crocifisso è un simbolo religioso e la sua esposizione obbligatoria in un’aula scolastica (nel caso adibita a seggio elettorale) viola il principio di laicità dello Stato. Il principio di laicità “implica un regime di pluralismo confessionale e culturale … e presuppone, quindi, … l’esistenza di una pluralità di sistemi di senso o di valore, di scelte personali riferibili allo spirito o al pensiero, che sono dotati di pari dignità e, si potrebbe dire, nobiltà. Ne consegue una pari tutela della libertà di religione e di quella di convinzione, comunque orientata: infatti, anche la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici è garantita in connessione con la sfera intima della coscienza individuale, conformemente all’interpretazione dell’art. 19 Cost. (che tutela la libertà di religione, non solo positiva ma anche negativa: vale a dire anche la professione di ateismo e di agnosticismo)”. Il principio di laicità – prosegue la Corte – si pone come “condizione e limite del pluralismo, nel senso di garantire che il luogo pubblico deputato al conflitto tra i sistemi indicati sia neutrale e tale permanga nel tempo”.

Successivamente chiamata a pronunciarsi in sede di controllo sulla misura disciplinare della rimozione inflitta ad un giudice che aveva rifiutato di amministrare giustizia in presenza del crocifisso, questa Corte, a Sezioni unite, con la sentenza 14 marzo 2011, n. 5924, ha rigettato l’impugnazione dell’incolpato sul rilievo che la estrema sanzione era stata applicata perché quel giudice aveva persistito nella astensione dal lavoro anche dopo che per lui era stata attrezzata un’aula nuda di ogni simbolo. Poiché nella specie la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura aveva affermato la responsabilità disciplinare del magistrato solo in relazione ai disservizi verificatisi per il rifiuto di tenere udienza in stanze o aule prive del crocifisso, e quindi in situazioni che non potevano comportare la lesione del suo diritto di libertà religiosa, di coscienza o di opinione, questi non poteva sollevare come causa giustificativa del rifiuto “la pretesa tutela della laicità dello Stato o dei diritti di libertà religiosa degli altri soggetti che si trovavano nelle altre aule di giustizia della nazione, in cui il crocifisso era esposto”. “Pur nell’ottica del ricorrente, e cioè che l’ostensione del crocifisso pregiudichi la libertà religiosa e di coscienza, correttamente la sentenza impugnata – hanno affermato le Sezioni unite – ha ritenuto che la presenza del crocifisso può ledere il diritto di libertà religiosa solo se si trova nell’aula in cui egli svolge la sua attività giurisdizionale. Esattamente la decisione impugnata ha risolto il conflitto tra l’obbligo della prestazione professionale ed il diritto di libertà religiosa e di coscienza, assicurando prevalenza a quest’ultimo, soltanto quando le modalità dell’esercizio dovuto delle funzioni contrastano con l’espressione delle libertà stesse in modo diretto e con vincolo di causalità immediata”.

Intervenendo in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, queste Sezioni unite (ordinanza 10 luglio 2006, n. 15614) hanno statuito che la controversia avente ad oggetto la contestazione della legittimità dell’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche, avvenuta – pur in mancanza di una espressa previsione di legge impositiva dell’obbligo – sulla base di provvedimenti dell’autorità scolastica conseguenti a scelte dell’amministrazione, contenute in regolamenti e circolari ministeriali, riguardanti le modalità di erogazione del pubblico servizio, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, e successive modificazioni, venendo in discussione provvedimenti dell’autorità scolastica che, essendo attuativi di disposizioni di carattere generale adottate nell’esercizio del potere amministrativo, sono riconducibili alla pubblica amministrazione-autorità. Secondo la Corte regolatrice, “il crocifisso, per il suo valore escatologico e di simbolo fondamentale della religione cristiana”, “non p[uò] certamente … essere considerato alla stregua di qualsiasi componente dell’arredo scolastico”, e “la sua stessa presenza” evoca “indubbiamente … problematiche che trascendono la sfera del pubblico servizio”. Le Sezioni unite sottolineano, infine, sia i temi che vengono in rilievo nella controversia, con il rapporto “tra il principio di laicità dello Stato, il potere organizzatorio dell’amministrazione scolastica e la posizione soggettiva dei singoli fruitori del servizio”; sia il contesto di riferimento, “certamente suscettibile di evoluzione sul piano legislativo in ragione delle sempre più pressanti esigenze di tutela delle minoranze religiose, etniche e culturali in un ordinamento ispirato ai valori della tolleranza, della solidarietà, della non discriminazione e del rispetto del pluralismo”.

9.3. Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo rilevano, soprattutto, le pronunce, della Seconda Sezione e della Grande Camera, nel caso Lautsi c. Italia, che hanno deciso sul ricorso proposto (nella vicenda che era stata definita nel nostro Paese con la citata sentenza n. 556 del 2006 del Consiglio di Stato) da una signora di origine finlandese, i cui figli, di undici e tredici anni all’epoca dei fatti, frequentavano una scuola pubblica nelle cui aule era affisso il crocifisso.

La Camera della Seconda Sezione, nella sua sentenza del 3 novembre 2009, ha concluso per la violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1, esaminato congiuntamente all’art. 9 della Convenzione, riconoscendo che l’esposizione obbligatoria del simbolo di una particolare confessione nell’esercizio della funzione pubblica relativamente a situazioni specifiche sottoposte al controllo governativo, in particolare nelle aule scolastiche, limita il diritto dei genitori di educare i propri figli secondo le loro convinzioni e il diritto degli alunni di credere o di non credere, trattandosi di restrizioni incompatibili con il dovere che grava sullo Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio della funzione pubblica, in particolare nel campo dell’istruzione.

La Seconda Sezione ha ritenuto:

– che dai principi relativi all’interpretazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1 si ricava un obbligo per lo Stato di astenersi dall’imporre, sia pure indirettamente, credenze nei luoghi in cui le persone sono da esso dipendenti o in posti in cui sono particolarmente vulnerabili, sottolineando che la scolarizzazione dei ragazzi rappresenta un settore particolarmente delicato a tale proposito;

– che, fra i molti significati che il crocifisso può avere, è predominante quello religioso: di conseguenza, la presenza obbligatoria e ostentata del crocifisso, che è un segno esteriore forte, nelle aule scolastiche è tale non soltanto da offendere le convinzioni laiche della ricorrente, ma anche da turbare emotivamente gli alunni che professano una religione diversa da quella cristiana o non professano alcuna religione;

– che lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nell’ambito dell’istruzione pubblica, dove la presenza ai corsi è richiesta indipendentemente dalla religione, e deve cercare di inculcare negli studenti l’abitudine ad un pensiero critico;

– di non vedere come l’esposizione, nelle aule delle scuole pubbliche, di un simbolo che è ragionevole associare alla religione maggioritaria in Italia, potrebbe servire al pluralismo educativo che è essenziale per preservare una società democratica così come concepita dalla Convenzione.

Con la sentenza del 18 marzo 2011, la Grande Camera è giunta alla soluzione opposta, ritenendo che la decisione di mantenere il crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche rientra nei limiti di cui dispone l’Italia nel quadro del suo obbligo di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e di insegnamento, il diritto dei genitori di garantire le loro convinzioni religiose e filosofiche, e non viola l’art. 2 del Protocollo n. 1 della Convenzione.

La Grande Camera, dopo aver premesso di non doversi pronunciare sulla compatibilità della presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane con il principio di laicità per come è sancito nel diritto italiano, ha fatto leva, per escludere il contrasto con le norme della Convenzione, su tre argomenti: il carattere passivo del simbolo religioso; il margine di apprezzamento di cui godono gli Stati nella materia; il carattere pluralista della scuola pubblica in Italia.

Nella sua sentenza finale, la Corte di Strasburgo ha affermato che il crocifisso appeso al muro è un simbolo essenzialmente passivo, al quale non può attribuirsi una influenza sugli allievi paragonabile a quella che può avere un discorso didattico o la partecipazione ad attività religiose: la percezione soggettiva della ricorrente non può da sola essere sufficiente a caratterizzare la violazione lamentata.

La Grande Camera ha poi riconosciuto il margine di apprezzamento dello Stato italiano nel perpetuare la tradizione della presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche. Nella sentenza si afferma che gli Stati contraenti godono di un margine di valutazione nella sistemazione dell’ambiente scolastico e nella definizione e nella pianificazione dei programmi, anche con riguardo al ruolo che essi danno alla religione, purché ciò non implichi forme di indottrinamento. La regolamentazione, prescrivendo la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche (il quale, che gli si riconosca o meno un ulteriore valore simbolico laico, rinvia al cristianesimo), conferisce alla religione maggioritaria nel Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico; tuttavia – sottolinea la Corte di Strasburgo – ciò non è di per sé sufficiente a denotare un processo di indottrinamento da parte dello Stato italiano.

Infine, la Grande Camera ha riconosciuto che la scuola pubblica italiana garantisce al suo interno il pluralismo e la libertà religiosa e di coscienza, in quanto la presenza del crocifisso non è associata ad un insegnamento obbligatorio della religione cattolica, è assicurata agli alunni la libertà di portare propri simboli religiosi, è garantito a tutte le confessioni religiose di attivare proprie forme di presenza e ai non credenti di esprimere liberamente il proprio pensiero.

10. La Corte costituzionale ha esplicitamente escluso che il fondamento legislativo dell’esposizione del crocifisso possa identificarsi negli artt. 159 e 190 del testo unico in materia di istruzione approvato con il d.lgs. n. 297 del 1994, attenendo il loro oggetto e il loro contenuto solo all’onere di spesa per gli arredi.

Investita del dubbio di legittimità costituzionale, sotto il profilo della compatibilità con il principio supremo di laicità dello Stato, della normativa che dispone l’obbligatorietà dell’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche, la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 389 del 2004, l’ha dichiarato inammissibile, in ragione sia della natura regolamentare dei testi – l’art. 119 (e allegata tabella C) del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297, e l’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965 – che prescrivono detta presenza, sia della insussistenza di qualsiasi rapporto di integrazione e specificazione, ai fini dell’oggetto del quesito di costituzionalità proposto, fra le due menzionate disposizioni legislative e le disposizioni regolamentari.

11. La Corte d’appello di Perugia, con la sentenza qui impugnata, muove dalla premessa della inesistenza di una norma che preveda l’affissione del crocifisso nelle aule degli istituti scolastici secondari superiori: le disposizioni regolamentari, tuttora in vigore, che prevedono l’affissione del simbolo nelle aule scolastiche riguarderebbero esclusivamente gli istituti di istruzione elementare (r.d. n. 1297 del 1928) e quelli di istruzione media inferiore (r.d. n. 965 del 1924).

L’ordinanza di rimessione della Sezione lavoro condivide questa tesi. Essa sottolinea infatti che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è prevista dai regolamenti del 1924 e del 1928, applicabili alle scuole medie inferiori e alle scuole elementari. E ribadisce il presupposto ermeneutico là dove, nel riportare l’orientamento del Consiglio di Stato volto ad escludere che si sia verificata l’abrogazione dei due regi decreti per incompatibilità con la legislazione successiva, precisa che trattasi di aspetto non determinante nella fattispecie, giacché la vicenda riguarda un istituto di scuola superiore, presso il quale prestava servizio, all’epoca dei fatti, il ricorrente.

11.1. Occorre verificare se questo presupposto interpretativo sia esatto o se, diversamente, il provvedimento dirigenziale denunciato e la sanzione disciplinare conseguente alla sua violazione possano trovare la loro base giuridica nella norma regolamentare dell’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924.

L’individuazione dell’ambito applicativo del citato art. 118 costituisce operazione, non soltanto rivolta all’esatta ricostruzione del quadro normativo di riferimento, ma anche diretta a porre il problema, preliminare, se quella previsione regolamentare possa rappresentare, per la sua riferibilità anche agli istituti di secondo grado, idonea copertura normativa dell’ordine di servizio impartito nella specie dal dirigente scolastico, operando come elemento di possibile, o comunque diversa, legittimazione dell’azione dell’amministrazione.

11.2. Il Collegio delle Sezioni unite ritiene, seguendo il pubblico ministero, che la norma regolamentare contenuta nell’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924 – la quale, nell’ambito dell’arredamento scolastico, dispone che della immagine del crocifisso siano dotate le aule scolastiche di tutte le scuole medie – si riferisca anche alle scuole superiori.

Come non ha mancato di sottolineare la dottrina, il termine “istruzione media”, che compare sin dal titolo del r.d. n. 965 del 1924, deve essere letto secondo la strutturazione del sistema scolastico al momento della introduzione della disciplina. E in quel contesto gli istituti medi di istruzione erano di primo e di secondo grado (così l’art. 1 del r.d. n. 1054 del 1923: erano di primo grado “la scuola complementare, il ginnasio, il corso inferiore dell’istituto tecnico, il corso inferiore dell’istituto magistrale”; erano di secondo grado “il liceo, il corso superiore dell’istituto tecnico, il corso superiore dell’istituto magistrale, il liceo scientifico, il liceo femminile”) e costituivano il percorso di istruzione che seguiva all’istruzione elementare. Soltanto con la l. n. 1859 del 1962 la scuola media di durata triennale sarà disciplinata come scuola secondaria di primo grado e come esclusivo percorso post-elementare, attraverso l’unificazione dei molteplici percorsi precedentemente esistenti.

Va pertanto escluso che la mutata denominazione di ciò che è, oggi, l’istruzione media possa condurre a sottrarre, dalla sfera di applicazione dell’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924, le scuole medie superiori, e quindi l’istituto tecnico professionale di Stato nel quale si è svolta la vicenda.

11.3. L’art. 118 del regio decreto è ancora formalmente in vigore. Ciò è confermato dall’approvazione dei decreti-legge c.d. “taglia-leggi”, predisposti per diminuire il numero delle leggi esistenti e facilitarne così la conoscenza da parte dei cittadini e degli operatori giuridici. Infatti, l’abrogazione del r.d. n. 965 del 1924 – già prevista ai sensi del combinato disposto dell’art. 24 e del n. 224 dell’allegato A al d.l. 25 giugno 2008, n. 112, come modificati dalla relativa legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133, a decorrere dal centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore dello stesso decreto – è venuta meno a seguito della soppressione del citato n. 224 ad opera del comma 1-bis dell’art. 3 del d.l. 22 dicembre 2008, n. 200, aggiunto dalla legge di conversione 18 febbraio 2009, n. 9.

Il più recente intervento normativo ha dunque ripristinato, nella sua vigenza, il r.d. n. 965 del 1924, superando l’effetto abrogativo inizialmente contemplato.

11.4. Il problema della vigenza del r.d. n. 965 del 1924 va tuttavia affrontato anche sotto il profilo della compatibilità con la Costituzione della previsione contenuta nell’art. 118.

Il pubblico ministero, nelle sue conclusioni scritte, ritiene che la fonte regolamentare sia illegittima “per contrasto con i principi costituzionali di laicità dello Stato e di separazione tra la sfera civile e quella religiosa”, e suggerisce pertanto di risolvere il rilevato contrasto attraverso lo strumento della disapplicazione. Secondo l’Ufficio del Procuratore generale, mentre è incompatibile con la Costituzione la previsione dell’obbligo di collocare nella scuola pubblica il simbolo religioso, è invece legittima la collocazione del medesimo simbolo, nella stessa aula, se attuata in autonomia nel contesto scolastico sulla base di un metodo “mite” che si faccia carico di tutte le esigenze in tensione.

Le Sezioni unite condividono, nella sostanza, la prospettiva indicata dal pubblico ministero; ritengono tuttavia che l’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924 sia suscettibile di essere interpretato in senso conforme alla Costituzione e alla legislazione che dei principi costituzionali costituisce svolgimento e attuazione.

11.5. Nel contesto ordinamentale nel quale la disposizione regolamentare fu emanata, con la religione cattolica come sola religione dello Stato ed elemento costitutivo della compagine statale e con il riconoscimento alla Chiesa e alla religione cattolica di un preciso valore politico, come fattore di unità della nazione, l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche aveva un carattere obbligatorio ed esclusivo ed era espressione di quel regime confessionale.

11.6. Questa concezione viene ab imis rovesciata con l’avvento della Costituzione repubblicana (o, al più tardi, dopo la dichiarazione congiunta, in sede di Protocollo addizionale all’Accordo di modifica del 1984 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, di considerare “non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”, con chiara allusione all’art. 1 del Trattato del 1929 che stabiliva: “L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’art. 1 dello Statuto del regno del 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato”).

L’esposizione autoritativa del crocifisso nelle aule scolastiche non è compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato. L’obbligo di esporre il crocifisso è espressione di una scelta confessionale. La religione cattolica costituiva un fattore di unità della nazione per il fascismo; ma nella democrazia costituzionale l’identificazione dello Stato con una religione non è più consentita.

La Costituzione esclude che “la religione possa considerarsi strumentale rispetto alle finalità dello Stato e viceversa” (Corte cost., sentenza n. 329 del 1997).

La Corte costituzionale (sentenza n. 334 del 1996), in tema di formula del giuramento decisorio nel processo civile, ha chiarito che la laicità implica che il valore della religione non può essere messo a frutto dallo Stato per il raggiungimento delle sue finalità: “[…] alla distinzione dell’ordine delle questioni civili da quello dell’esperienza religiosa corrisponde […], rispetto all’ordinamento giuridico dello Stato e delle sue istituzioni, il divieto di ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti”. La “distinzione tra ‘ordini’ distinti, che caratterizza nell’essenziale il fondamentale o ‘supremo’ principio costituzionale di laicità o non confessionalità dello Stato, […] significa che la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato”. La religione appartiene infatti “a una dimensione che non è quella dello Stato e del suo ordinamento giuridico, al quale spetta soltanto il compito di garantire le condizioni che favoriscano la libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione”.

L’ostensione obbligatoria nella scuola pubblica, ex parte principis, del crocifisso, quale che possa essere il significato che individualmente ciascun componente della comunità scolastica ne possa trarre, è quindi incompatibile con la indispensabile distinzione degli ordini dello Stato e delle confessioni.

La presenza obbligatoria del simbolo religioso si traduce in una sorta di identificazione della statualità con uno specifico credo: si comunica e si realizza una identificazione tra Stato e contenuti di fede, così incidendosi su uno degli aspetti più intimi della coscienza.

Il crocifisso di Stato nelle scuole pubbliche entra in conflitto anche con un altro corollario della laicità: l’imparzialità e l’equidistanza che devono essere mantenute dalle pubbliche istituzioni nei confronti di tutte le religioni, indipendentemente da valutazioni di carattere numerico, non essendo più consentita una discriminazione basata sul maggiore o minore numero degli appartenenti all’una o all’altra di esse. Ed entra in conflitto con il pluralismo religioso come aspetto di un più ampio pluralismo dei valori: lo spazio pubblico non può essere occupato da una sola fede religiosa, ancorché maggioritaria.

“L’autorità pubblica” – ha osservato esattamente nelle conclusioni scritte l’Ufficio del Procuratore generale – “non può promuovere con effetti vincolanti – e dunque con implicazione sanzionatoria per chi entri in contrasto con quella prescrizione – un simbolo religioso, neanche con la semplice e ‘passiva’ esposizione silenziosa su una parete”.

Va inoltre considerato che la libertà religiosa è una posizione giuridica soggettiva degli individui, magari raccolti in formazioni sociali, mentre non rappresenta esercizio di quella libertà imporre l’affissione del crocifisso alle pareti delle scuole pubbliche per effetto di una scelta del potere pubblico. L’affissione autoritativa del simbolo non è esplicazione della libertà religiosa positiva e, allo stesso tempo, imponendo l’omogeneità attraverso l’esclusione implicita di chi in esso non si riconosce o comunque non desidera subirne l’esposizione, comprime la libertà religiosa, nella sua valenza negativa, del non credente.

La libertà religiosa negativa merita la stessa tutela e la stessa protezione della libertà religiosa positiva.

“[I]l nostro ordinamento costituzionale – ha scritto la Corte costituzionale nella sentenza n. 117 del 1979, in tema di formula del giuramento – esclude ogni differenziazione di tutela alla libera esplicazione sia delle fede religiosa sia dell’ateismo, non assumendo rilievo le caratteristiche proprie di quest’ultimo sul piano teorico”. Secondo l’opinione prevalente, infatti, “la tutela della c.d. libertà di coscienza dei non credenti” rientra “in quella della più ampia libertà in materia religiosa assicurata dall’art. 19, il quale garantirebbe altresì (analogamente a quanto avviene per altre libertà: ad es. gli articoli 18 e 21 Cost.) la corrispondente libertà ‘negativa’”.

Più in generale, la Corte costituzionale ha affermato (con la sentenza n. 440 del 1995, in tema di reato di bestemmia) che nella “nostra comunità nazionale … hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse”: insegnamento puntualmente ripreso dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. I, 17 aprile 2020, n. 7893), secondo cui, in virtù del principio supremo di laicità dello Stato, è garantita la pari libertà di coscienza di ciascuna persona che si riconosca in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza, ed anche se si tratta di un credo ateo o agnostico, di professarla liberamente e di farne propaganda nelle forme ritenute più opportune, attesa la previsione aperta e generale dell’art. 19 Cost., purché l’esercizio di tale diritto di propaganda e diffusione del proprio credo religioso non si traduca nel vilipendio della fede da altri professata, secondo un accertamento che il giudice di merito è tenuto ad effettuare con rigorosa valutazione delle modalità con le quali si esplica la propaganda o la diffusione, denegandole solo quando si traducano in un’aggressione o in una denigrazione della diversa fede da altri professata.

11.7. È questo, del resto, l’insegnamento che proviene dalla comparazione con altre esperienze giurisprudenziali.

Il Tribunale costituzionale federale tedesco (decisione 16 maggio 1995), nel giudicare contrario al principio di neutralità dello Stato (oltre che difficilmente compatibile con la libertà di religione dei ragazzi che non si riconoscono nella religione cattolica) il regolamento dello Stato di Baviera che imponeva l’affissione del crocifisso in tutte le aule scolastiche delle scuole popolari, ha affermato che, anche quando collabora con le confessioni religiose, lo Stato non può pervenire ad una identificazione con alcuna di queste. Le prescrizioni che impongono l’affissione del crocifisso obbligano gli alunni delle scuole a partecipare alle lezioni confrontandosi di continuo con il simbolo religioso, al contrario di quanto avviene, ad esempio, nei casi in cui, come quando si cammina per strada o si frequentano luoghi aperti al pubblico, non si viene costretti ad un continuo contatto con tali simboli.

Secondo il Tribunale federale svizzero (sentenza 26 settembre 1990), l’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole elementari non adempie l’esigenza di neutralità prevista dalla Costituzione: la laicità si riassume, infatti, in un obbligo di neutralità che impone allo Stato di astenersi negli atti pubblici da qualsiasi considerazione confessionale suscettibile di compromettere la libertà dei cittadini in una società pluralista, il che assume particolare rilievo nella scuola pubblica, poiché l’insegnamento è obbligatorio per tutti, senza alcuna distinzione tra confessioni.

11.8. Il crocifisso è un simbolo religioso, esprimendo, per il credente, il messaggio del mistero della resurrezione e della redenzione dell’uomo.

È quanto ha affermato chiaramente la Grande Camera nella citata sentenza del 18 marzo 2011: “La Corte ritiene che il crocifisso sia innanzitutto un simbolo religioso … A questo stadio del ragionamento non è determinante sapere se il crocifisso abbia altri significati al di là del suo simbolismo religioso”.

Il crocifisso, proprio in quanto espressivo di un’esperienza religiosa, descrive anche uno dei tratti del patrimonio culturale italiano e rappresenta una storia e una tradizione di popolo. L’Italia ha infatti profonde radici cristiane, intrecciate con quelle umanistiche. Lo testimoniano – è stato affermato autorevolmente – “le sue città, i suoi borghi antichi, … le sue cattedrali, la sua arte”.

Allo stesso tempo, la croce e la passione di Cristo richiamano valori (la dignità umana, la pace, la fratellanza, l’amore verso il prossimo e la solidarietà) condivisibili, per il loro carattere universale, anche da chi non è credente.

11.9. La Costituzione, che annovera tra i suoi principi fondamentali il principio di laicità, esclude che il crocifisso possa essere un simbolo identificativo della Repubblica italiana.

Ciò che unisce il popolo italiano, formato dall’insieme dei suoi cittadini in un determinato momento storico, sono i valori, le istituzioni e i principi della Carta costituzionale, la quale, con le sue risposte rigeneranti, disegna i tratti di una società nuova indicandone le linee evolutive e alcuni potenziali traguardi.

La bandiera è l’unico dei simboli della Repubblica del quale la Costituzione si occupa (art. 12).

“[I]ndividuando nel ‘tricolore italiano’ la bandiera della Repubblica ed erigendolo a simbolo dell’unità nazionale, il Costituente ha escluso che tale strumento di identificazione possa essere mutato dalla maggioranza politica del momento, aggiungendovi, ad esempio, i simboli della propria ideologia, che non riflettono, per necessità di cose, quella unità” (Corte cost., sentenza n. 183 del 2018).

La bandiera “designa il nostro Stato e, eventualmente, le idealità che esso propone al confronto internazionale” (Corte cost., sentenza n. 183 del 2018, cit.). “Non avendo lo Stato da imporre valori propri, contenuti ideologici che investano tutti i cittadini, e ‘totalmente’ ogni singolo cittadino, le bandiere valgono soltanto quale simbolo identificatore d’un determinato Stato e, se mai, di precisi, inconfondibili ideali dai quali muove il popolo e, conseguentemente, la sua sovranità” (Corte cost., sentenza n. 189 del 1987).

Elevato valore simbolico è riconosciuto dalla Costituzione anche al Presidente della Repubblica che, in base all’art. 87 Cost., rappresenta l’unità nazionale.

12. L’esposizione del crocifisso non è più un atto dovuto, non essendo costituzionalmente consentito imporne la presenza.

L’espunzione dal significato della disposizione regolamentare dell’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924 dell’obbligo di esposizione del crocifisso non si traduce, tuttavia, in un divieto di affissione del simbolo.

12.1. La disposizione regolamentare non può più essere letta come implicante l’obbligo di esporre il crocifisso nelle scuole, ma va interpretata nel senso che l’aula può accoglierne la presenza allorquando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, nel rispetto e nella salvaguardia delle convinzioni di tutti, affiancando al crocifisso, in caso di richiesta, gli altri simboli delle fedi religiose presenti all’interno della stessa comunità scolastica e ricercando un ragionevole accomodamento che consenta di favorire la convivenza delle pluralità.

La disposizione regolamentare sugli arredi scolastici è suscettibile di esprimere un significato conforme al nuovo contesto costituzionale e alla legislazione che dei principi costituzionali costituisce svolgimento e attuazione, in base ad una interpretazione evolutiva che tramuta l’obbligo di esposizione del crocifisso in una facoltà, affidando alle singole comunità scolastiche la decisione circa la presenza dei simboli religiosi nelle proprie aule.

Là dove si leggeva imposizione autoritativa della presenza del crocifisso, è ora da intendere facoltatività della collocazione, riportata ad una richiesta che proviene dal basso, dagli studenti.

Là dove la disposizione regolamentare era caratterizzata da esclusività (solo quel simbolo), c’è ora spazio per una interpretazione estensiva in direzione della pluralità dei simboli, ispirata ad un universalismo concreto, fondato empiricamente e democraticamente responsivo rispetto alla mutata composizione etnica e quindi anche religiosa della popolazione.

L’originario carattere assoluto e incondizionato della esposizione del simbolo cristiano cede il posto alla possibilità di risposte articolate e non uniformanti, in base ad una linea di composizione dei possibili conflitti all’interno della istituzione scolastica, secondo il principio base della sussidiarietà orizzontale che trova spazio e riconoscimento nell’art. 118 Cost.

Una soluzione “mite” (la parete dell’aula nasce bianca, può rimanere tale ma può anche non restare spoglia e accogliere la presenza del crocifisso per soddisfare un bisogno degli studenti) che si articola in scelte da effettuare caso per caso, alla luce delle concrete esigenze, nei singoli istituti scolastici, con la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti e con il metodo della ricerca del più ampio consenso.

13. Il venir meno dell’obbligo di esposizione, dunque, non si traduce automaticamente nel suo contrario, e cioè in un divieto di presenza del crocifisso nelle aule scolastiche.

13.1. Cospira in questa direzione, innanzitutto, il principio di laicità, definito dalla Corte costituzionale “non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità” (sentenze n. 67 del 2017 e n. 254 del 2019). “Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione” – ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n. 203 del 1989 – “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.

La laicità italiana non è “neutralizzante”: non nega le peculiarità e le identità di ogni credo e non persegue un obiettivo di tendenziale e progressiva irrilevanza del sentire religioso, destinato a rimanere nella intimità della coscienza dell’individuo. La laicità della Costituzione si fonda su un concetto inclusivo e aperto di neutralità e non escludente di secolarizzazione: come tale, riconosce la dimensione religiosa presente nella società e si alimenta della convivenza di fedi e convinzioni diverse. Il principio di laicità non nega né misconosce il contributo che i valori religiosi possono apportare alla crescita della società; esso mira, piuttosto, ad assicurare e valorizzare il pluralismo delle scelte personali in materia religiosa nonché a garantire la pari dignità sociale e l’eguaglianza dei cittadini. La nostra è una laicità aperta alle diverse identità che si affacciano in una società in cui hanno da convivere fedi, religioni, culture diverse: accogliente delle differenze, non esige la rinuncia alla propria identità storica, culturale, religiosa da parte dei soggetti che si confrontano e che condividono lo stesso spazio pubblico, ma rispetta i volti e i bisogni delle persone. Ed è una laicità che si traduce, sul piano delle coscienze individuali, nel riconoscimento a tutti del pari pregio dei singoli convincimenti etici nella costruzione e nella salvaguardia di una sfera pubblica nella quale dialogicamente confrontare le varie posizioni presenti nella società pluralista.

13.2. La scuola pubblica italiana è un luogo istituzionale, ma è anche uno spazio pubblico condiviso in cui la presenza della simbologia religiosa, quando costituisce l’effetto di una scelta che proviene dal basso e non di una determinazione unilaterale del potere pubblico, non rappresenta la visione generale dello Stato-istituzione, ma descrive ricognitivamente le fedi, le culture e le tradizioni dello Stato-comunità: di quella comunità di persone che abita tale spazio.

La scuola pubblica non ha e non può avere un proprio credo da proporre, non ha fedi da difendere, né un agnosticismo da privilegiare. L’ambiente scolastico è sottratto al principio di autorità trascendente. Nella scuola italiana aperta a tutti la Costituzione costituisce la punteggiatura che unisce il piano della memoria con quello del futuro, l’identità personale e sociale con il pluralismo culturale, le istituzioni e le regole della democrazia con l’orizzontalità della solidarietà che si esprime nelle e attraverso le formazioni sociali.

La scuola pubblica è un luogo aperto che favorisce l’inclusione e promuove l’incontro di diverse religioni e convinzioni filosofiche, e dove gli studenti possono acquisire conoscenze sui loro pensieri e sulle loro rispettive tradizioni.

13.3. L’apertura e l’incontro rappresentano la prospettiva attraverso la quale l’ordinamento italiano guarda alla affissione del crocifisso nelle aule scolastiche, in un ambiente inclusivo e disponibile ad accogliere la presenza di altri simboli: interpretando l’uno e gli altri come mezzi di dialogo interreligioso e interculturale, anziché di divisione e di conflittualità; come strumenti di confronto, di comprensione reciproca e di arricchimento al contatto con identità “altre”, non di integralistica rivendicazione di dogmi da imporre. Infatti, nel contesto scolastico, luogo di democrazia pluralista, le identità e le istanze religiose hanno diritto di esprimersi, anche simbolicamente, e si presentano come proposte culturali, non come dogmi, come opportunità di arricchimento spirituale, non come imposizione di divieti che vengano integralisticamente vissuti dai loro adepti.

Il simbolo del cristianesimo, espressione anche delle radici culturali della nostra società, inserito in un contesto aperto alla presenza di simboli di altre religioni o di altre culture propri dei membri della comunità scolastica e quindi alla plurale ricchezza dei contributi offerti, concorre a delineare uno spazio pubblico condiviso, caratterizzato da una molteplicità di ragioni dialoganti e ispirato a una neutralità accogliente delle identità. Anche altri simboli, nati come religiosi ed esterni alla identità tradizionale del Paese, sono suscettibili di diventare, nella scuola pubblica aperta a tutti, simboli culturali di integrazione. È una via – per riprendere una espressione contenuta nella requisitoria del pubblico ministero – che rifugge da identificazioni totalizzanti e da opzioni di “schieramento”, e lascia aperta la porta della tolleranza e della coesistenza, al plurale, di orientamenti e fedi diverse, senza comportare una minorazione o una compromissione dello svolgimento di funzioni istituzionali della scuola. Infatti, l’aggiunta di simboli delle varie religioni non solo pone le varie religioni sullo stesso piano, ma insegna anche agli studenti che è fondamentale il rispetto reciproco delle varie fedi religiose.

14. La presenza o meno nelle scuole del crocifisso rientra, dunque, nell’ambito dell’autonomia delle singole istituzioni scolastiche.

14.1. Si tratta di soluzione che appare al Collegio per un verso coerente con il ruolo dell’autonomia delle istituzioni scolastiche in base alla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, intervenuta con la legge di revisione costituzionale n. 3 del 2001. Se, infatti, autonomia significa inserire dentro il pubblico quei margini di flessibilità e di adattabilità ai diversi contesti che l’uniformità normativa non garantiva, è evidente che sono espressione di tale autonomia le competenze degli organi collegiali in ordine a scelte che investono, sì, l’arredamento delle aule, ma per questa via anche la creazione di un ambiente condiviso nel quale si svolgono le relazioni tra docenti, alunni e famiglie, come pure sulla gestione dei conflitti che ne possano derivare attraverso la ricerca, insieme, di un ragionevole accomodamento mediante una procedimentalizzazione della dialettica, capace di esitare, alla fine, nella misura del possibile, in una soluzione realmente condivisa.

È bensì esatto che la disciplina dei diritti costituzionali non tollera eccessive elasticità interpretative tra scuola e scuola. E tuttavia, proprio la comunità che si raccoglie nella singola aula appare quella maggiormente in grado di scegliere e di decidere: di valutare se esporre il crocifisso, tenendo conto delle singole sensibilità e delle effettive richieste degli utenti del servizio scolastico; di costruire una consapevolezza del significato dell’esposizione del crocifisso; di eventualmente accompagnarne la presenza con l’affissione di simboli di altre fedi religiose o di altre convinzioni ideali o filosofiche presenti nella classe; di ricercare un ragionevole accomodamento con il più ampio consenso possibile.

14.2. Simile competenza si appalesa per altro verso in sintonia con la legislazione scolastica.

L’istituzione scolastica è concepita infatti dal testo unico come una comunità, “una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica” (art. 3), con organi collegiali, a partire dal consiglio di classe (art. 5), istituiti al fine di realizzare la partecipazione alla gestione della scuola, e con la previsione (art. 12 e seguenti) di assemblee degli studenti (concepite come “occasione di partecipazione democratica per l’approfondimento dei problemi della scuola e della società in funzione della formazione culturale e civile degli studenti”) e dei genitori.

L’autonomia delle istituzioni scolastiche – come si dà cura di precisare l’art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 275 del 1999 – “è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti”.

È significativo, inoltre, il nesso tra libertà di insegnamento, formazione della personalità degli alunni e tutela della loro libertà di coscienza. In base agli artt. 1 e 2 del testo unico, “ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente”; “l’esercizio di tale libertà è diretto a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”; tale azione di promozione “è attuata nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni”.

14.3. La valorizzazione delle scelte decisionali delle singole scuole appare in linea con l’idea di chi, autorevolmente, oltre settant’anni fa, individuò nella scuola “un organo vitale della democrazia”. “Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue. Gli organi ematopoietici, quelli da cui parte il sangue che rinnova giornalmente tutti gli altri organi, che porta a tutti gli altri organi, giornalmente, battito per battito, la rinnovazione e la vita”.

14.4. Deve escludersi che la presenza del simbolo, quando derivi da una richiesta degli studenti in quello spazio pubblico peculiare nel quale essi imparano a convivere insieme e a formarsi culturalmente, qualifichi “tirannicamente” l’esercizio dell’attività che in esso si svolge.

Il Collegio rimarca, seguendo l’insegnamento della Grande Camera nel caso Lautsi, che il crocifisso appeso al muro di un’aula scolastica è un simbolo essenzialmente passivo, perché non implica da parte del potenziale destinatario del messaggio alcun atto, neppure implicito, di adesione ad esso. Nella sua fissità e nella sua dimensione statica, esso non pretende osservanza né riverenza. Parla soltanto a chi, credente o non credente, si pone rispetto ad esso in atteggiamento di volontario ascolto.

L’esposizione del simbolo religioso non è un atto di propaganda. Non rappresenta uno strumento di proselitismo. È un atto di testimonianza, di professione della fede religiosa da parte dei componenti di quella comunità di vita in formazione che è una classe di scuola.

Secondo la decisione finale della Corte europea dei diritti dell’uomo, l’esposizione del simbolo è inidonea, tenuto conto del contesto di riferimento, a costituire una forma di proselitismo attivo o di indottrinamento. Il crocifisso non presenta una invasività psicologica tale da condizionare indebitamente il rapporto educativo tra allievi, genitori e istituto scolastico: in particolare, non gli si può attribuire una influenza sugli allievi paragonabile a quella che può avere un discorso didattico o la partecipazione ad attività religiose.

Se ciò vale dal lato degli alunni, a maggior ragione non può non valere per il soggetto attivo della funzione didattica.

Nel contesto della scuola pubblica italiana, i profili della didattica, la scelta dei libri di testo e i contenuti delle attività formative non sono in alcun modo influenzati dalla esposizione del crocifisso. La libertà di insegnamento del docente – presidio di pluralismo culturale e di Stato democratico – non ne rimane affatto incisa o toccata: quel simbolo non interferisce con la possibilità di ciascun insegnante di prospettare la propria concezione del mondo, della vita e della posizione in esso occupata dall’uomo, o più in generale di manifestare le proprie convinzioni in materia religiosa nell’ambito scolastico.

15. Ai fini della soluzione della questione di massima vengono in rilievo il contesto comunitario di riferimento e la circostanza che l’esposizione del crocifisso deriva da una richiesta degli studenti riuniti in assemblea di classe, ancorché mediata attraverso l’ordine di servizio del dirigente scolastico che richiama il deliberato dell’assemblea studentesca e ad esso dà esecuzione. Non siamo in presenza di un crocifisso di Stato. C’è una dimensione di società civile, di comunità, di personalità che si svolgono e di coscienze morali che si manifestano nell’ambito di quella peculiare formazione sociale che è la scuola.

16. In generale, di fronte alla tensione strutturale tra libertà religiosa positiva e negativa, non c’è un aspetto di quella libertà destinato a prevalere in maniera assoluta sull’altro, ma c’è un dovere di garantire le diverse libertà di coscienza e le differenti sensibilità.

17. La Corte costituzionale insegna che “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre ‘sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro’ (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe ‘tiranno’ nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona” (sentenza n. 85 del 2013).

Per questo la Corte costituzionale opera normalmente un ragionevole bilanciamento dei valori coinvolti nella normativa sottoposta al suo esame, dal momento che la Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, viene valutato secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale (Corte cost., sentenze n. 85 del 2013, cit., n. 10 del 2015, n. 63 del 2016, n. 20 del 2017, n. 58 del 2018).

Il bilanciamento improntato a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza consente di evitare che si abbia la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti e il sacrificio totale dell’altro, e garantisce una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionalmente implicati.

18. Il Collegio delle Sezioni unite ritiene che un criterio di valutazione e di giudizio analogo debba essere seguito quando vengano in considerazione diverse libertà di coscienza. Occorre evitare che ci sia un tutto per una delle due libertà e un nulla per l’altra, che un diritto si trasformi in “tiranno” nei confronti dell’altro, che l’esito finale si identifichi, in violazione del principio pluralista, con una soltanto delle diverse opzioni in campo, che la tensione tra diritti di pari dignità si trasformi in scontro tra valori.

19. La strada da percorrere, raccomandata in materia di libertà religiosa da una autorevole dottrina anche sulla base di esperienze comparate, è quella dell’accomodamento ragionevole, intesa come ricerca, insieme, di una soluzione mite, intermedia, capace di soddisfare le diverse posizioni nella misura concretamente possibile, in cui tutti concedono qualcosa facendo, ciascuno, un passo in direzione dell’altro.

L’accomodamento ragionevole è il luogo del confronto: non c’è spazio per fondamentalismi, per dogmatismi o per posizioni pretensive intransigenti che debbano valere in ogni caso nella loro pienezza irrelata.

L’accomodamento ragionevole è basato sulla capacità di ascolto e sul linguaggio del bilanciamento e della flessibilità. Valorizza le differenze attraverso l’avvicinamento reciproco orientato all’integrazione tra le diverse culture. La dimensione che lo caratterizza è quella dello stare insieme, improntata ad una logica dell’et et, non dell’aut aut.

Seguendo questa prospettiva, le soluzioni vanno ricercate in concreto, non sulla linea di chiusure e di contrapposizioni, ma attraverso un dialogo costruttivo in vista di un equo contemperamento delle convinzioni religiose e culturali presenti nella comunità scolastica, dove la plurale e paritaria coesistenza di laici e credenti, cattolici o appartenenti ad altre confessioni, è un valore inderogabile.

L’accomodamento ragionevole si traduce in soluzioni di mediazione e di limitazione proporzionata, perché le diverse concezioni in campo, anche quella espressa dal docente dissenziente, devono poter rinvenire una traccia del diritto fondamentale di cui sono espressione nella regola che discende dal bilanciamento.

L’accomodamento ragionevole favorisce, insieme al raggiungimento di soluzioni concrete più eque, l’incontro e la creazione di un clima di mutuo rispetto, di condivisione e di comune appartenenza, di coesione e di intesa, particolarmente utile in uno spazio vitale di convivenza organizzata come l’aula scolastica.

È frutto ed espressione della laicità come metodo, un metodo in grado di accomunare credenti e non credenti e di far coesistere e dialogare fra loro le diverse fedi e convinzioni attraverso il rifiuto di chiusure dogmatiche contrapposte.

Evita sia una decisione basata sulla semplice applicazione della regola di maggioranza sia un potere di veto illimitato concesso al singolo.

È coerente con l’idea di una democrazia in cui il processo di costruzione della decisione è fondato su, e accompagnato da, una ricca e argomentata discussione e in cui la ricerca del compromesso tra la pluralità di interessi e dei valori in gioco è affidato a una limpida e pubblica capacità di ascolto delle ragioni altrui e di ricerca di un punto di mediazione e di dialogo.

20. Privilegiare un approccio dialogante rivolto alla ricerca, in concreto, di una pratica concordanza con il più ampio consenso significa non appiattirsi su una logica maggioritaria, dove i molti scelgono e decidono e i pochi soccombono: una logica che, anziché accogliere, con uno sforzo di sintesi e di mediazione, identità diverse su un piano di parità, considera sic et simpliciter decisiva la volontà manifestata dalla maggioranza che si sia espressa a favore di una delle due opzioni in campo.

Come interpretato nel nostro ordinamento, il principio di laicità intreccia e alimenta una trama pluralista di uguaglianza e di pari dignità di tutte le manifestazioni di libertà religiosa, senza che rilevi il dato quantitativo o numerico dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa. Il numero non è mai decisivo come tale.

La Corte costituzionale ha al riguardo chiaramente riconosciuto che gli artt. 19 e 21 Cost. tutelano immediatamente l’opinione religiosa propria della persona, essendo indifferente che essa si iscriva o meno in quella di una minoranza (sentenza 117 del 1979, cit.); ha affermato che in materia di religione, non valendo il numero, si impone la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosca in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza (sentenza n. 440 del 1995, cit.); ha sancito che la garanzia costituzionale dell’uguaglianza, rispetto ad alcuni potenziali fattori di diseguaglianza (tra i quali la religione), concorre alla protezione delle minoranze (sentenza n. 329 del 1997, cit.).

La regola di maggioranza senza correttivi non può utilizzarsi nel campo dei diritti fondamentali, che è dominio delle garanzie per le minoranze e per i singoli. I diritti fondamentali svolgono un ruolo contro-maggioritario, sicché, abbandonato il criterio quantitativo, il “peso” assunto dai soggetti coinvolti non può fare ingresso quale decisivo criterio di bilanciamento delle libertà. Anche nelle formazioni sociali ove si svolge la personalità del singolo, la libertà religiosa che accompagna questo sviluppo della persona umana non può essere governata dal criterio della maggioranza che prevale e della minoranza che capitola.

21. Come deve essere escluso che i molti possano vantare una qualche forma di primazia che il dissenziente sarebbe tenuto a onorare, allo stesso modo il metodo ed il criterio dell’accomodamento ragionevole non si lasciano compendiare nel riconoscimento di un potere di veto assoluto del singolo. Il potere interdittivo implicherebbe infatti l’illimitata espansione di uno dei due aspetti della libertà religiosa, che diverrebbe “tiranno” nei confronti dell’altro aspetto, anch’esso costituzionalmente riconosciuto e protetto. La richiesta della eliminazione di ogni elemento rappresentativo che non coincida interamente con i tratti della propria soggettiva convinzione in materia religiosa è pretesa che soffre di rigidità. La libertà di manifestazione della propria convinzione non religiosa non richiede e non si realizza attraverso il divieto assoluto di affissione o l’obbligo di rimozione del simbolo religioso esposto in uno spazio pubblico condiviso a soddisfazione di un interesse di altri soggetti.

21.1. Affidare la soluzione del conflitto tra i diritti ora alla semplice prevalenza del gruppo più numeroso ora al potere di veto assoluto e paralizzante del singolo va incontro allo stesso limite.

L’una e l’altro non raccolgono la sfida e l’opportunità della convivenza in un contesto caratterizzato da una pluralità di fedi e di convinzioni esplicitamente a-religiose; e non rispondono all’idea della tolleranza verso l’altro orientata dalla capacità di ascolto e dalla disponibilità di ciascuno di rendersi punto mediano e di mediazione tra due opposti apparentemente inconciliabili.

22. Calando questi principi nella fattispecie, è evidente che la circolare adottata dal dirigente scolastico il 21 ottobre 2008 non è conforme al modello e al metodo di una comunità dialogante che ricerca insieme la composizione di diritti uguali e contrari, e non esprime una soluzione di mediazione o di compromesso.

Il docente, anch’egli componente della comunità scolastica, è rimasto in effetti estraneo al processo deliberativo: hanno votato gli studenti nella loro assemblea adottando una deliberazione a maggioranza, ma non c’è stata una conforme e successiva deliberazione del consiglio di classe, che si è limitato ad una presa d’atto.

Soprattutto, il dirigente scolastico non ha tenuto conto della voce del docente dissenziente, venendo meno al compito di aiutare gli studenti e il docente a trovare una soluzione di compromesso da tutti sostenibile e rispettosa delle diverse sensibilità.

Non è stata tentata la strada della ricerca dell’accomodamento ragionevole, l’unica capace di promuovere il pluralismo non divisivo nell’ambiente – l’aula scolastica – in cui si animano le relazioni tra studenti e tra questi e gli insegnanti.

Non è stato stimolato un approccio orientato all’intesa. Non è stato ricercato un consenso condiviso.

Il dirigente scolastico, senza vestirsi della terzietà del mediatore, non ha operato alcun giusto contemperamento per trovare una regola che tenesse conto del punto di vista del dissenziente, ma ha dato seguito, semplicemente, alla richiesta degli studenti.

E questa non è reasonable accomodation, cioè una regola ad hoc, su misura del caso specifico, in esito a un procedimento mediatorio, capace di farsi carico anche della posizione del docente dissenziente.

Non sono state valutate, in particolare, le molte possibilità in campo sulle modalità di affissione del crocifisso, tra le quali: (a) l’affissione sulla parete della stessa aula, accanto al crocifisso, di un simbolo o di una frase capace di testimoniare l’appartenenza al patrimonio della nostra società anche della cultura laica; (b) la diversa collocazione spaziale del crocifisso, non alle spalle del docente; (c) l’uso non permanente della parete, con il momentaneo spostamento del crocifisso, in modi formalmente e sostanzialmente rispettosi del significato del simbolo per la coscienza morale degli studenti, durante l’orario di lezione dell’insegnante dissenziente.

23. Il Collegio osserva, con il pubblico ministero, che la ricerca della composizione non equivale a una estenuante e inutile discussione sine die, ma semplicemente impegna dapprima i protagonisti (nel caso, docente e studenti) a valutare e considerare come praticabili le diverse possibilità in campo; poi impegna il dirigente scolastico competente ad adottare la determinazione maggiormente coerente con questo metodo, e dunque quella che esprime il punto di arrivo spontaneo della discussione ovvero, in caso di fallimento di questa, quella che è più armonica con i principi.

23.1. È armonica con i principi – rilevano le Sezioni unite – la determinazione del dirigente scolastico che rifletta, nella soluzione adottata, un equo contemperamento: che cioè, nell’autorizzare, a tutela della coscienza morale degli alunni e della loro libertà positiva di religione, l’affissione del crocifisso, richiesta, a maggioranza, nell’assemblea studentesca, consenta altresì alla libertà negativa del docente dissenziente di incidere sul quomodo della collocazione del simbolo religioso, e così di lasciare traccia di sé nella regola a tal fine elaborata, secondo un principio di proporzionalità della limitazione, conformemente alla natura chiaroscurale del bilanciamento del diritto fondamentale.

24. L’accomodamento ragionevole in materia religiosa è una indicazione che proviene anche dall’esperienza di altre Corti.

Nella citata sentenza del 16 maggio 1995 con cui è stata dichiarata l’incostituzionalità del regolamento bavarese che prevedeva l’obbligatoria esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche elementari, il Tribunale costituzionale federale ha affermato di essere consapevole del fatto che la scuola statale non può certo trascurare l’esercizio del diritto di libertà religiosa della maggioranza di coloro che la frequentano, ma ha rimarcato che anche il diritto di libertà religiosa incontra, nel suo esercizio, i limiti derivanti dalla tutela di altri beni o interessi costituzionalmente garantiti e, in primo luogo, quello rappresentato dall’esercizio dello stesso diritto da parte delle minoranze. Il criterio di risoluzione dei possibili conflitti andrebbe così ricercato nel principio di una pratica ponderazione dei vari diritti che non privilegi in modo massimale una sola delle situazioni giuridiche in contrasto ma le tratti in modo il più possibile paritario.

Nella sentenza in data 2 marzo 2006 nel caso Multani v. Commission scolaire Marguerite-Bourgeoys, la Corte suprema canadese – trovandosi a risolvere un contrasto che coinvolgeva, da un lato, un Consiglio scolastico che contestava ad uno studente la violazione del regolamento che vietava di portare armi negli ambienti scolastici e, dall’altro lato, la famiglia del ragazzo undicenne che, essendo un sikh ortodosso, portava sempre con sé, in base alle sue convinzioni religiose, un pugnale rituale, il kirpan – ha ritenuto il divieto suscettibile di violare la libertà religiosa dello studente: sia perché tale divieto, nel caso specifico, appariva sproporzionato in ragione della presenza centenaria e pacifica della comunità sikh sul territorio canadese; sia in quanto il possibile timore dei compagni nel vedere un’arma doveva essere contemperato con l’alto valore educativo costituito dalla tolleranza nei confronti delle usanze religiose altrui nell’ambito della costruzione della società multiculturale. Nel bilanciare il diritto alla sicurezza nella scuola con quello individuale alla salvaguardia della propria identità religiosa, la Corte del Canada si è rivolta al principio della reasonable accomodation: allo studente è stato garantito il porto del pugnale, purché adeguatamente conservato in una custodia sigillata e osservando alcune cautele; mentre è stato affidato agli insegnanti il compito di spiegare ai propri allievi le ragioni della deroga riconosciuta al proprio compagno, assolvendo così la scuola al suo ruolo di promozione della tolleranza e del rispetto delle minoranze che costituiscono i valori fondanti la società canadese.

25. Un altro aspetto della questione di massima sollevato dall’ordinanza di rimessione attiene alla possibilità o meno di censurare la disposizione di servizio adottata dal dirigente scolastico di esposizione del crocifisso sotto il profilo dell’applicazione della normativa antidiscriminatoria riferita all’ambiente di lavoro.

Più in particolare, l’ordinanza di rimessione della Sezione lavoro sollecita una riflessione sul se sia configurabile una discriminazione indiretta. L’interrogativo muove dall’osservazione che “in questo caso viene in rilievo il valore del simbolo in relazione non all’utente del servizio bensì al soggetto che è chiamato a svolgere la funzione educativa”: di qui il dubbio sul ruolo passivo del crocifisso, potendosi attribuire all’esposizione del simbolo “il significato di evidenziare uno stretto collegamento tra la funzione esercitata ed i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama”. Seguendo questa prospettiva – sottolinea la Sezione rimettente – “il docente non credente o aderente ad un credo religioso diverso da quello cattolico” sarebbe posto “in una situazione di particolare svantaggio rispetto all’insegnante che a quel credo aderisce, perché solo il primo si vede costretto a svolgere l’attività di insegnamento in nome di valori non condivisi, con conseguente lesione di quella libertà di coscienza che il datore di lavoro è tenuto a salvaguardare ogniqualvolta la prestazione possa essere utilmente resa con modalità diverse, che quella libertà garantiscano”.

26. Ai fini del sindacato antidiscriminatorio nell’ambito del rapporto di lavoro del docente con l’amministrazione scolastica, la concretizzazione di una discriminazione vietata va misurata secondo le definizioni offerte dall’art. 2, comma 1, lett. a) e lett. b), del d.lgs. n. 216 del 2003, con il quale è stata data attuazione alla direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Si ha discriminazione diretta (art. 2, comma 1, lett. a) “quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”.

Si configura discriminazione indiretta (art. 2, comma 1, lett. b) “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

Affinché si verifichi una discriminazione diretta, occorre dunque che il provvedimento basato sul fattore protetto dia luogo a un trattamento svantaggioso per una persona: essa si configura quando, sulla base di uno dei motivi vietati, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una posizione analoga.

La discriminazione indiretta ricorre quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri colpiscono in modo significativamente più sfavorevole un gruppo di persone che professa una determinata religione o ideologia di altra natura rispetto ad altre persone in una situazione analoga. In questo caso la discriminazione non si manifesta nel trattamento, ma negli effetti pregiudizievoli che esso produce, in quanto percepiti in modo diverso da persone con caratteristiche differenti. In sostanza la discriminazione indiretta si distingue dalla discriminazione diretta in quanto sposta l’attenzione dalla differenza di trattamento alla diversità degli effetti.

La nozione di discriminazione si completa con l’individuazione dell’ambito di applicazione ai sensi dell’art. 3 dello stesso decreto legislativo.

Vengono in particolare in rilievo il comma 3 e il comma 6 di tale disposizione.

Ai sensi del comma 3, “[n]el rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia legittima, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’art. 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale o determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”.

Secondo il comma 6, “[n]on costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari”.

27. La giurisprudenza della Corte di giustizia ha chiarito (sentenza della Grande Sezione 15 luglio 2021, nelle cause riunite C-804/18 e C-341/19, IX c. Wabe eV e MH Müller Handels GmbH c. MJ): che la nozione di “religione” ai sensi dell’art. 1 della direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che ricomprende sia il forum internum, ossia il fatto di avere convinzioni religiose, sia il forum externum, ossia la manifestazione in pubblico della fede religiosa; che il fatto di indossare segni o indumenti per manifestare la propria religione o le proprie convinzioni personali rientra nella libertà di pensiero, di coscienza e di religione tutelata dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali; che il diritto alla libertà di coscienza e di religione sancito dall’art. 10 della Carta, che costituisce parte integrante del contesto rilevante ai fini dell’interpretazione della direttiva 2000/78, corrisponde al diritto garantito all’art. 9 della CEDU e, in forza dell’art. 52, paragrafo 3, della Carta, esso ha lo stesso significato e la stessa portata di quest’ultimo; che, conformemente alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, sancito all’art. 9 della CEDU, è uno dei fondamenti di una società democratica e costituisce, nella sua dimensione religiosa, uno degli elementi più vitali che contribuiscono alla formazione dell’identità dei credenti e della loro concezione della vita nonché un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici o gli indifferenti, contribuendo al pluralismo – duramente conquistato nel corso dei secoli – consustanziale a una tale società (Corte EDU, 15 febbraio 2001, Dahlab c. Svizzera).

Occupandosi della tematica della facoltà di dipendenti di aziende private di tenere il velo islamico nei rapporti con la clientela a fronte di un divieto posto dal datore di lavoro in base ad una politica di neutralità adottata dall’impresa, la Corte di giustizia (sentenza della Grande Sezione 14 marzo 2017, nella causa C-157/15, Achbita c. G4S Secure Solutions NV) ha affermato che tale divieto, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ma può costituire una discriminazione indiretta qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa nei rapporti con la clientela, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

Nella sentenza in pari data della Grande Sezione (nella causa C-188/15, Bougnaoui c. Micropole SA), la stessa Corte ha precisato che la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico, non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

28. Tanto premesso, le Sezioni unite ritengono che la dimensione fattuale del caso di specie induca ad escludere la sussistenza della discriminazione indiretta prospettata dall’ordinanza di rimessione.

28.1. Nella valutazione delle Sezioni unite, è determinante la considerazione che, con il recepire la volontà espressa dall’assemblea degli studenti in ordine alla presenza del simbolo, il dirigente scolastico non ha connotato in senso religioso l’esercizio della funzione pubblica di insegnamento.

Con simile arredo il datore di lavoro pubblico non ha aderito ai valori della religione cattolica, né ha costretto o indotto i docenti non cattolici a svolgere l’attività di insegnamento in nome dei valori propri di quel credo religioso, spingendoli ad allinearsi a, o a misurarsi con, una convinzione di fede che non è la loro.

La formula del simbolo essenzialmente passivo, adoperata dalla Corte EDU, si mostra coerente anche con questo terreno di giudizio.

Non c’è alcuna evidenza, in altri termini, che tale esposizione, disposta per venire incontro all’autonoma scelta degli studenti, sia suscettibile di evidenziare un nesso confessionale tra insegnamento e valori del cristianesimo.

Risulta dal verbale del consiglio di classe della III A del 3 novembre 2008 che la classe e la scuola in cui si è svolta la vicenda sono caratterizzate da una situazione di “laicità pluralista” e che, in particolare, la presenza del simbolo non ha creato alcun problema agli alunni, alcuni dei quali anche di religione musulmana e provenienti dall’Europa orientale.

Il sistema educativo della scuola pubblica è, e resta a tutti gli effetti, obiettivo, pluralista e orientato allo sviluppo del senso critico: improntato ai valori costituzionali di uno Stato laico in una società aperta, esprime nel sistema ordinamentale, e realizza nella quotidianità del rapporto tra docente e studenti, i princìpi di pluralismo, libertà, rispetto e valorizzazione delle diversità, tolleranza. La scuola italiana crede nel pluralismo e nella tolleranza.

Lo svolgimento della funzione di insegnamento è contrassegnato dal contesto di comunità e dalla esistenza di una relazione dialogante: campeggia l’aspetto relazionale insegnante-studenti, fondato sul reciproco rispetto.

Il Collegio fa proprie le valutazioni del pubblico ministero: “non vi sono, ragionevolmente, elementi per sostenere che l’esercizio della libertà e l’autonomia didattica del singolo docente siano pregiudicati o impediti dal simbolo”.

Non appare corrispondere né alla realtà concreta della classe della scuola di Terni né a quella ordinamentale della scuola pubblica italiana la tesi secondo cui, con l’ordine di servizio che dichiara tutti i destinatari “tenuti a rispettare e a tutelare la volontà degli studenti” di vedere esposto il simbolo della tradizione cristiana sulla parete della loro aula durante tutte le ore di lezione, il datore di lavoro pubblico abbia impresso un vincolo conformativo all’insegnamento.

D’altra parte, se effettivamente la presenza del crocifisso fosse suscettibile di connotare l’esercizio della funzione pubblica che si svolge nelle aule e di evidenziare che l’insegnamento si esercita sotto l’ala protettrice della fede, allora, come osservato in dottrina, non vi potrebbe essere mai spazio per il crocifisso in un’aula scolastica, dalla quale dovrebbe essere, sempre ed in ogni circostanza, bandito. Ci dovrebbe essere un divieto assoluto di esposizione del crocifisso.

28.2. Ad avviso del Collegio, la percezione soggettiva del ricorrente non può da sola essere sufficiente a caratterizzare, e ad integrare, la “situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” alla quale si riferisce il citato art. 2, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 216 del 2003: l’esistenza di una commistione tra l’esposizione del simbolo e l’attività di insegnamento va saggiata concretamente, valutando se, nel contesto scolastico di riferimento, esistano elementi che possano far pensare ad una compenetrazione tra la collocazione di quell’arredo e l’attività di docenza.

Del resto, come la natura di simbolo passivo vale ad escludere che possa cadere in errore l’alunno sulla esistenza di quella commistione, così, a maggior ragione, occorre escludere che possa cadere in errore una persona matura e dotata di spirito critico come l’insegnante.

L’affissione del crocifisso non ostacola il docente nell’esercizio di alcuna delle sue libertà, anche quella di criticare davanti alla classe, in forme legittime e rispettose della altrui coscienza morale, il significato e la stessa presenza del simbolo.

La “situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” non è ravvisabile nel mero fastidio o nel disaccordo sul piano culturale.

Lo stesso aggettivo “particolare” suggerisce l’esigenza di un vaglio che non si può esaurire nella mera percezione soggettiva, ma – anche in base all’agevolato regime probatorio che caratterizza la tutela antidiscriminatoria e annette rilievo cruciale al dato statistico (art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011) – va sostanziato da riferimenti oggettivi, da elementi di fatto.

28.3. L’affissione del crocifisso può risultare “sgradita” al ricorrente, ma da sola non è in grado né di intaccare la sfera delle sue convinzioni personali e delle sue opzioni in materia religiosa, né di pregiudicare la possibilità di esprimerle e di manifestarle, come cittadino e come docente, nell’ambiente scolastico. Le convinzioni personali dell’insegnante, orientate alla negazione di qualsiasi realtà della dimensione divina, come pure la libertà di manifestazione delle stesse, restano tali e non sono minacciate in ragione della presenza di quelle altrui, anche opposte e confliggenti, e delle rappresentazioni simboliche che di esse facciano gli studenti. Il principio di intangibilità del foro interno della persona e il diritto di professare liberamente la propria non-credenza non appare violato per il solo fatto di convivere – in quel peculiare ambiente lavorativo che è la scuola – con segni, rappresentazioni o manifestazioni di un pensiero diverso, non imposto dall’autorità ma richiesto dai fruitori del servizio scolastico: di ciò si permea, d’altra parte, una società democratica e libera nelle manifestazioni di pensiero.

Nella fattispecie, che qui ci occupa, della affissione derivante da una richiesta degli studenti, la mera percezione visiva del crocifisso è il risultato dell’esercizio di un diritto fondamentale da parte degli alunni che fanno parte della stessa comunità. Non è configurabile discriminazione per il fatto che il docente non è stato risparmiato, nello spazio pubblico condiviso, da quella esposizione e da quella percezione visiva.

Lo spirito di tolleranza e il rispetto della coscienza morale degli alunni, cui il docente è tenuto a conformare il suo comportamento, valgono proprio a fronte di opinioni o convinzioni da lui non condivise.

28.4. L’ordine di servizio del dirigente scolastico è, per le ragioni esposte retro, al punto 22 delle Ragioni della decisione, illegittimo, perché la determinazione adottata non riflette un approccio dialogante, rivolto a ricercare un consenso condiviso e a superare le posizioni in tensione attraverso un ragionevole accomodamento sulle modalità di esposizione del crocifisso; ma non per questo esso è espressione di un volto confessionale dell’autorità scolastica, tale da condizionare indebitamente la scelta del metodo didattico e l’espressione del suo contenuto culturale o da menomare il diritto di avere o di professare liberamente la propria non-credenza.

La scelta a favore della affissione del crocifisso, recepita dal dirigente scolastico, è infatti una richiesta della collettività degli studenti, espressione, su un piano orizzontale e non autoritativo, di una volontà che si colloca nello spazio di libertà della coscienza in formazione: una volontà che il dirigente scolastico ha invitato “a rispettare e a tutelare”. Non c’è una imposizione del potere pubblico; non c’è mancanza di imparzialità tra due visioni del mondo.

Adeguandosi tout court alla delibera dell’assemblea studentesca, il preside ha creduto, sbagliando, di poter interpretare il volere dell’intera comunità scolastica, e non ha ricercato una soluzione mite, ossia quella espressione di un compromesso ragionevole, e sostenibile da tutti, nel caso concreto.

Ma, per ciò solo, l’atto, non essendo suscettibile di porre l’insegnante non credente in una situazione di particolare svantaggio, non si presenta discriminatorio nei confronti del docente, la cui libertà di insegnare secondo scienza e coscienza e il cui diritto di professare liberamente le proprie convinzioni non sono stati per nulla incisi, influenzati o menomati.

29. Non appare pertinente il richiamo della difesa del ricorrente a precedenti di merito (le decisioni del Tribunale di Brescia sul “sole padano” esposto a scuola) con i quali è stato riconosciuto che l’intervento di un Comune consistente nell’apposizione all’interno di una scuola statale di simboli partitici è in grado di violare la libertà di insegnamento tutelata dall’art. 33 Cost., connotando politicamente il luogo di lavoro e condizionando i destinatari dell’insegnamento, con la conseguenza che il personale docente che opera all’interno di detta scuola è posto in una posizione di particolare svantaggio rispetto agli insegnanti di tutte le scuole pubbliche in cui la libertà di insegnamento è garantita, e detto intervento integra pertanto una discriminazione ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 216 del 2003.

Si tratta, ad avviso del Collegio, di vicende e di situazioni per nulla comparabili.

Nel caso bresciano vi è stata, secondo l’apprezzamento svolto dai giudici che hanno deciso quella causa, un’apposizione, o meglio un’occupazione o un’invasione, frutto di un blitz di un sindaco che ha rivendicato l’iniziativa vantando la presenza nell’istituto del simbolo del “sole delle alpi”, il quale era stato collocato nella notte precedente all’inaugurazione della scuola in ben 700 punti (sui banchi delle aule, sui contenitori dei rifiuti, sugli indicatori di direzione, sui cartelli, sugli zerbini e perfino sul tetto). Qui, invece, la presenza del simbolo sulle pareti di un’unica aula deriva da una richiesta degli studenti di quella classe nella sede propria dell’assemblea.

Nel primo caso si è di fronte al simbolo di un partito politico: un segno non rappresentativo né della storia né della cultura locale di quel Comune, utilizzato con funzione identitaria per “marcare” un territorio. Nella vicenda all’esame delle Sezioni unite, il simbolo ha un significato religioso al quale, in un Paese come l’Italia, si legano l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo.

Real threat nel primo caso; mere shadow nel nostro.

30. Risolvendo la questione di massima di particolare importanza rimessa dalla Sezione lavoro, le Sezioni unite enunciano i seguenti principi di diritto:

– In base alla Costituzione repubblicana, ispirata al principio di laicità dello Stato e alla salvaguardia della libertà religiosa positiva e negativa, non è consentita, nelle aule delle scuole pubbliche, l’affissione obbligatoria, per determinazione dei pubblici poteri, del simbolo religioso del crocifisso.

– L’art. 118 del r.d. n. 965 del 1924, che comprende il crocifisso tra gli arredi scolastici, deve essere interpretato in conformità alla Costituzione e alla legislazione che dei principi costituzionali costituisce svolgimento e attuazione, nel senso che la comunità scolastica può decidere di esporre il crocifisso in aula con valutazione che sia frutto del rispetto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima comunità, ricercando un “ragionevole accomodamento” tra eventuali posizioni difformi.

– È illegittima la circolare del dirigente scolastico che, nel richiamare tutti i docenti della classe al dovere di rispettare e tutelare la volontà degli studenti, espressa a maggioranza in una assemblea, di vedere esposto il crocifisso nella loro aula, non ricerchi un ragionevole accomodamento con la posizione manifestata dal docente dissenziente.

– L’illegittimità della circolare determina l’invalidità della sanzione disciplinare inflitta al docente dissenziente per avere egli, contravvenendo all’ordine di servizio contenuto nella circolare, rimosso il crocifisso dalla parete dell’aula all’inizio delle sue lezioni, per poi ricollocarlo al suo posto alla fine delle medesime.

– Tale circolare, peraltro, non integra una forma di discriminazione a causa della religione nei confronti del docente, e non determina pertanto le conseguenze di natura risarcitoria previste dalla legislazione antidiscriminatoria, perché, recependo la volontà degli studenti in ordine alla presenza del crocifisso, il dirigente scolastico non ha connotato in senso religioso l’esercizio della funzione pubblica di insegnamento, né ha condizionato la libertà di espressione culturale del docente dissenziente.

31. Passando allo scrutinio dei motivi di ricorso, è preliminare in ordine logico l’esame del terzo motivo, con cui il ricorrente si duole della violazione del principio costituzionale supremo di laicità dello Stato.

31.1. La doglianza è, per quanto di ragione, fondata.

Ha errato la Corte d’appello a non riconoscere l’illegittimità dell’ordine di servizio del dirigente scolastico in data 21 ottobre 2008 con cui i docenti della classe III A sono stati dichiarati tenuti “a rispettare e a tutelare la volontà degli studenti, autonomamente determinatasi ed espressa con chiarezza nel verbale dell’assemblea”.

Tale ordine di servizio è illegittimo, perché, a fronte del dissenso manifestato dal docente, l’amministrazione scolastica non ha ricercato né promosso un accomodamento da tutti sostenibile, sollecitando i protagonisti a valutare le molte possibilità praticabili sulle modalità di esposizione del crocifisso, e neppure ha adottato la soluzione maggiormente armonica con i principi.

L’illegittimità della circolare dirigenziale travolge la sanzione disciplinare applicata per la reiterata inosservanza dell’ordine di servizio con essa impartito.

32. Il primo motivo pone il tema della violazione della normativa antidiscriminatoria e censura che la sentenza della Corte d’appello abbia negato la sussistenza della discriminazione vietata dalla legge e abbia omesso di pronunciare sulla presenza della discriminazione nella forma dei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di religione, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo.

32.1. Il motivo è infondato.

32.2. Non sussiste, innanzitutto, il vizio di infra-petizione denunciato in merito alla sussistenza della discriminazione nella forma delle molestie ex art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 216 del 2003.

La sentenza impugnata, infatti, a pag. 15 e a pag. 16, espressamente esclude, con formula ampia e comprensiva, qualunque forma di discriminazione, e quindi rigetta il motivo di appello con cui era stata riproposta anche la questione dell’atto o della condotta indesiderati. La motivazione che supporta la sentenza dà conto del ragionamento seguito dai giudici del gravame per escludere che l’atto e la condotta del datore di lavoro abbiano violato la dignità del docente o creato un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo: sia là dove si sottolinea che le disposizioni del superiore gerarchico relativamente al crocifisso non imponevano alcun vincolo conformativo all’insegnamento del professor C., giacché la presenza del simbolo cristiano non gli impediva né di criticare la scelta degli studenti né di illustrare, in maniera didatticamente ed educativamente corretta, le ragioni per cui, a suo avviso, nella scuola pubblica non dovrebbe esserci spazio per il simbolo cristiano; sia là dove si evidenzia che il procedimento disciplinare fu avviato, e la sanzione irrogata, per avere il docente deliberatamente ignorato le direttive impartite dal preside, rivolgendogli anche espressioni sconvenienti e irriguardose; sia, ancora, là dove si mette in luce che il C., nella complessiva vicenda, ha avuto attenzione solo per le proprie esigenze, ignorando deliberatamente la sensibilità degli alunni. Sotto quest’ultimo profilo, la motivazione della sentenza d’appello è, evidentemente, da porre in relazione con quanto accertato dal giudice di primo grado, dalla cui sentenza risulta che, durante il consiglio di classe del 3 novembre 2008, i rappresentanti di classe dichiararono di non avere manifestato opposizione rispetto al comportamento dell’insegnante di rimuovere temporaneamente il crocifisso anche “per paura di una eventuale ritorsione”.

32.3. L’esclusione, poi, da parte della Corte d’appello, di una condotta o di un atto discriminatorio del dirigente scolastico, nella forma sia diretta che indiretta, è conforme al principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite nella risoluzione della questione di massima.

33. Per effetto dell’accoglimento del terzo motivo, resta assorbito l’esame del quinto (sulla contestata applicazione, in tema di esposizione del crocifisso, del principio per cui “ciò che non è vietato è consentito”), del sesto (in tema di “autotutela” del lavoratore) e del settimo motivo di ricorso (sulla illegittimità della sanzione).

Va ribadito, infatti, che una volta stabilita l’illegittimità dell’atto presupposto – ossia della circolare del dirigente scolastico del 21 ottobre 2008 – cade la sanzione disciplinare applicata al professor C. per la porzione di addebito relativa alla inosservanza dell’ordine di servizio: viene meno, pertanto, la necessità di scrutinare le censure che investono la legalità, sotto altro profilo, dell’azione amministrativa o l’esercizio e i limiti dell’autotutela del dipendente pubblico, come pure quelle che prospettano la mancata pronuncia sulla dedotta assenza dell’elemento della colpevolezza sul piano soggettivo, secondo lo schema della buona fede ovvero di una scriminante putativa rispetto all’illecito contestato.

Tuttavia, la sanzione disciplinare della sospensione dall’insegnamento per trenta giorni, inflitta complessivamente al professor C., si riferisce anche a una componente di addebito di scorrettezza del comportamento correlata alle plurime espressioni sconvenienti e irriguardose rivolte dal docente al dirigente scolastico. Ne consegue che il tema del se e della misura della sanzione disciplinare implica un apprezzamento di merito che, nella residuale porzione di contestazione disciplinare ancora attiva, riguardante appunto le espressioni offensive, dovrà essere svolto dal giudice del rinvio.

34. Sono, invece, infondati il secondo e il quarto motivo, con i quali si censura che la Corte d’appello abbia negato che la costrizione dell’insegnante a fare lezione sotto un crocifisso leda la libertà di coscienza e di religione del lavoratore e la libertà di insegnamento riconosciuta al docente.

Infatti, nel contesto dell’attività che si svolge nella scuola, la presenza del crocifisso, allorché derivi da una richiesta degli studenti di vedere esposto il simbolo sulla parete della loro aula, non intacca, per il suo carattere passivo, né le convinzioni personali del docente né la sua libertà di insegnamento.

35. Infine, l’ottavo motivo, con cui si lamenta l’omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 216 del 2003, è inammissibile, trattandosi di pronuncia tecnicamente non più possibile, stante il definitivo rigetto delle censure dedotte con riferimento alla violazione del diritto antidiscriminatorio.

Infatti, non essendoci discriminazione, non sussistono gli estremi per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno.

36. La sentenza della Corte di Perugia è cassata in relazione alla censura accolta.

La causa deve essere rinviata alla Corte d’appello di Perugia, che la deciderà in una diversa composizione della sezione lavoro, uniformandosi ai principi di diritto sopra enunciati.

La Corte del rinvio, inoltre, rivaluterà, sul se e sul quanto, la misura disciplinare per la componente di addebito di scorrettezza del comportamento che residua, correlata alle esternazioni verbali del docente nel contesto scolastico, in particolare per le plurime espressioni sconvenienti e irriguardose rivolte al preside.

Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

accoglie il terzo motivo di ricorso, nei sensi di cui in motivazione; rigetta il primo, il secondo e il quarto motivo; dichiara assorbiti il quinto, il sesto e il settimo; dichiara inammissibile l’ottavo; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Perugia, sezione lavoro, in diversa composizione.