Risarcimento del danno da discriminazione, Tribunale di Napoli, sentenza del 26 novembre 2021.

TRIBUNALE DI NAPOLI NORD

SEZIONE LAVORO

Il Tribunale di Napoli Nord, in composizione monocratica ed in persona del giudice dott. Marco Bottino, ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel procedimento iscritto al n 5274/2020 R.G, vertente

TRA

XXX rappresentata e difesa, in virtù di procura in calce al ricorso introduttivo , dall’avv.to Francesco Andretta

CONTRO

Comune di Napoli, in persona del Sindaco p.t., , rappr. e dif. come in atti,

MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO


Con ricorso ex art. 28 d. lgs. 150/11) depositato il 21.5.20, la ricorrente XXX- portatrice di handicap grave ex L. 104/92, attualmente in trattamento chemioterapico; vedova; con una figlia minore a carico; priva della madre defunta, senza rapporti da oltre 20 anni con il padre, con un fratello residente in Spagna ed un altro fratello padre di due figlie minori, in stato di disoccupazione volontaria per ragioni di assistenza familiare – allegando che la dipendente del comune di Napoli YYY , sua zia, fosse l’unica persona in grado di prestargli assistenza familiare e che la stessa in data 17.4.20 aveva richiesto un congedo straordinario ex art. 42, comma 5, d. lgs n. 151/2001 per gg. 120 dal 4.5.20 al 31.8.20, negato dalla resistente con provvedimento PG/2020/290901 del 24.4.20, concludeva come da ricorso introduttivo:

confermare la sussistenza delle discriminazioni dirette per handicap e disabilità lamentate dalla ricorrente a proprio danno ed a danno della sig.ra XXX  e per l’effetto conferma l’ordinanza endo processuale con la quale viene asseverato… il diritto di XXXX congedo Straordinario ex art 42, comma 5 d.lgs. 151/2001 dal 29.5.20 al 31.8.20 con tutte le conseguenze che vi sono connaturate e che ne discendono per legge; e, per l’effetto, condannare le parti resistenti al risarcimento, in favore dell’istante , della sanzione che assorbe in sé anche il danno da discriminazione patito dalla ricorrente (quale violazione del diritto assoluto soggettivo a non essere discriminati) sulla scorta dei richiamati criteri della effettività, proporzionalità e dissuasività di cui all’articolo 17 della Direttiva 78/2000/CE e dell’articolo 28 co da 5 a 7, D.Lgs. 150/2011 nella misura minima pari ad euro 20.000,00 (evidentemente sottostimata alla luce degli indici ristoratori evidenziati e di cui all’art 11 L 689/81) ovvero, gradatamente, in quella misura superiore e/o inferiore determinata secondo il comune apprezzamento del giudice e dei criteri equitativi, in solido tra di loro, o per come di ragione;

disporre per la pubblicazione del provvedimento  edittale su un quotidiano o giornale a tiratura nazionale ai sensi del co 7 dell’art 28 cit. (Quando accoglie la domanda proposta, il giudice può  ordinare la pubblicazione del provvedimento, per una sola volta e a spese del convenuto, su un quotidiano di tiratura nazionale.

Vittoria di spese

Parte convenuta si è costituita deducendo che sebbene l’amministrazione avesse accolto con riserva l’istanza, mancasse ancora il requisito della convivenza presso la residenza della persona da assistere, elemento indefettibile al fine di un accoglimento definitivo dell’istanza.

Va confermata in questa sede la sussitenza di tutti i requisiti previsti dall’art 42,comma 5, d. lgs. n. 151/2001 per ottenere il congedo straordinario.

La richiedente congedo straordinario è la sorella della madre della portatrice di handicap e risulta pacifico dalle allegazioni delle parti che sia attualmente l’unica persona in grado di fornire assistenza familiare alla parente.

Alla luce di una lettura costituzionalmente orientata della disciplina di cui all’art 42, comma 5, d. lgs n. 151/2001, a seguito degli interventi della Corte Costituzionale in materia di fruizione dei congedi straordinari ( da ultimo sentenza n. 232/18 ) ed alla luce della giurisprudenza civile in materia di risarcimento del danno per illecito civile extracontrattuale (cfr cass. sezione III n. 7128/13) che ha esteso il concetto di convevenza anche alle famiglie di fatto, prive del vincolo della coabitazione, il requisito della convivenza, non deve essere necessariamente consistere nella coabitazione inteso come mera coincidenza dell’indirizzo di residenza.

Il dato della convivenza, in senso giuridico, sussiste in presenza di un legame stabile ( nel caso di specie le allegazioni del ricorrente soccorrono alla configurazione di uno stabile legame di assistenza intrafamiliare tra XXX e XXX che può prescindere dal dato della coabitazione

A fronte delle allegazioni del ricorrente, l’amministrazione ha emesso con riserva la dipendente YYY al congedo , subordinando l’ammissione definitiva all’ulteriore allegazione di un un cambio di residenza quale unico dato idoneo a dimostrare la convivenza.

Risulta dalle allegazioni che la YYY già nel 2018 aveva goduto, per le medesime finalità di assistenza alla XXXX, di congedo straordinario senza indennizzo dal 8.10.18 al 31.10.18.

Ciò induce a ritenere che la YYY abbia fornito negli ultimi anni assistenza in via continuativa nei confronti della nipote, abitando a tre minuti di automobile dal luogo in cui la XXXX vive, dimorando con la stessa per finalità di assistenza.

La sussistenza di tali elementi di fatto non contestati dalla resistente risultano idonei, senza la necessità di procedere ad un cambio di residenza a dimostrare l’esistenza di una relazione di assistenza continua e sostegno familiare a soggetto portatore di handicap qualificabile come convivenza, viste le finalità di tutela strettamente connesse agli artt. 2; 29; 30 e 32 della Costituzione.

Atteso l’accertamento innegabile, dunque, nel carattere discriminatorio della condotta posta in essere dal Comune di Napoli, di matrice diretta in ragione del fattore di protezione della disabilità/handicap posseduto dalla ricorrente, che, come specificato dalla pronuncia della Grande Sezione della CGUE 303/06 in data 17.07.2008, risulta essere estensibile anche alla persona che presta assistenza al soggetto disabile.

Il danno da discriminazione si configura come un danno-evento, derivante dalla lesione del diritto soggettivo assoluto (cfr. Cass., Sez. Un., ord. n. 7186/2011 e n. 3670/2011) a non essere discriminato (divieto derivante dal fondamentale principio costituzionale di parità  di cui all’ 3 Cost.) in ragione delle caratteristiche di protezione, della nazionalità, handicap, della razza o etnia, religione, convinzioni personali, di genere e orientamento sessuale, da ritenersi esemplificative (cfr. Cass. sent. n. 1/2020, capo 9.3) e da interpretarsi in chiave estensiva: tale ultima lettura è d’altronde suggerita dall’enunciazione del principio di non discriminazione così come dettato dall’articolo 21 della CDFU ( principio su cui si basa la disciplina in materia di divieto di disparità di trattamento dettata dalle Direttive 43/2000, 78/2000 e 54/2006). Invero, il carattere non esaustivo e rigido dell’elencazione dei fattori di protezione si desume dal tenore letterale della norma da ultimo richiamata. Difatti, nella disposizione di cui all’art 21 CDFUE è presente, prima dell’indicazione dei CD fattori di protezione, la locuzione “in particolare” che testimonia il mero tentativo di sintesi operato dal legislatore europeo con l’individuazione  di particolari fattori di protezione (per una lettura di tal fatta, cfr. Cass. Civ. sez. Lav. sent. n. 1/2020).

Aderendo ad una tale lettura dei cd. fattori di protezione ed operando una ricostruzione del fenomeno della discriminazione diretta per handicap come ricomprensivo anche della disparità di trattamento perpetrata nei confronti del soggetto che assiste il disabile (come nel caso di specie; cfr., sul punto, CGUE, Grande Sezione, sent. del 17.07.2008, causa C-303/06), non può revocarsi in dubbio che nel caso di specie vada risarcito il danno da discriminazione. Tale forma di danno, direttamente derivante dall’accertamento della violazione del divieto di  discriminare, obbliga il soggetto discriminante al ristoro dei pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali subiti dal soggetto discriminato.  
La risarcibilità del danno da discriminazione è nello specifico regolamentato dall’articolo 17 della  Direttiva 2000/78/CE; oltre che dall’art 44 comma 7 D.lgs 286 /1998e dell’art 28 co  5 a 7, del D. Lgs 150/2011.

Quanto al risarcimento dei danni causati dalla condotta discriminatoria, va rilevato che il danno-evento può comportare, come si è detto, sia un danno-conseguenza patrimoniale (es. spese sostenute per prepararsi ad un ad un concorso dal quale si è stati esclusi in ragione della nazionalità) che un danno- conseguenza non patrimoniale.

Sul punto relativo alla corretta quantificazione e conseguente liquidazione del danno da discriminazione va rilevato che ( come l’art 15 direttiva 2000/43) , l’articolo 17 della direttiva 2000/78 sancisce che la misura del risarcimento dei danni originante dalla condotta discriminatoria debba essere tale che il ristoro garantito al lavoratore discriminato risulti effettivo, proporzionato e connotato da una componente sanzionatoria di dissuasività intesa ad evitare la perpetrazione della condotta discriminante.

Ciò significa, dunque, che il risarcimento del danno da discriminazione, oltre ad esercitare una funzione reintegratoria del pregiudizio subito dal soggetto discriminato (tale da consentire il ripristino dello status quo ante pregiudicato dalla condotta: effettività), abbia altresì una funzione eminentemente sanzionatoria, volta ad evitare che il soggetto discriminante ponga in essere ulteriori comportamenti suscettibili di integrare un’effettiva disparità di trattamento

Nelle forme di tutela antidiscriminatoria, la componente sanzionatoria del risarcimento del danno deve poi essere anche proporzionalmente commisurata (proprio per essere effettiva e dissuasiva) alla personalità dell’agente, resosi autore della condotta antidiscriminatoria (ad es. se la sanzione viene commisurata a 10.000,00 euro ed il soggetto discriminante ha un reddito annuale di 1.000.000,00 di euro, la misura della sanzione non sarà, del tutto ovviamente, connaturata da alcuna capacità dissuasiva, perché non risulta essere proporzionata; diversamente dal caso in cui il soggetto discriminante abbia un reddito annuo di 100.000,00 euro).

Alla luce della natura non esclusivamente ripristinatoria dello status quo ante attribuibile al risarcimento da danno da discriminazione ( parzialmente causticato dall’ordinanza cautelare emessa nel presente giudizio e dalla nomina di un  commissario ad acta per l’ottemperanza della prima delle due cautele edittali), vanno evidenziati i plurimi parametri in base ai quali liquidare la pretesa risarcitoria, avendo riguardo ai caratteri di proporzionalità ed effettività, nonché di dissuasività cui il risarcimento deve necessariamente tendere.

Sulla scorta di tali osservazioni, non può revocarsi in dubbio che, stigmatizzando il carattere di sanzione (di cui il risarcimento del danno da discriminazione si correda), vada operata una liquidazione dello stesso tenendo anche conto dei principi generali dettati in materia sanzionatoria dalla normativa interna, non sussistendo, allo stato attuale, né normative di dettaglio sulla corretta quantificazione del danno da discriminazione, né giurisprudenza univoca sul punto.

A tal uopo, viene in evidenza, in particolar modo, il dettato dell’art 11 della L 689/1981, disciplinante i criteri da adottare nella liquidazione delle sanzioni a carattere pecuniario.

La norma detta chiaramente un principio di portata generale ed interdisciplinare, come può evincersi anche dalla collocazione della norma tra i “Principi Generali” di cui alla Sez. I del Capo I della stessa

Legge citata, emanata con il preciso scopo di operare un riordino dell’intero sistema  sanzionatorio interno, specie avendo riguardo alla corretta determinazione quantitativa delle sanzioni a carattere pecuniario.

Nel regolare i parametri in base ai quali determinare il quantum dell’obbligazione sanzionatoria citato art. 11, L. 689/19, stabilisce che : Nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell’applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all’opera svolta dall’agente per la eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche .

Orbene, va chiarito che anche la sanzione discendente dalla corretta ed integrale liquidazione del danno da discriminazione è chiaramente una sanzione pecuniaria, stante il suo carattere di risarcimento del danno per equivalente, quantificato in base ai criteri equitativi ai sensi dell’articolo 1226 cc attesa l’impossibilità di prevedere un risarcimento in forma specifica capace di ristorare a pieno il soggetto discriminato dei plurimi pregiudizi sofferti sia sul piano patrimoniale che su quello non patrimoniale.

Da ciò deriva l’evidente appplicabilità al caso di specie dei principi dettati dal citato art. 11 nel definire la corretta portata della sanzione irrogabile.

Indicazioni precise con riguardo alla corretta individuazione dei criteri cui ancorare la liquidazione del risarcimento del danno da discriminazione vengono offerte anche dalla recentissima Cass. Civ. sez. Lav. sent. n. 28646/2020.

In tale ultima pronuncia, la S.C. sottolinea come il risarcimento del danno originante da fattispecie di responsabilità civile (quale certamente è quella originante dalla perpetrazione di condotte discriminatorie) abbia una funzione non solo reintegratoria della sfera patrimoniale del soggetto leso, ma anche una funzione deterrente         dissuasiva. Sulla scorta di tale principio, la Corte ritiene corretta, nel caso sottoposto alla sua attenzione, la quantificazione del risarcimento del danno da discriminazione operata dalla Corte di Appello. Sul punto, gli Ermellini osservano che appare corretto liquidare il danno sulla base di parametri quali la qualità personale del soggetto discriminante, il comportamento di questi tenuto, l’intensità del pregiudizio, e la gravità della condotta: tutti parametri già indicati da codesta difesa argomentando a partire dal disposto normativo di cui all’art.11 della L  689/1981.

Sul punto, si rimarca quanto rilevato dalla Corte di Cassazione nella succitata sentenza, lì dove si legge: Invero, come recentemente chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione poiché, accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo- riparatoria dell’istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza), è emersa anche una natura polifunzionale che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva (Sez. Un., 05/07/2017, n. 16601). Nel panorama normativo, molteplici sono le disposizioni che dimostrano la funzione lato sensu sanzionatoria della responsabilità civile. Tra queste, può essere menzionato proprio l’art. 28 del d.lgs n. 150/2011 sulle controversie in materia di discriminazione, che dà facoltà al giudice di condannare il convenuto al risarcimento del danno tenendo conto del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento (cfr. Sez. Un., 05/07/2017, n. 16601 cit.). Inoltre – e il rilievo appare dirimente – la Corte d’Appello (pagine 34-35 della sentenza impugnata) ha sì dato rilievo al prestigio e alla pubblica notorietà del dichiarante, ma solo nella prospettiva, del tutto corretta in termini di apprezzamento dell’intensità del pregiudizio, della risonanza mediatica e della propagazione delle sue dichiarazioni; ne ha valutato la portata in linea oggettiva, in termini di chiarezza e offensività; ha considerato altresì l’atteggiamento soggettivo del dichiarante che non le aveva mai smentite, dimostrando una certa pervicacia nella sua condotta; in buona sintesi, ha dato conto in modo lineare e comprensibile degli elementi soppesati ai fini della liquidazione, tutti congrui, pertinenti e dotati di attitudine inferenziale: le critiche del ricorrente scivolano inevitabilmente pertanto sul versante del merito insindacabile in sede di legittimità

1. SUL CARATTERE OMNICOMPRENSIVO DEL RISARCIMENTO DEL DANNO DA DISCRIMINAZIONE: DANNO MORALE E DANNO ESISTENZIALE.

I criteri di proporzionalità ed effettività che devono necessariamente informare la quantificazione del danno da discriminazione, così come prescritto dall’art 15 della Direttiva 200/43/CE e dall’art 17 della Direttiva 2000/78/CE, impongono al Giudice di effettuare una liquidazione omnicomprensiva dello stesso ricomprendente anche gli aspetti non patrimoniali del pregiudizio subito.

Significativa sul punto appare essere la pronuncia di merito adottata dal Tribunale di Varese, sezione distaccata di Luino con Ordinanza n. 31 del 23.04.2012, est. dr. G. Buffone, con la quale si afferma che il risarcimento del danno da discriminazione debba essere diretto a ristorare tutti i pregiudizi a carattere non patrimoniale subiti dal soggetto discriminato, compreso quello derivante dalla lesione del suo autonomo diritto a non essere discriminato, che il G.L. considera voce autonoma del danno in aggiunta a quello biologico, morale ed esistenziale.

In merito, infatti, nella citata ordinanza si legge “Giova ricordare che il divieto di duplicazione risarcitoria, che si infrange contro l’utilizzo indiscriminato  di etichette liquidatorie ( morale, biologico, esistenziale) non modifica, nemmeno in minima parte, il principio costituzionale di riparazione integrale, soprattutto là dove siano arrecate lesioni a situazioni giuridiche soggettive diverse, coperte da protezione costituzionale. Orbene, nel caso di specie, effettivamente, accanto ad una lesione del benessere psicofisico del danneggiato l’atto di violenza ha pure violato, in modo gravemente offensivo e serio, un altro bene giuridico a protezione costituzionale, ovvero quello all’identità  culturale e personale, quale risvolto applicativo del diritto a non subire discriminazioni (….)

La lesione del diritto alla salute e la lesione del diritto a non subire discriminazioni, costituiscono autonomi strappi a situazioni giuridiche soggettive e, dunque, autonomo deve essere il ristoro. In ragione del richiamato principio costituzionale di riparazione integrale del danno (sul punto, v. Corte Cost. sent. N 233/2003 in merito all’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art 2059 c.c nonché, Cass. Civ. Sez. Unite sentt. n. 8827/2003 e 8828/2003), va altresì sottolineato che il pregiudizio non patrimoniale debba essere risarcito, ai sensi dell’articolo 2059 cc, in maniera  omnicomprensiva, tenendo conto di tutte le sofferenze psico fisiche subite dal danneggiato in ragione dell’illecito commesso. Ciò significa che le voci del c.d. danno morale ed il c.d. danno esistenziale pur non potendo costituire (per pacifica giurisprudenza di legittimità e di merito) categorie autonome di danno distinte da quella del danno non patrimoniale, debbano comunque essere prese in considerazione nella liquidazione del pregiudizio a carattere non patrimoniale subito come aspetti separati dello stesso, finendosi, viceversa, per garantire  un ristoro solo parziale a fronte dell’insieme delle sofferenze patite.

L’autonomia delle categorie  del danno morale e di quello esistenziale  rispetto al danno biologico si evince , d’altronde, dalla definizione che la giurisprudenza da di tali specifici aspetti del pregiudizio  non patrimoniale.

In particolare, il danno morale viene definito come “l’ingiusto turbamento dello stato d’animo del  danneggiato o anche nel patema d’animo o stato d’angoscia transeunte generato dall’illecito (cfr. Cass. Civ. Sent n.10393/2002), mentre il danno esistenziale viene classificato come “ pregiudizio, oggettivamente accertabile, che l’illecito (nella specie, del datore di lavoro) abbia cagionato sul fare a- reddituale del soggetto, alterandone abitudini di vita e assetti relazionali che a lui erano propri, sconvolgendone la vita quotidiana e privandolo di occasioni per l’espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno( cfr Cass, Civ. Sez. Unite sent n 6572/2006 che tra l’altro assevera espressamente la risarcibilità del danno esistenziale in aggiunta alle voci del danno biologico e morale)”.

Ciò significa che la liquidazione di queste due voci di danno tende a ristorare la lesione di diversi aspetti della personalità del soggetto discriminato lesi dalla disparità di trattamento perpetrata dal soggetto discriminante. Difatti, mentre il danno morale tende a concretarsi in turbamento dello stato d’animo (con preciso riferimento alla sfera motiva e interiore del soggetto leso) il danno esistenziale tende a sostanziarsi in un pregiudizio arrecato alla sfera dinamico relazionale della personalità del soggetto leso; con ciò escludendosi che una liquidazione congiunta delle due voci di danno possa tradursi in un’indebita duplicazione risarcitoria.

Per tal guisa non può revocarsi in dubbio che, nel caso di specie, l’ingiusta negazione della misura  assistenziale alla dipendente comunale, parente della disabile, si sia tradotto in una perturbazione dello stato d’animo della ricorrente vistasi esposta al rischio di rimanere priva di assistenza dell’unico  familiare capace di rimanerle accanto in uno stadio terminale della patologia oncologica, con una figlia minore accanto.

Inoltre, la negazione del trasferimento ha inciso in maniera decisiva sulla sfera dinamica relazionale,

nonché familiare, della ricorrente, peggiorando indubbiamente il suo stile di vita rispetto a quello che avrebbe potuto adottare se le fosse stata garantita un’assistenza piena ed effettiva con la concessione della misura del congedo straordinario all’unica parente capace di prestarle sostegno in un momento decisamente critico dell’evoluzione della propria patologia.

 Il diniego espresso dal Comune di Napoli a fronte della richiesta di concessione del congedo straordinario avanzata dalla lavoratrice si è infatti tradotto in un indebito ostacolo frapposto dall’amministrazione al pieno godimento del diritto alla salute della ricorrente ma soprattutto al pieno godimento dei diritti di assistenza ed alla famiglia costituzionalmente garantiti.

In definitiva, la pluralità di aspetti della vita della ricorrente sui quali ha inciso negativamente il contegno discriminatiorio tenuto dall’amministrazione comunale non può non portare ad una liquidazione del pregiudizio non patrimoniale sofferto che tenga in debito conto ogni singola voce di danno risarcibile e dei vari aspetti che il risarcimento di tale forma di danno deve contribuire a ristorare.

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Facendo applicazione dei criteri teste elencati appare equo un risarcimento del danno da discriminazione (patrimoniale e non patrimoniale) nella misura, ritenuta sufficientemente congrua, di 12.000,00 euro

Le spese di lite seguono la soccombenza.

PQM

conferma la sussistenza delle discriminazioni dirette per handicap e disabilità lamentate dalla ricorrente a proprio danno e a danno della sig.ra  YYYY e per l’effetto, condanna la parte resistente al risarcimento, in favore dell’istante , della somma di euro 12.000,00

condanna la resistente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 5.428,00 con attribuzione.