Diritto all’identità di genere, Tribunale di Venezia, sentenza 30 settembre 2016

REPUBBLICA ITALIANA

TRIBUNALE DI VENEZIA

– sezione lavoro –

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice del Lavoro Dott. Luigi Perina

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al N.722/2016 Ruolo Lavoro

tra

L. C. B.

con Avv. VORANO MARCO

Ricorrente

e

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA

Con dott. FAVARO STEFANO

convenuto

OGGETTO: sanzione disciplinare conservativa

Svolgimento del processo

1. Con ricorso depositato il 05.04.2016 la parte ricorrente, insegnante, conveniva il MIUR, chiedendo l’annullamento della sanzione disciplinare conservativa (3 giorni di sospensione) irrogata e il risarcimento del danno alla persona conseguente l’illecita sanzione.

Questi i fatti posti a fondamento della domanda.

La parte ricorrente, anagraficamente di sesso maschile, il cui aspetto denotava il suo essere femminile, il 25.11.2015 annunciava al “preside” della scuola la volontà di insegnare nelle classi di competenza, dal successivo 27.11.2015 vestito da donna, esplicitando ulteriormente il suo atteggiamento femminile (capelli e unghie lunghe, comportamenti) già manifestato prima nonostante gli abiti maschili fino ad allora indossati durante le lezioni.

Il dirigente, preso atto della decisione legittima dell’insegnante, convocava per il giorno successivo una riunione col personale ATA per illustrare la nuova situazione, puntualmente tenutasi.

Il 27.11.2015 l’insegnante si presentava in classe con abiti femminili assolutamente nella “norma”, e così nella sala dei docenti e svolgeva il suo lavoro nelle sei classi di pertinenza (scuola superiore) illustrando, all’inizio dell’ora, la sua scelta ed rispondendo alle domande degli studenti su tale “novità”.

Nulla di irregolare percepiva l’insegnante; tuttavia una studentessa si allontanava dalla classe, colpita da crisi di pianto e da un grande stupore per l’accaduto.

Il 30.11.2015 le veniva attribuita nuova supplenza nella stessa scuola.

La situazione veniva stigmatizzata, anche sulla stampa, dall’Assessore all’Istruzione della Regione e ne seguiva un procedimento disciplinare (visita ispettiva, audizioni, termine a difesa e sanzione).

Eccepiva:

a) la tardività della contestazione (18.12.2015);

b) la insussistenza del comportamento sanzionato.

Ed invero:

b1) la sua condotta non violava il decoro della funzione docente “anche e a partire dall’abbigliamento”. L’abbigliamento era del tutto decoroso, assai simile a quello delle colleghe, e l’addebito appariva discriminatorio con riferimento alla scelta di genere effettuata dall’insegnante (cfr. Risoluzione n. 2048 del Consiglio d’Europa sui diritti delle persone transgenere);

b2) la sua condotta non era inadeguata al suo ruolo educativo (per non aver valutato la necessità di preventiva e adeguata informazione/preparazione dell’ambiente scolastico), posto che non vi è stato un clamoroso effetto sorpresa sui docenti e sugli allievi.

Poiché la sanzione, lungi dal colpire fatti, andava a colpire il proprio essere, e pertanto era connotata da discriminazione , ne conseguiva un danno alla persona, quantitativamente determinato in € 10.000,00.

2. La P.A. così prospettava le proprie ragioni.

All’esito dell’ispezione conclusa il 10.12.2015 emergeva quanto segue:

2.1. nel colloquio col docente del 25.11.2015 l’insegnante dichiarava di volersi presentare a scuola con abiti femminili, utilizzando un nome femminile (fino ad allora abiti e nome erano maschili).

Il dirigente le dichiarava che ciò presumibilmente avrebbe avuto un fortissimo impatto interno ed esterno alla scuola, invitando la persona a soprassedere nell’immediatezza e ad adottare grande prudenza.

2.2. Il 27.11.2015 la professoressa vicaria del dirigente lo avvisava dell’accaduto e cioè che il ricorrente si era presentato in abiti femminili in classe, creando sconcerto generale, riferendo che mai nessuna docente si era presentata con un simile abbigliamento (maglia lunga, calzamaglia, stivaletti con tacco, unghie lunghe, orecchini, parrucca ecc…), poco consono alla sobrietà e al decoro.

Riferiva della reazione emotiva di una studentessa; nel contesto scolastico, dopo il grande stupore iniziale, la reazione dei presenti era tornata più tranquilla.

2.3. Un altro professore, vedendo l’insegnante quel giorno è rimasto “impietrito”, perché non preavvisato; riferiva anche che la ricorrente utilizzava i primi minuti della lezione per spiegare la vicenda personale e dicendo agli studenti di appellarla con il nuovo nome femminile.

2.4. Gli studenti hanno confermato che l’impatto iniziale è stato traumatico, di sorpresa, poi “metabolizzato”. Riferivano dell’opportunità di una necessaria preparazione; altri non accettavano tale situazione e altri esprimevano disorientamento (professore? professoressa? L? C?).

2.5. Quanto alla eccezione di intempestività, rilevava che nei 20 giorni di legge veniva trasmessa PEC all’incolpato (art. 55 bis D.lgs. 165/01).

2.6. Nel merito si riportava ai quattro punti della contestazione:

I) inosservanza dell’obbligo di mantenere in ogni aspetto un atteggiamento improntato al decoro della funzione docente (anche e a partire dall’abbigliamento);

II) inadeguatezza al ruolo educativo, non avendo valutato la necessità di una preventiva e adeguata informazione e preparazione dell’ambiente scolastico (impatto improvviso, traumatizzante per studenti minorenni, e per la comunità scolastica);

III) contrarietà ai doveri di servizio, sotto il profilo dell’insubordinazione alle decisione del dirigente di rinviare ad un momento successivo le decisioni personali dell’insegnante, in modo da consentire al dirigente la gestione in modo adeguato della situazione;

IV) imposizione agli studenti del mutamento di nome (da L a C), non avendo la facoltà.

Confutava in sei pagine la posizione esposta in ricorso, ritenendola fuorviante e distorsiva della realtà dei fatti, e richiamandosi agli addebiti nei quali venivano descritti gli illeciti “a prescindere dal diritto dell’incolpato alla propria identità di genere” come espressamente scritto nel provvedimento della P.A.

2.7. Riteneva assolutamente proporzionata la sanzione, senza che questa avesse rilievo anche economico tale da giustificare la domanda risarcitoria di danno morale.

Concludeva per il rigetto della domanda con rifusione di spese.

Espletate le prove (il ricorrente ha dichiarato di non aver in corso alcuna procedura per il mutamento dello status/genere; l’ispettore confermava il rapporto) e, depositate le note, la causa veniva decisa come da dispositivo letto in udienza.

Motivi

3. La questione centrale della presente controversia non riguarda la sussistenza o meno del diritto della persona alla propria identità di genere, riconosciuta anche da fonti normative soprannazionali, citate dalla ricorrente, e nemmeno contestata, ovviamente, dalla P.A. (vedi espressamente in tal senso l’atto di contestazione), bensì tempi e modalità concrete con le quali questo e diritto è stato esercitato nel preciso contesto scolastico sopra riportato (2.1 – 2.4).

Tempi e modalità che secondo la P.A. integrano un inadempimento agli obblighi contrattuali e di legge (D.Lgs. 297/94) che, in particolare, vietano condotte non conformi a responsabilità, correttezza inerenti la funzione docente, ovvero in violazione di doveri tali da pregiudicare il regolare funzionamento della scuola (artt. 494 e 495).

Per il ricorrente, invece, l’atto è semplicemente discriminatorio, non essendovi nulla di irregolare, giuridicamente rilevante, disciplinarmente sanzionabile nella condotta contestata. Tutto nella norma, insomma.

Rileva il giudicante che il ricorso contenente domanda risarcitoria dei danni morali non coglie nel segno rispetto alla condotta censurata dalla P.A. e articolata nei quattro punti (I – IV sopra indicati), e nella sostanza riassumibili nella inadeguatezza, non conformità ai doveri del dipendente insegnante nell’aver attuato con quella tempistica e in quel modo la rivendicazione della propria identità di genere.

Le allegazioni/argomentazioni di ricorso sembrano essere centrate sul diritto attoreo indefettibile, neanche transitoriamente dilazionabile, di realizzazione personale nella acquisizione della propria identità di genere; diritto personale da rivendicare immediatamente senza tenere in debito conto il preciso contesto relazionale nel quale tale condotta viene a calarsi.

Questo e non altro sembra essere il senso delle censure mosse all’insegnante dalla P.A. e contenute nei tre punti della contestazione.

Sotto il profilo della tempistica, il punto III censura il fatto che l’insegnante disattendeva l’invito del proprio dirigente (25.11.2015) a rinviare la manifestazione esteriore della propria identità di genere, per il tempo necessario per dare una informazione adeguata nell’ambiente scolastico (studenti in gran parte minorenni, docenti, ATA). L’insegnante due giorni dopo si presentava a scuola con abiti femminili (non più maschili come fino ad allora).

La scarsa attenzione all’incidenza della propria scelta personale identitaria nell’ambiente scolastico ed in particolare nei confronti degli studenti (ma non solo) è la sostanza dell’incolpazione sub. II.

In essa si stigmatizza la omessa valutazione della necessità di una preventiva e adeguata informazione e preparazione dell’ambiente scolastico, senza gradualità, senza un previo percorso formativo/educativo degli studenti in gran parte minorenni. L’ispettore, sentito come teste, ha confermato di aver raccolto dichiarazioni di studenti e docenti che gli manifestavano grande sconcerto, disagio, stupore per l’accaduto.

Da qui la censura di inadeguatezza al proprio ruolo educativo (che equivale a noncuranza relazionale, scarsa attenzione alle reazioni emotive degli studenti, indifferenza al disagio, turbamento causato dal proprio gesto nell’ambiente formativo giovanile).

Ancora circa le modalità: non è contestato che l’insegnante abbia impiegato parte della lezione in ognuna delle sei classi per “esporre” agli studenti tale sua scelta, manifestando, ancora una volta, la preponderanza della propria posizione individuale/soggettiva rispetto alle esigenze formative/educative da svolgere con un minimo di accortezza e prudenza all’interno della comunità scolastica, mettendo la stessa comunità (impreparata) di fronte al fatto compiuto, e creando verosimilmente un certo turbamento (attestato tra l’altro da reazioni emotive di studenti, mettendo in difficoltà i colleghi, destando qualche allarme nei genitori).

La questione dell’abbigliamento sul quale si dilunga il ricorso – non adeguato/vistoso/volgare/eccessivo per la P.A. ovvero adeguato e “standard” per la ricorrente – altro non è che una “parte” del “tutto”, ossia un aspetto meramente sintomatico della scarsa attenzione della ricorrente alle conseguenze/ricadute della propria condotta nell’ambiente sociale circostante (scolastico/formativo/educativo).

La P.A. sintetizza ciò nell’obbligo di mantenere il decoro, nel dovere di evitare condotte di caduta di stima e di rispetto da parte degli alunni.

Ecco allora che se tempi e modi di tale legittima scelta identitaria di genere fossero stati attuati diversamente, non mettendo la comunità scolastica (da un giorno all’altro) di fronte al fatto compiuto, e dunque accogliendo il suggerimento del Dirigente e consentendo una adeguata formazione/informazione degli studenti prima di ogni altra condotta attorea, questa sarebbe stata “responsabile”, “corretta” e consona alla funzione docente, senza pregiudizi per il normale e ordinato funzionamento scolastico; beni questi tutelati dall’art. 494 e 495 del D.lgs. 297/94.

Infine, va dato il giusto peso al IV punto della contestazione, anch’esso manifestazione di scarso interesse per le ricadute relazionali nell’ambiente scolastico (formativo/educativo) della propria condotta.

Quello stesso giorno l’insegnante fino ad allora appellato col nome maschile “”, ha preteso dagli alunni di prendere atto del mutamento in quello femminile “”, e ciò indipendentemente dalle regole legali (mai intraprese, come confermato in interrogatorio libero), poste a presidio di tale delicata questione del mutamento anagrafico.

La situazione di fatto riassunta nei punti di contestazione è supportata da documenti allegati all’ispezione e confermati dall’ispettore sentito come teste.

L’illecito disciplinare è dunque sussistente e la sanzione conservativa congrua.

La domanda attorea va dunque rigettata.

Abbastanza temeraria anche la domanda risarcitoria, per altro nemmeno suffragata da parametri di riferimento (sul quantum), che va dunque rigettata.

Tenuto conto del principio della soccombenza, soprattutto con riferimento alla domanda risarcitoria (quasi immotivata) le spese vanno rifuse alla P.A., seppur in misura simbolica.

P.Q.M.

così provvede:

1. rigetta le domande tutte proposte in giudizio dal ricorrente ;

2. per l’effetto conferma la sanzione oggetto di impugnativa;

3. condanna il ricorrente alla refusione delle spese di lite in favore di Miur liquidandole in complessivi €

1000 otre I.v.a. e C.p.a. come per legge

4. termine di 60 giorni per il deposito della motivazione.

Venezia, 30 settembre 2016