Discriminazione orientamento sessuale, Corte D’appello di Brescia, sentenza 11 dicembre 2014

R E P U B B L I C A I T A L I A N A

I N N O M E D E L P O P O L O I T A L I A N O

La Corte d’Appello di Brescia, Sezione Lavoro, composta dai Sigg.:
Dott. Antonella NUOVO Presidente
Dott. Antonio MATANO Consigliere
Dott. Giuseppina FINAZZI Consigliere rel.
ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nella causa civile promossa in grado d’appello con ricorso depositato in Cancelleria il giorno 05/09/2014 iscritta al n. 399/2014 R.G. Sezione Lavoro e posta in discussione all’udienza collegiale del 11/12/2014
d a
T. C, rappresentato e difeso dall’Avv.to Piero GIULIANI di Milano e dall’Avv.to Giorgio TAORMINA di Roma,
nonché dall’Avv.to Roberto MERLINI di Brescia, domiciliatario giusta delega agli atti.

RICORRENTE APPELLANTE

c o n t r o

ASSOCIAZIONE AVVOCATURA PER I DIRITTI LGBTI – RETE LENFORD, in persona del Presidente e del legale Rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv.to Caterina CAPUT di Roma, dall’Avv.to Alberto GUARISO di Milano e dall’Avv.to Ippolita SFORZA di Brescia, quest’ultimo domiciliatario giusta delega a margine della memoria.

RESISTENTE APPELLATA

In punto: appello a ordinanza n. 791/14 del 06/08/2014 del Tribunaledi Bergamo.
Conclusioni:
Del ricorrente appellante:
Come da ricorso
Del resistente appellato:
Come da memoria

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ai sensi del rito speciale (e non del lavoro) di cui al combinato disposto dell’art.28 d.lgs.150/2011 e dell’art.702 bis c.p.c., avanti al Tribunale di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, la Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI Rete Lenford, dopo aver convenuto l’avvocato C. T., ha agito per ottenere l’accertamento del carattere discriminatorio delle dichiarazioni rese dal professionista nel corso di un’intervista durante il programma radiofonico “La Zanzara”, e consistenti nell’aver in più occasioni affermato di non voler assumere nel proprio studio avvocati, altri collaboratori e/o lavoratori omossessuali, nonché la correlata tutela legale (risarcitoria e in forma specifica, con rimozione degli effetti ai sensi del cit.art.28 del d.lgs.150/2011).
Con ordinanza del 6 agosto 2014, il giudice ha accolto il ricorso e ha dichiarato il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dall’avvocato T., ordinando allo stesso la pubblicazione, a sue spese, di un estratto dello stesso provvedimento, in formato idoneo a garantire adeguata pubblicità, su “Il Corriere delle Sera”, autorizzando l’Associazione ricorrente, in caso di inottemperanza, a provvedere direttamente alla pubblicazione, con diritto di rivalsa nei suoi confronti per le spese sostenute.
Ha altresì condannato il convenuto al pagamento in favore dell’Associazione della somma di € 10.000,00, a titolo di risarcimento del danno. Ha infine condannato lo stesso al pagamento delle spese di lite.
Avverso questo provvedimento, l’avv.C. T. ha proposto appello ai sensi dell’art.702 quater c.p.c., censurando la decisione sotto vari profili, di rito e di merito. Sotto un primo profilo, ha criticato la decisione laddove, anche d’ufficio, non aveva rilevato il difetto di legittimazione processuale ad agire e anche sostanziale dell’Associazione ricorrente, non potendo la stessa considerarsi ente esponenziale di diritti e/o interessi diffusi.
Ha poi eccepito l’incompetenza funzionale del giudice adito, con conseguente nullità del procedimento e dell’ordinanza impugnata, ai sensi dell’art.158 c.p.c.. Ed ancora, ha pure contestato le statuizioni del giudice di primo grado che avevano respinto l’eccezione di nullità delricorso, per mancanza dell’avvertimento previsto dal numero 7 dell’art.163, comma secondo, c.p.c..
Quanto al merito ha sostenuto l’erroneità della pronuncia, deducendo l’inesistenza di un comportamento discriminatorio “diretto”, la non corretta interpretazione e applicazione dell’art.2, d.lgs.216/2003, la violazione dell’art.3 di quest’ultimo decreto e il difetto di motivazione.
Ha sollevato questione di illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt.2, lett.a) e b) e dell’art.3, lett.a) del cit.d.lgs.216, in relazione all’art.21 della Costituzione.
Ha sostenuto l’erronea applicazione del principio dell’onere della prova, per come disciplinato dall’art.28, comma 4, del d.lgs.150/2011.
Infine, ha censurato anche le statuizioni in ordine al risarcimento del danno, negandone la sussistenza e sostenendo non essere le stesse il frutto di alcun prudente contemperamento e mediazione tra i vari fattori incidenti sul danno.
Dopo aver impugnato la decisione anche con riferimento alla propria condanna alle spese di lite e alla loro quantificazione, ha concluso, in via principale, per l’annullamento del procedimento di primo grado e/o dell’ordinanza impugnata;; in via subordinata, per la riforma dell’ordinanza, con dichiarazione dell’infondatezza del ricorso, ovvero, per l’accoglimento della questione di costituzionalità e rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, ovvero ancora, per la modifica delle statuizioni in materia di risarcimento del danno e di spese di lite.
La Associazione Avvocatura Per i Diritti LGBTI – Rete Lenford si è costituita tempestivamente in giudizio ed ha resistito al gravame.
All’esito dell’odierna udienza, la causa è stata discussa e trattenuta in decisione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’appello non può trovare accoglimento.
I fatti oggetto di giudizio sono sostanzialmente pacifici e il loro sintetico richiamo può essere utile per meglio comprendere il contenuto delle plurime questioni dibattute dalle parti e la relativa soluzione.
L’avv.C. T. nel corso della trasmissione radiofonica “La Zanzara” del 16-10-2013, intervistato dal conduttore, ha rilasciato una serie di dichiarazioni riguardanti l’omosessualità.
Dopo aver esordito con frasi quali “se la tenga lei l’omosessualità, io non ne ho alcune, né simpatia, né antipatia, non me ne frega niente, l’importante è che non mi stiano intorno” “… mi danno fastidio”, alla considerazione del conduttore, “ma lei è circondato da omosessuali, lei purtroppo è circondato, purtroppo per lei, perché la quota di popolazione è sempre quella”, l’avvocato ha risposto “sì vabbè intanto io ad esempio nel mio studio faccio una cernita adeguata in modo tale che questo non accada”.
All’incalzare del conduttore che ha replicato “cioè non ho capito, lei, se uno è omossessuale, non lo assume nel suo studio?”, l’avvocato ha confermato “ah sicuramente no, sicuramente no”.
Il conduttore ha quindi continuato esclamando “ma professore, ma questa è discriminazione … è discriminazione questa roba qua …” e l’appellante ha risposto “beh vabbè sarà discriminazione, a me non me ne frega niente”.
La conversazione è quindi proseguita e l’avv. T. dopo aver chiarito di rispettare “queste persone”, all’ulteriore affermazione del conduttore “ognuno stia a casa sua, d’accordo, ma uno che vuole lavorare da lei, lei non può mettere il paletto <non deve essere frocio>, …”, ha ripetuto “no, no io metto questo paletto sì, eh c’è questo paletto, mi dispiace per lei perché credo che vorrebbe fare un po’ di pratica da avvocato ma …”.
Ed ancora, il professionista, anche dopo l’intervento del co-conduttore, ha persistito con dichiarazioni di questo tenore, lasciando intuire che non avrebbe mai reclutato, ad esempio, il miglior avvocato sulla piazza, laureato a Yale, ma omosessuale: “perché lo devo prendere, faccia l’avvocato se è così bravo e così, diciamo, così capace di fare l’avvocato si apra un bello studio per conto suo e si fa la professione dove meglio crede. Da me non … mi dispiace turberebbe l’ambiente, sarebbe una situazione di grande difficoltà”.
L’Associazione appellata, preso atto delle riportate dichiarazioni, ha quindi promosso l’odierno procedimento, chiedendo l’accertamento del loro carattere discriminatorio, con la correlata tutela legale.
1) Ciò premesso quanto ai fatti, e partendo dalla prima questione sollevata dall’appellante, questi lamenta che il giudice di primo grado non abbia rilevato, anche d’ufficio, il difetto di legittimazione ad agire, sostanziale e processuale, dell’Associazione ricorrente.
Deduce che questa sarebbe costituita esclusivamente da avvocati e praticanti avvocati, per quanto con lo scopo di contribuire a sviluppare e diffondere la cultura e il rispetto dei diritti delle persone LGBT, e anche di offrire tutela giudiziaria, attraverso il coordinamento e la gestione di una rete di avvocati, ai soggetti vittime di condotte discriminatorie dovute alle tendenze sessuali.
Sostiene, dunque, che l’Associazione non sarebbe costituita come ente esponenziale di diritti e/o interessi diffusi, in particolare delle persone che intende assistere e quindi non avrebbe capacità di essere parte del presente giudizio e legittimazione ad agire non essendo rappresentativa del diritto o dell’interesse asseritamente leso.
L’assunto non può essere condiviso.
Premesso che l’eccezione in esame, alla luce di un orientamento abbastanza consolidato della giurisprudenza di legittimità, può essere sollevata anche nel presente grado di giudizio, l’art.5 del d.lgs.216/2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazioni e di condizioni di lavoro, al comma 1, sancisce che “le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4 (per la tutela giurisdizionale), in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio”.
Al comma 2, aggiunge che “i soggetti di cui al comma 1 sono altresì legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione”.
Come fondatamente osservato dalla difesa dell’Associazione appellata, è il legislatore stesso che attribuendo legittimazione ad agire nel processo alle associazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, non soltanto quando le stesse agiscano in nome e per conto, ma anche quando agiscano a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, e anche quando la discriminazione sia collettiva e non siano ancora individuabili le persone lese, si diceva, è il legislatore medesimo a qualificare dette associazioni come enti “esponenziali”.
E ciò che caratterizza queste associazioni non è necessariamente l’appartenenza dei singoli associati alla categoria dei soggetti lesi dalla discriminazione collettiva, bensì lo scopo che le stesse si prefiggono e per il quale sono state costituite dai singoli associati.
In altri termini, le associazioni in questione per essere legittimate ad agire giudizialmente non devono essere costituite da soggetti portatori dell’interesse che difendono, ma devono avere quale fine da perseguire quello della tutela di questo interesse.
Si tratta in sostanza di quei soggetti collettivi che operano sul territorio nazionale a difesa dell’effettività del principio di non discriminazione e che, appunto, si prefiggono di spiegare la loro azione con riferimento ad uno dei fattori possibile fonte di discriminazione e che, da questo punto di vista, aggrega una determinata categoria di soggetti (quale appunto, come nella specie, quello dell’orientamento sessuale della persona).
Si tratta delle associazioni portatrici dei c.d. “interessi collettivi”, interessi cioè facenti capo ad una determinata categoria di soggetti e che, diversamente dai c.d. interessi diffusi (che sono interessi generali adespoti, cioè privi di un loro portatore), si qualificano proprio perché pur essendo comuni ad una collettività definita o definibile, fanno capo ad soggetto, appunto, l’associazione, che ne se ne fa portatore (l’ente esponenziale).
Questa è senz’altro la lettura preferibile della norma in quanto è quella più aderente al contenuto della direttiva CE (2000/78) di cui la stessa è attuazione, e precisamente dell’art.9, ove si evoca espressamente il ruolo delle “associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche … che abbiano interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate”.
Associazioni e organizzazioni, quindi, che non necessariamente devono essere “rappresentative” del diritto o dell’interesse leso, nell’accezione più ristretta del termine, e cioè in quanto costituite dai portatori di un diritto individuale o di un interesse individuale coincidente con quello dell’associazione, ma che devono essere unicamente portatrici dell’interesse “collettivo” leso.
Del resto, trattandosi di controversia che impinge su situazioni giuridiche soggettive di rilevanza comunitaria, la legittimazione ad agire, e quindi le norme che la regolano, va interpretata nella misura più lata possibile, giacché ciò impongono i principi europei di leale cooperazione (che conformano il giudice nazionale come giudice decentrato dell’Unione Europea) e il rispetto dei canoni di interpretazionecodificati dalla nota sentenza della Corte di Giustizia Rewe, di effettività e di equivalenza.
Solo in questo modo, infatti, si consente alla norma europea di spiegare la sua massima efficacia. D’altro canto, come l’associazione appellata non ha mancato di sottolineare, inizialmente, il legislatore nazionale aveva attribuito la legittimazione ad agire unicamente alle rappresentanze sindacali, ma questa trasposizione risultò riduttiva rispetto alla prescrizione del cit.art.9 della Direttiva e pertanto, a seguito della correlata procedura di infrazione aperta a carico dello Stato Italiano, la violazione è stata sanata con la legge n.101/2008 che ha appunto esteso le previsioni dell’art.5 anche alle “associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso”.
Nel caso di specie l’organismo appellato è un’associazione che si occupa della tutela dei diritti e degli interessi delle persone omossessuali. L’art.2 dello statuto della stessa, riguardante “l’oggetto e lo scopo”, sancisce che: “l’associazione ha lo scopo di contribuire a sviluppare e diffondere la cultura e il rispetto dei diritti delle persone omosessuali, bisessuali, transessuali e intersessuali (LGBT), a livello regionale, nazionale, comunitario e internazionale, e in particolare di promuoverne lo studio, la conoscenza e la difesa tra tutti gli operatori dei diritto, sollecitando l’attenzione del mondo giudiziario verso il rispettodelle diversità” (punto 2.1).
Precisa, tra l’altro, che “l’associazione al fine di promuovere, affermare e tutelare i diritti e gli interessi delle persone LGBTI: a) coordina e gestisce la formazione di una rete di avvocati, di cui fanno parte anche i soci e le socie, professionisti o studiosi …;; b) favorisce e promuove la tutela giudiziaria, nonché l’utilizzazione degli strumenti di tutela collettiva, presso le Corti nazionali e internazionali;; …”. L’Associazione convenuta ha anche dedotto, e in punto non vi sono state contestazioni da parte dell’appellante, di svolgere una imponente attività di formazione, informazione e sensibilizzazione sul tema dei diritti alle persone e delle coppie omossessuali, e di aver curato la pubblicazione di diversi volumi in tema; nonché di avere offerto, tramite gli avvocati associati, consulenza legale a diversi cittadini omossessuali in tema di discriminazione, arrivando ad ottenere anche pronunce della Corte Costituzionale (n.138/2010) e della Corte di Cassazione (n.4184/2012) in materia di matrimonio tra persone dello stesso sesso.
In definitiva, l’associazione appellata deve certamente ricondursi nel novero delle associazioni rappresentative dell’interesse leso di cui al cit.art. 5 del d.lgs. 216/2003, secondo l’interpretazione qui sostenuta.
Va quindi affermata la legittimazione ad agire e processuale della stessa (rientrando nello scopo e nei finidell’associazione anche quello specifico di promuovere la tutela giudiziaria dei diritti delle persone LGBTI e l’utilizzazione degli strumenti di tutela collettiva, presso le corti nazionali e internazionali).
2) L’avv.T., con il secondo motivo di appello, si duole che il giudice di primo grado non abbia rilevato d’ufficio la propria incompetenza funzionale.
La doglianza è priva di fondamento.
Anzitutto, non è dato comprendere se l’appellante intenda sostenere che nella specie sarebbe competente il giudice ordinario, come pare implicitamente prospettato, una volta esclusa la competenza per materia del giudice del lavoro. In ogni caso, l’art.28 del d.lgs. n.150/11, pur introducendo un rito speciale diverso da quello del lavoro, non contiene alcuna espressa indicazione in ordine ad una riserva di competenza in favore del giudice civile ordinario, per cui, sotto lo specifico profilo deve necessariamente farsi riferimento alle disposizioni generali in materia di competenza.
Orbene, l’art.414 c.p.c. espressamente dispone che le controversie previste dall’art.409 c.p.c. sono decise dal giudice del lavoro e, nel caso di specie, la domanda ha ad oggetto una controversia in materia, latamente, di assunzione o instaurazione di rapporti di collaborazione e più specificatamente la natura discriminatoria del prospettato non avvenuto reclutamento dilavoratori con particolare tendenza sessuale e individuabili collettivamente.
Sussiste pertanto la competenza per materia del giudice del lavoro.
Soltanto per completezza, merita rilevare che comunque anche nel caso in cui la competenza appartenesse al giudice ordinario, nella specie si porrebbe unicamente un problema di rispetto delle disposizioni tabellari, riguardanti l’assegnazione degli affari all’interno del Tribunale e non una questione di competenza.
Ed invero, è principio costantemente affermato dalla Corte di Cassazione che la ripartizione delle funzioni fra le sezioni lavoro e le sezioni ordinarie di un organo giudicante è estranea al concetto di competenza e attiene unicamente alla distribuzione degli affari all’interno dello stesso ufficio.
3) Con il terzo motivo di gravame, l’appellante censura la decisione di primo grado, laddove ha respinto l’eccezione di nullità del ricorso, mancando nell’atto l’avvertimento di cui all’art.163, n.7, c.p.c..
Anche questo motivo non può trovare accoglimento.
E’ pacifico in causa che l’avv. T., costituendosi nel giudizio di primo grado, oltre ad eccepire la nullità dell’atto introduttivo del giudizio per mancanza dell’avvertimento di cui all’art.163, n.7. c.p.c., si è difeso anche nel merito. Questo è sufficiente a far ritenere sanato il vizio lamentato.
Ed invero, in argomento non si può che richiamare e aderire al consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui la norma dell’art. 164 c.p.c., comma 3, quando, nonostante la costituzione del convenuto in presenza di nullità della citazione relative alla vocatio in ius (quali l’inosservanza del temine di comparizione e l’omissione dell’avvertimento dell’art. 163 c.p.c., n. 7), esclude che si verifichi la sanatoria del vizio della citazione per effetto della costituzione, qualora il convenuto costituendosi eccepisca tale nullità (imponendo al giudice di fissare una nuova udienza nel rispetto dei termini di comparizione), suppone che il convenuto, nel costituirsi, si limiti alla formulazione dell’eccezione di nullità.
Il dovere del giudice di provvedere a tale fissazione è, infatti, ricollegato non ad un’istanza del convenuto, ma direttamente all’atteggiamento dello stesso di proposizione dell’eccezione. Ne deriva che se il convenuto costituendosi svolga le sue difese, il presupposto per l’applicazione della norma non sussiste.
Il legislatore, invero, non avendo richiesto un’istanza del convenuto in aggiunta all’eccezione, ha inteso ricollegare il dovere di fissazione di nuova udienza ad una costituzione finalizzata alla sola formulazione dell’eccezione e non anche aduna costituzione che alla formulazione dell’eccezione accompagni lo svolgimento delle difese.
Se così fosse, la fissazione dell’udienza dovrebbe avere luogo pur in presenza di una difesa completamente articolata, come nel caso di specie, e finirebbe per essere priva di scopo. D’altro canto, una volta considerato che il convenuto che si sia visto notificare una citazione inosservante del termine a comparire o senza l’avvertimento ai sensi dell’art. 163 c.p.c., n. 7, può scegliere di costituirsi e sanare la nullità della citazione oppure di non costituirsi e lasciare che il giudice la rilevi oppure ancora costituirsi e limitarsi ad eccepirla, lo spettro di tali possibilità, rimettendo al convenuto la decisione su come reagire di fronte alla nullità, esclude che egli abbia una quarta possibilità, cioè di costituirsi, eccepire la nullità e svolgere contemporaneamente le sue difese.
Si aggiunga che, essendo la fissazione di una nuova udienza finalizzata ad assicurare che l’esercizio del diritto di difesa fruisca del termine a comparire o dell’avvertimento siccome ritenuto astrattamente necessari dal legislatore al rispetto del diritto di difesa, consentire al convenuto di costituirsi e svolgere l’eccezione e nel contempo le sue difese significa rimettere a lui lo spostamento dell’udienza, in chiara contraddizione con il fatto che, nonostante la nullità, ha svolto le sue difese, pur potendolo non fare.
Se la norma in esame si leggesse nel senso voluto dall’appellante e qui non condiviso, la fissazione della nuova udienza nel rispetto dei termini assumerebbe il valore di una concessione al convenuto di un termine per integrare le sue difese, ma, poiché il legislatore parla di udienza nel rispetto di termini, tale udienza assume rispetto al convenuto la stessa funzione di quella indicata nella citazione e, dunque, di un’udienza in relazione alla quale il suo comportamento è regolato dagli artt. 166 e 167 c.p.c., e non di un’udienza rispetto alla quale dovranno integrarsi le difese.
Si aggiunga ancora che l’opposta soluzione, qualora le difese già svolte dal convenuto evidenzino in rito o nel merito ragioni di rigetto della domanda, finirebbe per comportare che la fissazione della nuova udienza, in quanto doverosa, impedirebbe al giudice di ravvisare le condizioni per la maturità della causa per la decisione a favore dello stesso convenuto (cfr. in motivazione la recente Cass.21910/2014, citata pure dall’Associazione appellata).
Tutte queste considerazioni non risultano esaminate dall’unico precedente della Suprema Corte in senso contrario, cioè da Cass. n. 12129 del 2004, dalla cui lettura, peraltro, non emerge se la costituzione del convenuto di cui nella specie si trattava fosse stata accompagnata da immediato svolgimento delle difese oppure queste – come parrebbe – fossero state svolte successivamente, avendo il giudice invitato le parti a precisare le conclusioni. Anche in argomento, pertanto, l’ordinanza impugnata merita conferma.
4) Venendo ora al merito e in particolare ai motivi di appello riguardanti l’asserita insussistenza della condotta discriminatoria, l’eccezione di illegittimità costituzionale degli art.2 e 3 del d.lgs.216/2003 e la dedotta erronea applicazione del principio dell’onere della prova, si tratta di motivi che meritano una trattazione congiunta, attesa la loro connessione e stretta interdipendenza.
L’appellante deduce, in sintesi, che nel suo caso non sarebbe stata integrata alcuna discriminazione diretta, come affermato dal giudice di primo grado, in quanto l’art.2, lett.a, d.lgs.216/2003, laddove dispone che la fattispecie discriminatoria è integrata quando una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe stata un’altra in una situazione analoga, postulerebbe la comparazione tra situazioni omogenee e non meramente astratte, diversamente quindi da quanto avvenuto nella vicenda per cui è causa, non essendo in corso nel proprio studio assunzioni di alcun tipo.
Inoltre, essendosi riferite le sue dichiarazioni specificamente agli avvocati, neppure sarebbe ipotizzabile il sorgere di un rapporto di qualsivoglia genere, rimanendo l’avvocato un libero professionista anche quando inserito in uno studio legale. Sostiene poi che nel caso in cui le disposizioni normative in parola fossero interpretate diversamente, risolvendosi in una mera manifestazione del pensiero, si porrebbe un problema di costituzionalità delle stesse per contrasto con l’art.21 della Costituzione, che garantisce e tutela la liberà di opinione.
Espone infine, per quanto attiene alla ripartizione degli oneri probatori, che diversamente da quanto statuito dal giudice di prime cure, l’art.28, comma quarto, del d.lgs.150/2011, subordinerebbe “l’inversione” dell’onere della prova alla circostanza che l’attore fornisca elementi di fatto dai quali poter desumere il comportamento discriminatorio, elementi nella specie non offerti dall’Associazione ricorrente, la quale avrebbe fondato la fattispecie discriminatoria unicamente sulle dichiarazioni da lui rilasciate senza fornire alcuna prova del fatto che fossero in corso assunzioni nel suo studio.
Nessuna delle doglianze può trovare accoglimento.
L’art.2, lett.a, del d.lgs. 216/2003, dispone che si ha “discriminazione diretta quando per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”.
Si è già detto che la norma è la trasposizione dei principi della direttiva 2000/78 CE in materia di parità di trattamento nell’occupazione e di condizioni di lavoro.
E’ indubbio pertanto che, per le ragioni anticipate sopra (i principi europei di leale cooperazione che conformano ilgiudice nazionale come giudice decentrato dell’Unione Europea, impongono il rispetto dei canoni di interpretazione codificati dalla già citata sentenza della Corte di Giustizia Rewe, di effettività e di equivalenza, anche al fine di consentire alla norma europea di spiegare la sua massima efficacia), la sua interpretazione non possa prescindere, ma anzi debba essere conforme a quella data a livello europeo.
Soccorrono a tal fine le sentenze della Corte di Giustizia citate dal giudice di primo grado e anche dall’Associazione appellata, che hanno fornito in tema argomenti utili e dai quali è difficile discostarsi (cfr.sentenza nella causa Asociatia Accept C- 81/12 e nella causa Feryn NV C-54/07).
In particolare, la sentenza Feryn ha affermato un quadro esegetico decisivo ai fini che qui interessano.
In quell’occasione il giudice nazionale di primo grado aveva sottoposto al vaglio della Corte di Giustizia un’interpretazione della direttiva 2000/43/CE (gemella della direttiva 2000/78, attuata dalle norme qui in esame), analoga a quella sostenuta dall’avv.T., e cioè che non sarebbero state configurabili situazioni analoghe comparabili in modo specifico e concreto, non essendo in corso assunzioni di alcun tipo da parte del datore di lavoro che aveva dichiarato pubblicamente nell’ambito di una campagna di assunzione, che non sarebbero state accettate le candidature delle persone di una determinata origine etnica. Il giudice nazionale aveva sostenuto che sino a che il datore di lavoro non dava seguito alle proprie affermazioni discriminatorie, la discriminazione doveva considerarsi soltanto ipotetica e non poteva pertanto ricondursi nell’alveo di applicazione della citata direttiva, in materia di discriminazione diretta (2000/43/CE).
La Corte di Giustizia ha escluso questa interpretazione, sposando la tesi dell’Avvocato Generale e affermando che “il fatto che un datore di lavoro dichiari pubblicamente che non assumerà lavoratori dipendenti aventi una determinata origine etnica o razziale configura una discriminazione diretta nell’assunzione ai sensi dell’art.2, n.2, lett.a), della direttiva 2000/43, in quanto siffatte dichiarazioni sono idonee a dissuadere fortemente determinati candidati dal presentare le proprie candidature e, quindi, a ostacolarne l’accesso al mercato del lavoro”.
Come efficacemente esposto dall’Avvocato Generale, nelle proprie conclusioni, al fine di meglio comprendere perché la Corte di Giustizia sia giunta a questa conclusione, è certo che un’interpretazione della direttiva che limitasse la sua portata ai casi identificabili, di aspiranti che si siano candidati ad un determinato posto di lavoro e che siano stati esclusi, rischierebbe di compromettere l’effettività del principio di parità di trattamento in materia di lavoro.
Ed invero, sempre secondo gli eloquenti passaggi delleconclusioni dell’Avvocato Generale, “ … in tutte le procedure di assunzione, la principale <selezione> ha luogo tra coloro che si presentano e coloro che non lo fanno. Non ci si può legittimamente aspettare che qualcuno si candidi a un posto di lavoro se sa in anticipo che, a causa della sua origine razziale o etnica, non ha alcuna possibilità di essere assunto. Pertanto, la dichiarazione pubblica di un datore di lavoro, secondo cui le persone di una determinata origine razziale o etnica non devono presentarsi, ha un effetto tutt’altro che ipotetico. Ignorare che ciò costituisce un atto discriminatorio significherebbe ignorare la realtà sociale, in cui siffatte dichiarazioni hanno inevitabilmente un impatto umiliante e demoralizzante sulle persone aventi quell’origine che intendano accedere al mercato del lavoro e, in particolare, su quelle interessate ad essere assunte presso il datore di lavoro in questione”.
Ed ancora, “in casi come questi può essere molto difficile individuare le singole vittime, dato che, in primo luogo, gli interessati potrebbero non candidarsi neppure a un posto presso tale datore di lavoro … Infatti, il datore di lavoro, manifestando pubblicamente la propria intenzione di non assumere persone di una determinata origine razziale o etnica, esclude tali persone dalla procedura di assunzione e dall’occupazione presso la propria azienda. Egli non si limita a parlare di discriminazione,bensì discrimina. … L’annuncio secondo cui le persone di una determinata origine razziale o etnica non sono bene accettecome candidati a un posto di lavoro costituisce quindi di per sé una forma di discriminazione”.
“Si perverrebbe a risultati imbarazzanti se, per qualche motivo, una discriminazione di questo tipo fosse del tutto esclusa dall’ambito di applicazione della direttiva, in quanto gli Stati membri sarebbero implicitamente autorizzati, in forza della stessa, a consentire ai datori di lavoro di distinguere effettivamente i candidati in ragione dell’origine razziale o etnica, semplicemente rendendo pubblico in anticipo, nel modo più chiaro possibile, il carattere discriminatorio della loro politica di assunzione. In tal modo, la più impudente strategia di assunzione discriminatoria potrebbe anche trasformarsi nella più <premiante>”.
Questi principi danno conto di quale sia la sfera di azione della normativa europea in materia e di quale sia il canone ermeneutico da utilizzare per interpretare la norma nazionale: la discriminazione diretta sussiste ogni qualvolta ad un certo comportamento possa riconoscersi valenza discriminatoria, a prescindere dal riscontro di singoli effetti dannosi già concretamente realizzati.
È dunque sulla potenzialità lesiva delle dichiarazioni imprenditoriali, piuttosto che sulle conseguenze lesive da esse derivanti, che poggia la ricorrenza di una discriminazione diretta, di carattere collettivo, giudizialmente contestabile. In altri termini, come fondatamente osservato dallaAssociazione appellata, l’”ordine di discriminare” o la volontà di discriminare, manifestata pubblicamente del datore di lavoro, integra la fattispecie discriminatoria, senza che questa sia condizionata dalla circostanza che l’ordine sia stato eseguito.
Il contenuto discriminatorio di una condotta lesiva delle disposizioni normative in discussione va dunque valutato in considerazione del pregiudizio, anche soltanto potenziale, che una categoria di soggetti potrebbe subire in termini di svantaggio o di maggiore difficoltà, rispetto ad altri non facenti parte di quella categoria, nel reperire un bene della vita, quale l’occupazione.
In questo senso la Corte di Giustizia si è mossa anche nella causa Asociatia Accept, riguardante proprio l’applicazione dell’art.2, paragrafo 2, direttiva 2000/78, in materia di occupazione e condizioni di lavoro, chiarendo che “l’esistenza di una discriminazione diretta … non presuppone che sia identificabile un denunciante che asserisca di essere stato vittima di tale discriminazione” (il caso, come noto alle parti, riguardava l’azionista di una squadra di calcio che nel corso di un’intervista televisiva aveva dichiarato che sarebbe stato preferibile ingaggiare un calciatore della squadra giovanile, piuttosto che un calciatore presentato come omossessuale).
Applicando questi principi alla vicenda per cui è causa, non possono che condividersi le osservazioni del giudice di primo grado.
L’avv.T., nella intervista radiofonica sopra riportata, più volte ha affermato di non volere persone omossessuali all’interno del proprio studio professionale e di fare a tal fine “una cernita adeguata in modo che questo non accada”.
Ha quindi manifestato, pubblicamente, una politica di assunzione discriminatoria (tra l’altro attuale), essendo volta all’esclusione di candidati con detto orientamento sessuale (avvocati e praticanti, ma anche collaboratori diversi, quindi impiegati o altro, avendo avuto le dichiarazioni dell’avvocato T. contenuto generale, in quanto riferite a soggetti collaboratori, in senso lato, del proprio studio, e soltanto in un secondo momento essendosi concentrate sugli “avvocati”, una volta introdotto dal co-conduttore un esempio concreto, riguardante un avvocato laureato a Yale).
L’appellante ha sostanzialmente dichiarato di effettuare una precisa scelta nell’assunzione o reclutamento del personale, escludendo gli aspiranti omosessuali (“lei, se uno è omossessuale, non lo assume nel suo studio? Ah, sicuramente no, sicuramente no”, “uno che vuole lavorare da lei, lei non può mettere il paletto <non deve essere frocio> …” “no,no, io metto questo paletto si, eh c’è questo paletto …”). Si tratta quindi di espressioni idonee a dissuadere gli appartenenti a detta categoria di soggetti dal presentare le proprie candidature allo studio professionale dell’appellante e quindi certamente ad ostacolarne l’accesso a lavoro ovvero a renderlo maggiormente difficoltoso.
A ciò si aggiunga che l’appellante è piuttosto famoso nel territorio nazionale e questo non può che attribuire maggiore risonanza alle sue dichiarazioni, e quindi, parallelamente, maggiore dissuasività.
Né può avere rilievo la circostanza, sulla quale l’appellante ha molto insistito, che al momento delle dichiarazioni non era in corso presso lo studio dello stesso alcuna selezione di personale.
E’ indubbio che dichiarazioni di detto contenuto siano idonee a dissuadere candidature non solo quando la selezione è formalmente aperta, ma anche nella fase antecedente, prima che questa, in un momento prossimo o lontano, si apra. A ciò deve aggiungersi che nello specifico caso degli studi professionali, quale quello di cui è titolare l’appellante, l’instaurazione di un rapporto di collaborazione con un altro professionista o con un praticante, solitamente non avviene a seguito della formale apertura della relativa selezione, quanto piuttosto sulla base del curriculum professionale e della personale richiesta dell’interessato.
E’ evidente che a seguito della politica di assunzione discriminatoria dell’avv. T, come da lui pubblicamente manifestata, avvocati o praticanti con l’orientamento sessuale in parola, saranno distolti dal proporsi, con pregiudizio di quellaparità delle condizioni di accesso all’occupazione, garantita dalle norme in esame.
Sotto diverso profilo, è pur vero che è stato il medesimo appellante a proporsi quale datore di lavoro e a manifestare, in questa qualità, la propria politica di assunzione discriminatoria, così ponendosi nella stessa condizione presa in considerazione dalla sentenza della Corte di Gustizia Feryn, sopra richiamata, di datore di lavoro che pubblicamente dichiara che non assumerà lavoratori o non collaborerà con lavoratori omosessuali (a prescindere dalla circostanza che sia identificabile una vittima reale della discriminazione) e, prima ancora, che li escluderà dalla futura selezione (“io ad esempio nel mio studio faccio una cernita adeguata in modo tale che questo non accada”).
E’ bene rilevare che, come detto sopra, i principi affermati dalla Corte Europea nella sentenza Feryn e anche nella sentenza Asociatia Accept riguardano, in sostanza, la “politica” di assunzione del datore di lavoro – discriminatoria – e non danno rilievo alla circostanza che una selezione sia in corso (addirittura nella seconda sentenza, la Corte di Giustizia ha ritenuto non incidere sulla condotta discriminatoria il fatto che nelle specie il dichiarante non avesse la capacità di vincolare o rappresentare giuridicamente la società datrice di lavoro in materia di assunzioni, in quanto ha ritenuto che l’unico dato rilevante, proprio sotto il profilo della potenzialità lesiva delle dichiarazioni discriminatorie, fosse il fatto che lo stesso fossepercepito e si presentasse come tale).
Da ultimo, deve pure osservarsi che lo stesso art.2, lett.a della direttiva 2000/78/CE, trasposto nell’art.2, lett.a del d.lgs.216/2003, introduce il criterio della comparazione ipotetica, facendo riferimento ad una persona trattata in maniera meno favorevole rispetto a come “sarebbe trattata” un’altra persona in una situazione analoga (quindi non soltanto come è o come sia stata trattata).
In definitiva, concludendo in punto, il fatto che presso lo studio dell’appellante non fosse in corso alcuna procedura di selezione del personale, non incide sulla sussistenza della discriminazione, integrata questa dalle dichiarazioni rilasciate pubblicamente dal suo titolare, in quanto l’esistenza della discriminazione diretta, alla luce dell’art.2, lett.a del d.lgs. 216/2003, interpretato sulla scorta dei principi della direttiva europea di cui è attuazione, prescinde da detta circostanza, non richiedendo che sia identificabile un denunciante che asserisca in concreto di essere stato vittima di tale discriminazione, ma fondandosi unicamente sulla potenzialità lesiva della condotta medesima.
Una simile interpretazione neppure pare interferire con i principi costituzionali, come sostiene l’appellante. Si è visto che l’art.2 è l’attuazione della direttiva in materia di occupazione e condizioni di lavoro (e quindi anche di accesso al lavoro), e questa, a sua volta, pone principiassolutamente in linea con la Costituzione art.2,3,4 e 35 Cost.).
E’ pure vero che l’art.21 della Costituzione garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, ma è altrettanto vero che questa libertà incontra i limiti degli altri principi e diritti che godono di garanzia e tutela costituzionale.
E’ fin troppo noto che, come correttamente esposto dalla Associazione appellata, il concetto di limite è insito al concetto di diritto, nel senso che per coesistere nell’ordinanza convivenza civile, le varie sfere e situazioni giuridiche devono essere limitate reciprocamente.
E’ quindi evidente che la libertà di manifestazione del pensiero non può spingersi sino a violare altri principi costituzionalmente tutelati e quindi, come nella specie, i principi sopra richiamati (art.2,3,4 e 35) che stanno alla base delle norme in contesa, in materia di discriminazione nell’accesso all’occupazione.
La questione costituzionale sollevata dall’appellante deve ritenersi, dunque, manifestamente infondata.
Infine, per quanto attiene alla distribuzione degli oneri probatori, l’art.28 del d.lgs. 150/11, nel prevedere che le controversie relative alla discriminazione sono regolate unitariamente dal rito sommario di cognizione, stabilisce che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenzadi atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione”.
Aggiunge che “i dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata”.
Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, non si tratta tecnicamente di un’inversione dell’onere della prova, bensì di una semplificazione dell’onere medesimo gravante sul soggetto che lamenta di essere vittima di una discriminazione. Il soggetto convenuto, in sostanza, ha l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori.
Il principio è del tutto in linea con quanto disposto dal diritto europeo, come interpretato da Corte di Giustizia. Basti richiamarsi quanto statuito in tema nell’ormai nota sentenza della Corte di Giustizia nella causa Feryn: “ … l’art.8della direttiva 2000/43 precisa che incombe alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento allorché elementi di fatto permettono di presumere l’esistenza di una discriminazione diretta o indiretta. L’obbligo di fornire la prova contraria, che incombe in tal modo al presunto autore della discriminazione, è subordinato unicamente alla constatazione di una presunzione di discriminazione, dal momento che quest’ultima si fonda su elementi di fatto accertati”.
La Corte prosegue affermando che “ … le dichiarazioni con cui un datore di lavoro rende pubblicamente noto che, nell’ambito della sua politica di assunzione, non assumerà lavoratori dipendenti aventi una certa origine etnica o razziale possono configurare tali elementi di fatto idonei a far presumere una politica di assunzione discriminatoria. Di conseguenza incombe a tale datore di lavoro fornire la prova di non aver violato il principio della parità di trattamento, in particolare dimostrando che la prassi effettiva di assunzione dell’impresa non corrisponde a tali dichiarazioni”.
Principi conformi sono stati affermati anche nella sentenza Asociatia Accept, con riferimento a quanto statuito dall’art.10, della direttiva 2000/78, attuata dal d.lgs. 216/2003, articolo quest’ultimo di contenuto pressoché analogo a quello del cit.art.8 della direttiva 2000/43 (la norma statuisce che “gli Stati membri prendono le misure necessarie … per assicurare cheallorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono … fatti dai quali si può presumere che vi sia stata discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi sia stata violazione del principio della parità di trattamento”).
Nel caso di specie, si è già detto del contenuto discriminatorio delle dichiarazioni rese pubblicamente dall’appellante e della loro potenzialità lesiva. E’ pertanto certo che incombeva al professionista fornire la prova di non aver violato il principio della parità di trattamento, dimostrando, ad esempio, che la prassi effettiva di assunzione nel proprio studio professionale non corrispondeva a tali dichiarazioni.
Di questa prova non vi è traccia in atti, e prima ancora, neppure allegazione.
Ed invero, il professionista si è limitato a negare di avere in corso assunzioni, ma questo dato, come si è spiegato sopra, non ha alcuna rilevanza.
Oppure, si è limitato a sostenere di aver soltanto manifestato la propria opinione nell’ambito di un’intervista: ma anche questa difesa non impinge con la prova di cui si tratta, una volta accertato che le dichiarazioni rilevano come pubblica manifestazione di una politica di assunzione discriminatoria, non consentita dalla legge, ad opera di un datore di lavoro, piuttostoche come manifestazioni di una opinione personale del dichiarante.
In definitiva, nessuno dei motivi di impugnazione qui in esame, merita accoglimento.
5) Con altro motivo di appello, l’avv. T. contesta la tutela risarcitoria accordata dal giudice di primo grado all’Associazione appellata (pubblicazione di un estratto del provvedimento impugnato sul quotidiano “Il Corriere della Sera” e condanna al pagamento in favore dell’Associazione della somma di € 10.000,00).
Deduce nello specifico che il giudice non avrebbe correttamente applicato il principio di equità di cui all’art.1226 c.c., procedendo piuttosto secondo propria discrezionalità, e neppure avrebbe considerato che appunto in ragione della propria notorietà, la pubblicazione del provvedimento su di un quotidiano a tiratura nazionale sarebbe stata di per sé rimedio sufficiente, con conseguente superfluità della condanna al pagamento di una somma di denaro.
Anche questo motivo non ha ragion d’essere.
Come correttamente affermato dal giudice di primo grado, secondo le direttive in materia di parità di trattamento e discriminazione, anche alla luce dell’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia, le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di trasposizione, debbono essere effettive, proporzionate e dissuasive, poiché una sanzione meramente simbolica non può essere considerata compatibile con un’attuazione corretta ed efficace delle direttive stesse (cfr.le sentenze già citate, Feryn e Asociatia Accept).
L’art.28 del d.lgs.150/2011, al comma 5 dispone, nello specifico, che il giudice con l’ordinanza che definisce il giudizio può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti.
Prevede, dunque, due sanzioni diverse e non necessariamente alternative. Nel caso di specie, certamente condivisibile è la statuizione del giudice di prime cure che ha ritenuto necessario, sotto il profilo della “rimozione degli effetti” della condotta discriminatoria dell’appellante, ordinare la pubblicazione dell’ordinanza impugnata su di un quotidiano a grossa tiratura nazionale, quale “Il Corriere della Sera”.
Le dichiarazioni rilasciate dall’avv. T., professionista noto, hanno avuto ampia risonanza mediatica (come documentato dagli estratti on-line prodotti dall’Associazione appellata), sono state molto chiare e piuttosto offensive.
L’appellante inoltre non le ha mai smentite, così dimostrando una certa pervicacia nella propria condotta. E questa sanzione, diversamente da quanto sostenuto dall’appellante, non può ritenersi sufficiente anche a risarcire il danno non patrimoniale subito dall’Associazione appellata, in quanto rappresentativa dell’interesse leso.
Come visto, la sanzione deve essere oltre che dissuasiva, efficace e proporzionata, ed è indubbio che la parte convenuta, quale soggetto collettivo esponente degli interessi delle persone omossessuali, abbia subito un pregiudizio (non patrimoniale) per effetto del comportamento dell’appellante, in termini di lesione di un diritto, legalmente tutelato, alla parità di trattamento nell’accesso al lavoro nonostante l’orientamento sessuale, diritto dalla stessa Associazione propugnato e tutelato.
La lesione è stata significativa, attesa la ferma reiterazione delle affermazioni da parte dell’appellante e il contenuto fortemente scoraggiante delle stesse.
L’ordinanza impugnata va, dunque, confermata anche in punto sanzioni.
6) Il gravame, infine, non merita accoglimento neppure per quanto attiene alla condanna dell’appellante alle spese di lite, attesa la sua sostanziale soccombenza (il ricorso dell’Associazione non è stato accolto unicamente con riferimento al profilo del tutto marginale delle maggiori sanzioni richieste e riguardanti la pubblicazione su due quotidiani e la quantificazione del danno nella somma di € 15.000,00).
Circa la quantificazione delle spese è bene rilevare che il valore dell’odierno procedimento non può ridursi quello riguardante il danno non patrimoniale oggetto di risarcimento, posto che ai sensi dell’art.10 c.p.c. e dell’art.5 del d.m. 55/2014, il valore della causa va determinato sommando il valore delle domande e la domanda di accertamento della sussistenza di una condotta discriminatoria è senz’altro di valore indeterminato.
Da ciò deriva che lo scaglione da utilizzare nella presente causa è diverso da quello indicato dall’appellante e va individuato, quantomeno, in quello superiore, che parte dalla somma di € 26.001,00.
Così, tenuto conto della difficoltà della odierna controversia, della sua importanza, della complessità delle questioni giuridiche trattate e della completezza degli atti dell’Associazione, la liquidazione operata dal giudice di prime cure risulta del tutto congrua.
Per quanto riguarda invece le spese del presente giudizio, motivi di equità, tenuto conto in particolare della complessità della questione esaminata preliminarmente e riguardante la legittimazione attiva dell’Associazione, (questione questa ancora poco indagata dalla giurisprudenza), inducono a dichiararle interamente compensate tra le parti.
Trattandosi di rigetto integrale dell’impugnazione, l’appellante è tuttavia tenuto al versamento dell’importo previsto dall’art. 1, co. 17, legge 228/12.

PQM

Respinge l’appello avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Bergamo in data 6 agosto 2014, nell’ambito del procedimento ex art.28 del d.lgs. 150/2011; dichiara interamente compensate tra le parti le spese di lite.
Brescia, 11 dicembre 2014