Discriminazione di genere,Tribunale Pisa, ordinanza del 20 ottobre 2014

REPUBBLICA ITALIANA

Il Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Pisa

dott.ssa Elisabetta Tarquini, visto l’art. 1 commi 48 e seguenti della L. 92/2012, nella causa promossa da

L. E e Consigliera di Parità della Provincia di Pisa(Avv. Federici)

contro

E I s.p.a.            (Avv. Romano)

E NV                                    (contumace)

 

Sciogliendo la riserva in atti osserva quanto segue.

Con ricorso depositato il 28.2.2014 l’ing. E L e la Consigliera di Parità della Provincia di Pisa convenivano davanti a questo giudice del lavoro la società E I s.p.a. e la controllante E NV, allegando essere stata l’ing. L formalmente dipendente di E I s.p.a con qualifica di quadro e mansioni (fino al febbraio 2012, quanto al periodo successivo vedi infra) di “manager del business italiano” (così pag. 3 punto 3 del ricorso) dal 26.2.2007 fino al 31.10.2013 quando il rapporto di lavoro si era risolto ad iniziativa della datrice di lavoro apparente, asseritamente per giustificato motivo oggettivo determinato dalla cessazione della sua attività aziendale.

In contrario argomentavano le ricorrenti l’interposizione fittizia di manodopera tra E I e la sua controllante belga e quindi l’effettiva riferibilità del rapporto negoziale controverso alla capogruppo, cui sarebbero stati imputabili tutti i poteri datoriali.

Ancora assumevano l’illegittimità del recesso, in tesi in quanto discriminatorio per motivi di genere, esso avendo rappresentato nella prospettazione attrice l’esito di una serie di condotte illecite agite dalla società in confronto dell’ing. L dopo che ella aveva annunciato la sua gravidanza, e tali prima da deprivarla delle sue mansioni direttive in favore di un nuovo preposto (il dott. F Z) e infine da escluderla da ogni attività aziendale.

In subordine la difesa delle attrici argomentava l’illegittimità del recesso per violazione delle regole procedimentali di cui agli artt. 7 della L. 604/1966 e 24 della L. 223/1991, l’effettiva datrice di lavoro E NV avendo licenziato, nel periodo luglio – ottobre 2013, oltre all’ing. L altri cinque dipendenti per la stessa affermata ragione oggettiva senza dar corso alla procedura ex lege 223/1991.

Sulla base di queste allegazioni l’ing. L concludeva:

  1. 1) in tesi per l’accertamento della dedotta interposizione fittizia di manodopera tra le due convenute, per l’effetto per l’accertamento dell’imputabilità del rapporto di lavoro controverso alla controllante E NV, nonché per la declaratoria di nullità del licenziamento in quanto discriminatorio per motivi di genere, con le conseguenze di cui ai primi due commi dell’art. 18 L. 300/1970 come novellato dalla L. 92/2012, con condanna altresì dell’effettiva datrice di lavoro a risarcire la lavoratrice dell’ulteriore danno subito in conseguenza dell’affermata discriminazione;
  1. 2) in ipotesi, accertata l’interposizione fittizia di manodopera e la riferibilità del rapporto ad E NV, per l’annullamento del licenziamento in quanto viziato dall’omissione della procedura ex lege 223/1991, con le conseguenze risarcitorie e ripristinatorie previste per tale categoria di vizio dall’art. 18 della L. 300/1970;
  1. 3) in ulteriore subordine, e più specificamente per il caso non fosse accertata la simulazione della titolarità del rapporto, per la declaratoria di nullità del licenziamento intimato da E I in quanto discriminatorio per motivi di genere, con le conseguenze di cui ai primi due commi dell’art. 18 L. 300/1970 e con condanna di E I all’ulteriore risarcimento del danno da discriminazione;

La Consigliera di Parità dal canto suo chiedeva accertarsi la commissione da parte delle convenute delle affermate condotte discriminatorie e per l’effetto dichiararsi la nullità del licenziamento intimato all’ing. L con le conseguenze di cui ai primi due commi dell’art. 18 L. 300/1970, con condanna delle convenute a risarcire la lavoratrice dell’ulteriore danno da discriminazione. Chiedeva altresì che fosse ordinata la pubblicazione della decisione di condanna su quotidiani a tiratura nazionale a cura e spese delle convenute.

Costituitosi il contraddittorio, E NV restava contumace, mentre resisteva E I, negando essersi data la dedotta interposizione, nella sua prospettazione la controllante essendosi limitata ad esercitare i suoi legittimi poteri di direzione e coordinamento generale dell’attività delle controllate.

Negava altresì le dedotte condotte discriminatorie mentre, quanto all’affermata violazione della procedura ex lege 223/1991, contestava esserle applicabile, essa società avendo avuto al momento del licenziamento sei dipendenti in tutto.

Concludeva per il rigetto del ricorso.

Fallito il tentativo di conciliazione, la causa era istruita con l’acquisizione, sull’accordo delle parti, dell’istruttoria già svolta in altro giudizio tra loro pendente.

Quindi, dopo aver redatto note scritte, all’udienza di cui in atti i difensori discutevano richiamandosi alle conclusioni sopra specificate e la giudicante si riservava la decisione.

Così riassunta la presente vicenda processuale, deve in primo luogo apprezzarsi in rito l’ammissibilità dell’intervento della Consigliera di Parità, adesivo alle ragioni attrici in punto di asserita discriminatorietà del recesso.

In proposito è noto come, in materia di discriminazione di genere, gli artt. 36, 37 e 38 del D.Lvo 198/2006 attribuiscano alle Consigliere di parità una specifica legittimazione processuale, consentendo loro di agire in via esclusiva al fine di far cessare e rimuovere gli effetti di discriminazioni collettive, ma anche, nelle discriminazioni che coinvolgano singoli lavoratori o lavoratrici, di promuovere il giudizio “su delega della persona che vi ha interesse, ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima”, e ciò sia azionando un ordinario giudizio di cognizione, sia avvalendosi di uno speciale rito sommario.

Si tratta di facoltà tutte che possono darsi astrattamente in confronto di ogni atto discriminatorio, compreso quindi il licenziamento, che nessun dato normativo autorizza a dire precluse dall’introduzione del rito specifico ex lege 92/2012, e che concorrono pertanto con quelle riconosciute in via generale al lavoratore e alla lavoratrice interessati di impugnare l’atto lesivo.

Altra e diversa questione è quella dell’accessibilità per la parte pubblica dell’azione ex art. 92/2012 in rappresentanza del lavoratore o della lavoratrice interessati o ad ausilio delle loro pretese.

In assenza di qualsiasi precedente noto, e quindi necessariamente ragionando esclusivamente sui principi, sembra a questo giudice da escludersi la legittimazione della Consigliera ad agire nel rito specifico in rappresentanza dei singoli interessati.

Nella specie infatti la Consigliera farebbe valere in giudizio un diritto altrui quale sostituto processuale, una facoltà che la legge sembra limitare all’azione di rimozione delle discriminazioni (come agita secondo le diverse formalità previste dal D.L.vo 198/2006), come risulta dal tenore testuale, per quello che qui interessa, degli artt. 36 e 37 del D.L.vo 198/2006, e certamente non consentita in casi non espressamente previsti, secondo la generale previsione dell’art. 81 c.p.c.

Diversamente tuttavia deve dirsi ove, come nella specie, il soggetto pubblico svolga un intervento semplicemente adesivo alle ragioni del lavoratore o della lavoratrice.

In tal caso infatti la posizione della Consigliera resta comunque regolata dal generale principio di cui al secondo comma dell’art. 105 c.p.c., che consente l’intervento adesivo dipendente ai terzi che abbiano “un proprio interesse” in causa, un interesse la cui esistenza dovrebbe riconoscersi in capo alla parte pubblica in ragione della finalità della sua azione (diretta appunto alla protezione degli interessi lesi dalla condotta discriminatoria).

D’altro canto l’intervento della Consigliera, proprio in quanto semplicemente adesivo alle ragioni della parte privata, non determina l’introduzione di alcuna domanda diversa dall’impugnazione del licenziamento, così la sua presenza in giudizio non comportando alcuna (in ipotesi inammissibile) estensione dell’oggetto del decidere.

Deve pertanto ritenersi l’ammissibilità dell’intervento adesivo della Consigliera.

Ciò posto, nel merito è pacifico, e comunque documentato (cfr. doc. 1 dell’attrice), essere stata l’ing. L, almeno formalmente, dipendente di E I, assunta nel febbraio 2007 con qualifica di quadro e mansioni, secondo la lettera del contratto, di “manager del business…in Italia”.

E’ del pari in atti (doc. 20 sempre dell’attrice) il contratto 1°.5.2012, nel quale, immutata la qualifica, le parti convenivano l’applicazione del CCNL del commercio in luogo di quella Energia e petrolio fino ad allora soggettivamente efficace, e definivano il ruolo della lavoratrice con l’espressione “gestore dello sviluppo di progetto”.

Infine sub 59 del fascicolo della ricorrente è la lettera di licenziamento, intimato dalla formale datrice di lavoro con lettera 23.7.2013, per giustificato motivo oggettivo, in conseguenza della dedotta cessazione dell’attività aziendale di E I e con effetto dal 31.10.2013.

Dati questi fatti, si è detto in narrativa come la ricorrente assuma l’effettiva titolarità della relazione negoziale controversa in capo alla contumace E NV, che sola avrebbe esercitato i poteri datoriali, operando E I come mero interposto.

Ancora deduce la lavoratrice inserirsi le modifiche al regolamento negoziale inter partes, di cui si è appena detto e che assume essere state sollecitate dalla datrice di lavoro, in una più ampia serie di condotte datoriali dirette a marginalizzarne il ruolo direttivo a favore di un nuovo preposto (il dott. F Z), e poi ad escluderla del tutto dall’attività aziendale, condotte culminate nel licenziamento e tutte conseguenza della sua maternità.

Di qui la deduzione della natura discriminatoria per motivi di genere del recesso, che in ogni caso, secondo la prospettazione attrice, sarebbe illegittimo, per avere la reale datrice di lavoro attuato un licenziamento collettivo (recedendo contestualmente da sei rapporti di lavoro per la stessa ragione oggettiva) senza dar corso alla procedura ex lege 223/1991.

Così individuati i temi del decidere, deve in primo luogo esaminarsi la questione, logicamente preliminare ad ogni altra posta dalle difese delle parti, della titolarità della relazione negoziale controversa.

In proposito pare alla decidente che l’istruttoria raccolta in causa abbia confermato la prospettazione attrice in ordine al ruolo di mero interposto di E I ed alla riferibilità dei poteri datoriali invece ad E NV.

Risulta invero univocamente dall’istruttoria come alla controllante belga fossero riferibili decisioni operative rilevanti (come le scelte di sviluppo di taluni progetti, cfr. doc. 1 bis dell’attrice), ma anche modeste (come l’acquisto di merci, le modalità dei rimborsi ai dipendenti, o l’accesso ai dati aziendali da parte di intranei, cfr. sul punto le deposizioni delle testimoni B: “la ricorrente mi chiese l’accesso al data base dei progetti aziendali, io girai la richiesta in Belgio, loro mi risposero che ci stavano lavorando, ma poi non dettero seguito alla cosa, la casa madre aveva tempi lunghissimi su queste cose”. “Mi risulta che le carte di credito aziendali fossero scadute prima del mio arrivo, so che l’ing. latini aveva fatto richiesta del rinnovo che non le fu accordato perché tutte le spese dovevano essere anticipate dagli interessati e rimborsate a piè di lista per decisione aziendale della controllante”; e S: “Il dott. Z era l’amministratore delegato, lui aveva un potere decisionale effettivo – per esempio sulla scelta dei progetti o su certe decisioni relative alle banche – ed aveva anche potere di firma, prima che arrivasse lui noi a Pontedera internamente non si potevano fare queste cose, si doveva richiedere l’autorizzazione e l’approvazione, anche per cose minime, all’amministratore D [anche capo dello sviluppo del business di E NV, come allegato in ricorso e non contestato] non c’era un amministratore in Italia. Mi ricordo che per dire, anche per comprare una fotocopiatrice si doveva richiedere l’autorizzazione in Belgio”), esse certamente irriducibili a scelte gestionali generali (queste ultime nel caso legittimamente assunte dalla capogruppo nell’ambito dei propri poteri di direzione nell’interesse unitario del gruppo).

Del pari dalle acquisizioni istruttorie risulta come dalla capogruppo provenissero non solo indicazioni generali rivolte ai preposti della controllata, ma direttive specifiche date anche a lavoratori in posizioni certo non qualificabili come di vertice (cfr. sul punto ancora la deposizione della teste S: “Ad un certo punto non seguivo più l’amministrazione dell’ufficio, ma avevo un ruolo di developer, commerciale perché io non sono un tecnico, ero un incarico di sviluppo della clientela… Da quando ho cominciato a svolgere queste mansioni le autorizzazioni mi venivano direttamente dal Belgio).

Non può infine trascurarsi ai fini che interessano come la capogruppo non si limitasse a curare gli adempimenti relativi alle retribuzioni dei dipendenti della controllata italiana (come legittimo), ma se ne assumesse evidentemente il costo, come deve di necessità desumersi dalle stesse ammissioni della memoria in ordine al ritardo nel pagamento del TFR dovuto all’ing. L (cfr. sul punto pag. 29 della memoria ove si legge che “E NV non è in grado di corrispondere in favore della controllata E I s.p.a. gli importi necessari a far fronte alla corresponsione del TFR in favore dell’ing. L”).

Accertata questa situazione di fatto, costituisce jus receptum nella giurisprudenza della Suprema Corte l’affermazione secondo cui “qualora tra più società vi sia un collegamento economico-funzionale, è da ravvisare un unico centro di imputazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti, ove si accerti l’utilizzazione contemporanea delle prestazioni lavorative da parte delle varie società titolari delle distinte imprese” (cfr. da ultimo Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 16-01-2014, n. 798 e giurisprudenza ivi citata).

In tali ipotesi, infatti, secondo il giudice di legittimità la pluralità dei soggetti giuridici dovrebbe dirsi simulata, ai fini di un tale accertamento, non rilevando tuttavia “gli elementi denotanti l’intensità del collegamento economico tra le distinte società”, ma unicamente la dimostrazione della riferibilità ad un unico soggetto dei “poteri di gestione del rapporto di lavoro con i dipendenti” (così da ultimo Cass. civ. Sez. VI – Lavoro, Ord., 21-10-2013, n. 23843).

E tale appunto deve ritenersi la situazione datasi nella specie, dall’istruttoria acquisita dovendo desumersi non essersi limitata la controllante a dare indirizzi di ordine generale nell’interesse unitario del gruppo, come assunto dalla sua difesa, ma avere la stessa interferito in maniera specifica sulla concreta e quotidiana gestione operativa dell’attività della controllante, dalle questioni di maggior rilievo, come le scelte in ordine a taluni progetti in corso, fino a quelle più modeste, così essa avendo esercitato i poteri datoriali in confronto della generalità del personale di E I.

Deve quindi concludersi, come in tesi in ricorso, per la riferibilità del rapporto di lavoro di cui è causa alla convenuta contumace E NV.

Ma se così è, è affermato in ricorso avere detta convenuta i requisiti dimensionali di cui all’art. 24 della L. 223/1991 (cfr. pag. 25 del ricorso), con ogni conseguenza quanto all’applicabilità delle tutele ex art. 18 nel testo novellato, come espressamente previsto dal comma 3 dell’art. 5 della L. 223/1991 (nel testo modificato dalla L. 92/2012), mentre, attesa la contumacia di E NV, non vi è in atti alcun fatto specifico dal quale desumere il contrario.

D’altro canto è pacifico che l’interposta E I abbia contestualmente licenziato sei dipendenti, tutti addetti alla sede di Milano, in relazione alla stessa ragione produttiva, così il licenziamento impugnato dovendo dirsi senz’altro illegittimo per violazione (rectius per totale omissione) della procedura ex lege 223/1991.

Vizio espressamente censurato in ricorso e cui seguono le conseguenze risarcitorie di cui al terzo periodo del settimo comma dell’art. 18 della L. 300/1970 (come modificato dalla L. 92/2012), come espressamente previsto dall’art. 5 comma 3 della L. 223/1991.

Attesa tuttavia la diversità di detti effetti sanzionatori rispetto a quelli pretesi in tesi in ricorso, deve di necessità conoscersi della domanda principale, diretta alla declaratoria di nullità del licenziamento in quanto discriminatorio per motivi di genere.

Quanto allora agli oneri ricadenti sulle parti in esito ad una simile prospettazione, merita ribadire come il diritto dell’Unione assicuri a chi si affermi discriminato un peculiare regime della prova, la cui disciplina si trova contenuta nell’art. 8 della direttiva 2000/43/CE (in materia di parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica) e nell’art. 10 della direttiva quadro 2000/78/CE (direttiva quadro in materia di parità di trattamento quanto all’occupazione ed alle condizioni di lavoro), e che impone agli Stati membri di adottare “le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento” (così l’art. 10 della direttiva quadro 2000/78/CE).

Una formulazione che, adottata anche in altre direttive successive in materia di parità tra i generi, trae origine dalle regulae iuris affermate dalla Corte di Giustizia nei leading cases Danfoss e Enderby, e che muove, da un lato, dall’esigenza di garantire effettività alla tutela antidiscriminatoria, dall’altra dalla constatazione di una differenza fattuale nella posizione iniziale delle parti interessate a detta tutela, giacché chi denuncia un trattamento diverso e discriminatorio non ha di regola accesso a dati sufficienti a consentirgli di identificare le cause di una disparità di trattamento.

Indubitabile che la specifica complessità della prova della discriminazione risieda nella dimostrazione della riferibilità della differenziazione al fattore di discriminazione (nella specie per quanto interessa il genere, fattore di discriminazione compreso tra quelli oggetto della normazione comunitaria), è specificamente in questa fase della elaborazione dei fatti diretta alla prova della discriminazione che opera la presunzione prevista dalla fonte sovranazionale.

Essa infatti è diretta ad agevolare l’attore nella dimostrazione del nesso di causalità tra trattamento differenziato e fattore di discriminazione, una volta che egli abbia provato l’esistenza in fatto del trattamento differenziato rispetto ad un termine di comparazione da lui prescelto.

Più esattamente, secondo questa tecnica di tutela, il lavoratore o la lavoratrice che si assumano discriminati sono onerati di allegare e dimostrare l’esistenza di un trattamento differenziato in loro danno rispetto al tertium comparationis, rappresentato da un soggetto, ritenuto comparabile, rispetto al quale non si dia il fattore di protezione che si afferma leso.

Peraltro, in esito alle emanazione delle direttive dell’Unione cd. di seconda generazione, il giudizio relazionale in cui consiste in via generale l’accertamento della discriminazione si dà, nelle discriminazioni dirette, in termini di confronto tra due soggetti non necessariamente reali, il lavoratore comparabile, non portatore del fattore di discriminazione e rispetto al quale deve operarsi il confronto (al fine di verificare il carattere assunto come deteriore del trattamento subito dall’istante), potendo essere un soggetto ipotetico o non più esistente al momento del giudizio di comparazione

Così il giudizio di relazione rivelando la sua complessità ed anche la sua attitudine a proteggere alcuni beni fondamentali della persona, non solo impedendo concrete disparità di trattamento o di effetti, ma assicurando anche l’applicazione ex se di alcuni trattamenti protettivi, anche ove in concreto non praticati in confronto di specificati terzi.

Assunto poi che l’attore o l’attrice assolvano il loro onere probatorio nei termini appena detti, secondo lo schema descritto dalle fonti sovranazionali prima ricordate, sarà allora richiesto al convenuto, nei casi di discriminazione diretta (che qui interessano), di provare l’inesistenza della discriminazione, e quindi di allegare e dimostrare fatti specifici, obiettivamente verificabili, dai quali sia desumibile l’esistenza o di una causa di esclusione del divieto, oppure di una ragione non discriminatoria del trattamento differenziato alternativa a quella normativamente presunta (id est la riferibilità del trattamento differenziato a fattori altri rispetto a quelli protetti), restando in suo danno l’insufficienza di una simile prova.

Così ricostruito il regime di distribuzione dell’onere della prova imposto dalle fonti superprimarie, deve in primo luogo ritenersi che esso si dia come obbligatorio negli ordinamenti degli Stati membri in ogni caso in cui si tratti di assicurare tutela ad uno dei fattori di protezione previsti dalle norme di diritto dell’Unione (tra i quali, si è già detto, essere il genere), a fronte di trattamenti deteriori assunti illeciti, quale che sia l’azione prescelta dal soggetto che si affermi discriminato.

Il regime probatorio agevolato attiene, infatti, alle garanzie specificamente assicurate dalla normativa superprimaria alle posizioni giuridiche soggettive tutelate.

Così che il giudice nazionale è tenuto ad adottare della normativa interna (nel suo complesso e quindi anche delle disposizioni previste in via generale in materia di onere della prova, quale nel nostro ordinamento l’art. 2697 c.c.) una interpretazione, tra le diverse consentite dal tenore della disciplina medesima, conforme  al testo ed agli obiettivi delle direttive, in caso diverso, e quindi ove il giudice nazionale constati l’impossibilità di pervenire ad una soluzione ermeneutica conforme alle direttive, egli essendo tenuto a non applicare la disposizione interna difforme, per dare integrale attuazione a quella europea e proteggere i diritti che questa attribuisce ai singoli, e ciò a mezzo dei diversi strumenti (disapplicazione o rinvio alla Corte Costituzionale) previsti dall’ordinamento in dipendenza della natura e dell’efficacia della fonte superprimaria.

Nel caso dell’ordinamento nazionale peraltro deve senz’altro escludersi che il tenore letterale dell’art. 2697 c.c. non consenta di farne applicazione, ove si faccia questione della prova di discriminazioni previste da norme di diritto dell’Unione, in senso conforme a quanto prescritto dall’art. 10 della direttiva quadro, sopra richiamato, giacché la norma di diritto interno certo non preclude il ricorso al ragionamento presuntivo nella prova dei fatti costitutivi (o eventualmente di quelli modificativi o estintivi) di posizioni giuridiche protette.

Da questa ricostruzione consegue in primo luogo l’accessibilità, per il lavoratore o la lavoratrice che si affermino discriminati in relazione ad una delle caratteristiche protette dal diritto dell’Unione, del regime probatorio agevolato anche quando essi agiscano in forme diverse da quelle di cui agli art. 38 e segg. del D.L.vo 198/2006 per le discriminazioni di genere ed altrimenti dall’art. 28 del D.L.vo 150/2011.

Così ad esempio, anche quando quella lavoratrice o quel lavoratore impugnino, come nella specie, per tale motivo il licenziamento, chiedendo l’applicazione della tutela ex art. 18 primo comma nel testo modificato dalla L. 92/2012, in ragione della nullità del recesso in dipendenza della discriminazione che asseritamente lo affetta, poiché il regime probatorio agevolato attiene, come detto, al novero delle tutele assicurate dal diritto sovranazionale alle posizioni giuridiche soggettive connesse alle caratteristiche protette dalle norme antidiscriminatorie.

Facendosi applicazione dei detti principi nella specie pare, in primo luogo, alla decidente che dall’istruttoria raccolta in causa risulti senz’altro la sostituzione della ricorrente nelle sue mansioni, dopo la comunicazione da parte sua dell’inizio della gravidanza, con un diverso preposto della datrice di lavoro (il dott. Z).

Invero che l’attrice rivestisse il ruolo di country manager Italia almeno fino al febbraio 2012 non è seriamente contestabile, atteso il tenore lettorale del contratto di assunzione (che qualifica L come responsabile del business in Italia), e risulta comunque confermato dalla denominazione riportata nel doc. 54 del fascicolo della stessa ricorrente, documento la cui provenienza dalla formale datrice di lavoro non è contestata. Né, d’altra parte, è contestata la riferibilità ad E NV della scheda, apparentemente tratta dal suo sito internet, e da cui risulta assunta dal dott. Z la stessa qualifica di country manager Italia a partire dal 2.4.2012.

Ma più ancora sono le deposizioni dei testi S e M a dar conto di come la sostituzione abbia coinciso con una successione (tra L e Z) nei poteri di direzione dei dipendenti della sede italiana, essa datasi in effetti prima dell’aprile 2012 (dal febbraio dello stesso anno secondo S e comunque dopo l’inizio della gravidanza (cfr. la deposizione di M: “Dopo un po’ di tempo in effetti l’espansione attesa delle attività della convenuta nel territorio non si dette, per vari motivi, sia oggettivi legate alle condizioni normative e di mercato delle energie alternative, sia a mio modo di vedere soggettive, legate ad incertezze dell’azienda. In effetti potei constatare che nel tempo il gruppo di Pontedera e quindi l’ing. latini che lo dirigeva vennero esautorati dal gruppo milanese che rispondeva direttamente alla controllante in Belgio. Per quello che mi parve si trattò di una successione anche piuttosto ruvida considerando anche lo stato di gravidanza  della ricorrente. .. Quello che posso dire è che progressivamente l’asse dell’azienda si spostava da Pontedera a Milano. Mi ricordo una volta che trovai l’ing. latini in lacrime perché cose di cui prima lei era responsabile erano fatte senza di lei. Per quello che potevo constatare in questo periodo le mansioni dell’ing. Latini erano per lo più esecutive, non dirigeva più la sede come in passato, ma i compiti che erano stati i suoi passarono al dott. Z”; e di S: “All’inizio facevo l’assistente di direzione dell’ing. latini e di altri due ingegneri …, facevo lavoro di segreteria per tutto l’ufficio di direzione. L’ing. L in questo periodo coordinava il lavoro di tutti i dipendenti della sede, anche del mio.

Dopo l’arrivo del dott. Z ritengo che la ricorrente rispondesse a lui e a D W ma non saprei essere più precisa…Quando la ricorrente rientrò dalla maternità non so cosa facesse esattamente, io mi occupavo di alcuni progetti, direi che non aveva più un potere di coordinamento e direzione della mia attività a quel punto”).

Del pari è un fatto che, disposto dalla formale datrice di lavoro di lavoro il trasferimento della sede aziendale da Pontedera a Milano a partire dal gennaio 2013, alla ricorrente non sia stato consentito di lavorare da casa, come invece permesso alla S secondo le sue stesse dichiarazioni.

Non può dubitarsi allora che dopo la maternità la posizione della ricorrente all’interno dell’organizzazione aziendale si sia modificata in peius.

Pare tuttavia alla decidente che alla serie di eventi appena detti il licenziamento sia estraneo.

Ai fini che qui interessano non può infatti trascurarsi come il recesso da parte dell’interposta sia intervenuto per tutti i dipendenti addetti alla sede italiana senza distinzione e nello stesso momento per cui, al di là di ogni questione relativa alla giustificatezza dell’espulsione (questione che ex se non forma oggetto di specifica censura in ricorso), non può dirsi che essa rappresenti un trattamento deteriore riservato alla sola ricorrente in quanto portatrice del fattore di protezione.

Deve quindi escludersi avere L sul punto assolto all’onere (di provare il detto trattamento deteriore) che le competeva, così la domanda di tesi dovendo essere respinta ed imponendosi invece, per quanto sopra esposto, l’accoglimento di quella svolta in ipotesi.

Provata pertanto la riferibilità del rapporto negoziale controverso alla contumace E NV e l’omissione da parte della stessa della procedura ex lege 223/1991, invece obbligatoria, deve farsi applicazione del disposto dell’art. 5 comma 3 della L. 223/1991, e quindi, per effetto del richiamo contenuto nella norma appena detta, della disciplina prevista dal quinto comma dell’art. 18 L. 300/1970 (come modificato dalla L. 92/2012).

Secondo la previsione de qua deve pertanto dichiararsi la risoluzione del rapporto già in essere tra la ricorrente ed E NV alla data del licenziamento intimato dall’interposta E I e condannarsi l’effettiva datrici di lavoro a risarcire la lavoratrice del danno cagionatole dall’illegittimo recesso.

In punto di quantum del dovuto risarcimento, è poi noto come la legge ne vincoli la determinazione, a norma dei commi quinto e settimo dell’art. 18, all’anzianità del lavoratore, al numero dei dipendenti, alle dimensioni dell’attività economica, alle condizioni ed al comportamento delle parti anche nel corso della procedura conciliativa pre-giudiziale, alle iniziative assunte dal lavoratore per reperire una nuova occupazione.

Facendo applicazione dei detti criteri, deve rilevarsi come l’anzianità della lavoratrcie non sia modesta, mentre quanto al comportamento delle parti non può trascurarsi la gravità della violazione imputabile ad E NV, essa avendo completamente omesso la procedura ex lege 223/1991.

Tutti gli elementi di fatto appena detti impongono pertanto di quantificare il dovuto risarcimento nella misura massima di legge di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto in godimento del ricorrente alle dipendenze dell’interposta (della cui sufficienza anche ove affermata la riferibilità del rapporto alla controllante non vi è questione), somma (maggiorata di accessori secondo il criterio di calcolo di cui in dispositivo) al cui pagamento la contumace va condannata.

Le spese processuali di pertinenza della Consigliera di Parità devono essere compensate attesa la particolare complessità dell’accertamento della discriminazione nella specie, mentre le convenute in solido (attesa la necessaria partecipazione anche di Electrawinds Italia alla vicenda interpositoria) devono essere condannate a rifondere quelle dell’attrice, nella misura indicata in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Visto l’art. 1 commi 48 e seguenti della L. 92/2012, ogni altra domanda ed eccezione disattesa, dichiarata l’effettiva titolarità della relazione negoziale controversa in capo ad E NV, ritenuta l’illegittimità del licenziamento impugnato ex lege 223/1991, dichiara risolto il rapporto inter partes alla data del recesso come secondo l’art. 18 quinto comma L. 300/1970 (come modificato dalla L. 92/2012) e condanna E NV al pagamento del risarcimento previsto dalla stessa norma nella misura di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto riconosciuta alla ricorrente, maggiorato il capitale dovuto di rivalutazione monetaria ed interessi (calcolati sulla somma capitale mensilmente rivalutata) dalla data del licenziamento al saldo.

Dichiara compensate le spese processuali di pertinenza della Consigliera di Parità e condanna le convenute in solido al pagamento di quelle di pertinenza della ricorrente, che liquida in € 225,00 per spese ed € 5.500,00 per compenso di avvocato  ex DM 55/2014 oltre rimborso forfettario, IVA e CAP come per legge.

Si comunichi.

Pisa, 20.10.2014

 

Il giudice del lavoro