Molestie, Corte d’Appello di Firenze, sentenza 11 marzo 2014

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del popolo italiano

La Corte di Appello di Firenze

Sezione lavoro

nelle persone dei Magistrati:
Dott. Raffaele Bazzoffi Presidente
Dott. Fausto Nisticò Consigliere
Dott. Vincenzo Nuvoli Consigliere rel.

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

all’udienza del 11 marzo 2014 nella causa iscritta al n. 509 del Ruolo generale dell’anno 2013
promossa da C S.a.s. di B A e C.
con l’Avv. N. Fioretti

appellante

contro

L R e Consigliera di Parità della Provincia di Firenze
con l’Avv. M. Capponi

appellato

Svolgimento del processo

L R, unitamente alla Consigliera di Parità della Provincia di Firenze, ha convenuto in giudizio avanti al Tribunale di Firenze, in funzione di giudice del lavoro, la ex datrice di lavoro C S.a.s. di B A e C., impugnando il licenziamento intimatole il 25.2.2011, del quale ha dedotto il carattere discriminatorio e ritorsivo, in quanto determinato dalla reazione della lavoratrice a molestie sessuali subite da parte del responsabile della filiale di Firenze, ove ella operava; C S.a.s. di B A e C. ha contestato la domanda.
Con sentenza n. 1237/2012 in data 20.11.2012, il Tribunale di Firenze, in funzione di giudice del lavoro, in accoglimento del ricorso ha dichiarato la nullità del licenziamento, condannando C S.a.s. di B A e C. alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni maturate fino all’effettiva reintegra, nonché al pagamento di € 20.000,00 a titolo di risarcimento del danno alla persona.
C S.a.s. di B A e C. ha proposto appello, chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, il rigetto delle domande proposte in primo grado, o, in subordine, l’applicazione della tutela obbligatoria; L R e Consigliera di Parità della Provincia di Firenze hanno chiesto il rigetto del gravame.
All’odierna udienza la causa è stata discussa e decisa come da dispositivo, del quale è stata data lettura.

Motivi della decisione

1. In fatto, è pacifico, e documentato, che:
tramite il proprio legale, con lettera del 9.9.2010 L R, deducendo di aver subito comportamenti vessatori e molesti (anche a connotazione sessuale) da parte del responsabile della sede di Firenze, ha chiesto alla datrice di lavoro C S.a.s. di B A e C. di porre in essere le iniziative necessarie per tutelare la propria integrità psico-fisica;
con lettera del 4.2.2011, C S.a.s. ha comunicato alla dipendente che gli accertamenti esperiti non avevano confermato la sussistenza degli asseriti comportamenti molesti e vessatori, e le ha pertanto contestato di aver diffamato sia la società datrice di lavoro che il responsabile della sede di Firenze;
con successiva lettera del 25.2.2011, all’esito del procedimento disciplinare C S.a.s. ha intimato a L R licenziamento per giusta causa.
2. La sentenza di primo grado, ritenuta la nullità del licenziamento in quanto discriminatorio, ha condannato C S.a.s. alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno ex art. 18 L. 300/1970, nonché al risarcimento del danno alla persona, quantificato in € 20.000,00.
3. Con il primo motivo, Chorus S.a.s. censura la sentenza appellata, sostenendo che il licenziamento de quo non è stato intimato per la contestata diffamazione ai danni del superiore gerarchico, bensì per l’impossibilità di rimuovere la situazione che L R definiva lesiva, in quanto ciò avrebbe comportato il licenziamento del superiore in difetto di accertamento della sua responsabilità; secondo l’appellante, pertanto, si tratterebbe di un licenziamento per incompatibilità ambientale, in relazione al quale l’onere probatorio a carico del datore di lavoro sarebbe limitato al fatto di non aver avuto conoscenza, in costanza di rapporto, di condotte vessatorie tenute nei confronti della lavoratrice, e di non averne avuto conferma nell’ambito del procedimento disciplinare.
Ad avviso della Corte, il motivo non è fondato, in quanto la contestazione disciplinare del 4.2.2011 ha espressamente addebitato all’appellata di aver formulato accuse inveritiere (divulgandole anche tra i colleghi), così diffamando tanto il superiore gerarchico quanto la società datrice di lavoro; il licenziamento è motivato con l’addebito disciplinare, e richiama l’impossibilità di modificare la situazione lavorativa solo in relazione alla richiesta in tal senso effettuata da L R.
4. Con ulteriore motivo, variamente articolato, C S.a.s. di B A e C. sostiene, in sostanza, che: i comportamenti molesti e vessatori del superiore di L R non sono provati, dovendosi al riguardo attendere l’esito del procedimento penale instauratosi a seguito di denuncia-querela dell’appellata; comunque, non è provato, e anzi deve ritenersi escluso, che all’epoca del licenziamento C S.a.s. fosse consapevole della sussistenza dei fatti denunciati dalla lavoratrice; L R non ha pertanto assolto all’onere di provare la natura discriminatoria del licenziamento, e conseguentemente, ove ritenuta la carenza di causa giustificatrice, sarebbe applicabile unicamente la tutela obbligatoria.
4.1. Alla stregua dei principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità, il comportamento del lavoratore che formuli, a carico di un superiore, accuse di comportamenti persecutori può configurare giusta causa di licenziamento ove questi non fornisca prova dei suoi assunti (cfr. Cass. 8.1.2000 n. 143).
Peraltro, come ritenuto dalla sentenza di primo grado, l’istruttoria espletata, per quanto rileva nel presente giudizio, ha confermato la sussistenza di condotte moleste e vessatorie tenute dal responsabile della sede di Firenze di C S.a.s. ai danni dell’appellata; prova di tali circostanze si desume infatti dalle deposizioni dei testi P, B, F, R, L, che, pur de relato, sono univoche e concordanti, e trovano conferma, oltre che negli accertamenti medici prodotti, nella deposizione del teste P, il quale ha riferito di aver anche assistito ad alcuni episodi.
4.2. C S.a.s. sostiene di aver ignorato, al momento del licenziamento per cui è causa, che le accuse mosse dall’appellata al responsabile della sede di Firenze avessero un qualche fondamento, e che tale circostanza esclude la natura discriminatoria del licenziamento, con conseguente inapplicabilità della tutela reale in ragione delle limitate dimensioni occupazionali dell’azienda.
Ad avviso della Corte, il motivo non è fondato, in quanto:
se pur con richiamo alle confidenze ricevute dall’appellata, già nell’ambito dell’inchiesta interna disposta da C S.a.s. il dipendente P aveva confermato l’esistenza di condotte moleste e vessatorie ai danni della lavoratrice, e pertanto, come osservato nella sentenza appellata, non può ritenersi che la società datrice di lavoro non disponesse di elementi di conferma delle accuse mosse da L R;
comunque, ai sensi dell’art. 26, III co., D.Lgs. 11.4.2006 n. 198, Sono considerati, altresi’, discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parita’ di trattamento tra uomini e donne.;
la fattispecie concreta in esame è riconducibile alla previsione dell’art. 26, III co., cit., posto che il licenziamento è stato intimato a causa della richiesta della lavoratrice di essere tutelata in relazione a condotte moleste e discriminatorie;
la sussistenza di discriminazione prescinde dall’elemento soggettivo, come si desume dall’art. 25 D.Lgs. 11.4.2006 n. 198, secondo il quale, ad esempio, anche una clausola contrattuale collettiva può configurare una discriminazione, e dall’art. 26, alla stregua del quale non solo lo scopo, ma anche (alternativamente) l’effetto costituiscono elementi costitutivi dell’atto discriminatorio;
ne consegue che la fattispecie discriminatoria è ravvisabile anche in assenza di espressa finalità o consapevolezza da parte del suo autore.
5. C S.a.s. sostiene altresì che la sentenza appellate ha violato l’art. 112 c.p.c. nel riconoscere la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno ex art. 18 L. 300/1970, laddove L R aveva proposto domanda di reintegrazione o, in sostituzione, di condanna della datrice di lavoro al pagamento dell’indennità sostitutiva ex art. 18, V co., L. 300/1970 previgente; il motivo non può trovare accoglimento, in quanto, dall’esame complessivo del ricorso di primo grado (alla cui stregua deve individuarsi il contenuto della domanda giudiziale – ex plurimis, cfr. Cass. 28.8.2009 n. 18783), si desume che l’appellata ha chiesto l’emanazione di una pronuncia costitutiva di ricostituzione del rapporto di lavoro.
6. È infine infondato il motivo con il quale parte appellante censura la sentenza di primo grado nella parte in cui ha riconosciuto alla lavoratrice il risarcimento del danno non patrimoniale, quantificato in € 20.000,00 oltre rivalutazione monetaria e interessi legali ex art. 429 c.p.c.; alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, infatti, è ravvisabile il danno non patrimoniale nel turbamento interiore e la sensazione di svilimento della dignità personale (così la sentenza n. 968/2013 della Corte di Appello di Firenze), mentre, essendo documentato che l’INAIL ha indennizzato unicamente il periodo di inabilità temporanea, non sussiste la lamentata duplicazione del risarcimento. La liquidazione operata dalla sentenza di primo grado, peraltro solo genericamente contestata, è infine congrua, tenuto conto degli elementi di fatto provati, alla stregua dei quali essa va equitativamente effettuata.
7. L’appello proposto non può quindi trovare accoglimento, con conseguente integrale conferma della sentenza di primo grado; ex art. 91 c.p.c., C S.a.s. va condannata al pagamento, a favore delle controparti, delle spese processuali del presente grado di giudizio, che, avuto riguardo ai parametri di cui al D.M. 20.7.2012 (in vigore dal 23.8.2012 – cfr. Cass. 11.3.2005 n. 5426; Cass. 12.5.2010 n. 11482; Cass. SS.UU. 12.10.2012 n. 17406; Cons. Stato, sez. V, 31.10.2012 n. 5548), si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30.5.2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, L. 24.12.2012 n. 228 (applicabile, ex art. 1, comma 18, ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data – 1.1.2013 – di entrata in vigore della L. 228/2012), dall’integrale rigetto dell’appello consegue la declaratoria della sussistenza dei presupposti previsti dalla norma in esame per l’obbligazione di versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte, definitivamente pronunciando, respinta ogni diversa istanza, eccezione e deduzione:
respinge l’appello proposto da C S.a.s. di B C e C. avverso la sentenza n. 1237/2012 in data 20.11.2012 del Tribunale di Firenze, in funzione di giudice del lavoro, che conferma integralmente;
condanna C S.a.s. di B A e C. al pagamento, a favore di L R e Consigliera di Parità della Provincia di Firenze, delle spese processuali del presente grado di giudizio, liquidate, per ciascuna delle appellate, in € 1.500,00 oltre IVA e CAP;
dichiara che sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30.5.2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, L. 24.12.2012 n. 228, per l’obbligo di parte appellante di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

Firenze, 11 marzo 2014

Il Consigliere est.
(Dott. Vincenzo Nuvoli)
Il Presidente
(Dott. Raffaele Bazzoffi)