Molestie, Tribunale di firenze, sentenza 20 novembre 2012

TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE

Sezione lavoro

VERBALE

Tra

L. R.

CONSIGLIERA DI PARITA’ DELLA PROVINCIA DI FIRENZE

con l’Avv. CAPPONI MARINA

RICORRENTE

e

C. SAS DI B. A. & C.

con l’Avv. FIORETTI ANDIA e con l’avv. CIURLI NICOLA                                                                           RESISTENTE

Oggi 9 novembre 2015 innanzi alla dr. Roberta Santoni Rugiu sono comparsi:

l’avv. CAPPONI MARINA per parte ricorrente e l’avv. PIERLUIGI NOVELLI in sostituzione dell’avv. FIORETTI per parte resistente.

Il Giudice pronuncia sentenza contestuale dandone lettura.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

SENTENZA

Svolgimento

La ricorrente e la Consigliera provinciale di Parità, con unico ricorso ai sensi dell’art. 36 D. Lg.vo 198/06 Codice delle Pari Opportunità, convenivano la società datrice di lavoro affermando che:

– la ricorrente aveva lavorato alle dipendenze della convenuta dal giugno 2006 con mansioni di impiegata amministrativa  inquadrata al livello AE CCNL Legno piccola industria, addetta alla unità al locale di Firenze ove essa, unica dipendente di sesso femminile, era in servizio insieme al responsabile F S ed a tre operai;

– nel tempo aveva subito la condotta vessatoria del responsabile S, che condivideva con lei l’unico locale adibito ad ufficio; egli inizialmente, oltre ad imporle il fumo passivo all’interno dell’ufficio, pretendeva da lei favori personali estranei ai doveri contrattuali (lavare gli occhiali, portare da bere, accompagnare il cane a passeggio, ecc.), e quindi che dal maggio 2009 muoveva avances sessuali sia verbali che fisiche, nonostante le ripetute manifestazioni di dissenso della lavoratrice;

– la vessazione proseguiva fino al giugno 2010 quando l’ennesima richiesta di un favore da parte del S provocava la ribellione della ricorrente, con reazione rabbiosa di lui alla quale assisteva un collega di lavoro;

– da quel momento iniziava un lungo periodo di malattia professionale, riconosciuta dall’UO di Medicina del lavoro dell’Università di Pisa come disturbo di origine occupazionale (doc. 2, 3, 4, 5), parte della quale quindi indennizzata dall’Inail quale inabilità temporanea assoluta (doc. 6, 7, 8, 10, 11);

– nel corso della malattia, con lettera del proprio avvocato del 9 settembre 2010 (doc. 1), la ricorrente informava in via riservata il legale rapp.te della società delle vessazioni e delle avances subite, chiedendo un intervento a tutela della propria integrità psico-fisica;

– per tutta risposta il 4 febbraio 2011 la società muoveva contestazione disciplinare alla lavoratrice poiché, in assenza di qualsivoglia conferma delle accuse mosse al superiore (ad eccezione per l’imposizione del fumo passivo, per la quale aveva sanzionato in via disciplinare il S) essa con le sue dichiarazioni avrebbe diffamato sia la datrice che il superiore, e ciò anche per avere divulgato ad altri colleghi insinuazioni sulle medesime molestie (doc. 12);

– la ricorrente si difendeva in sede disciplinare ribadendo la fondatezza di quanto da lei denunciato ed avvalorato dagli organi pubblici (doc. 13), ma con lettera del 25.2.2011 era licenziata per giusta causa (doc. 14).

In tesi)

Affermata la nullità del licenziamento per violazione degli artt. 25 e 26 D. Lg.vo 198/06 per la natura discriminatoria e ritorsiva del provvedimento preso per motivi connessi al sesso della lavoratrice, chiedeva la reintegra o la relativa indennità sostitutiva ai sensi dell’articolo 18 L. 300/70, oltre al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.

In ipotesi)

Affermata l’illegittimità del licenziamento per insussistenza della giusta causa, chiedeva la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, con pagamento dell’indennità massima commisurata sei mensilità della retribuzione globale di fatto, pari ad €. 1.377,13.

La società convenuta si costituiva per eccepire in via preliminare la carenza di interesse ad agire della Consigliera di Parità. Nel merito resisteva alla domanda, replicando che:

– la ricorrente non aveva mai manifestato al legale rapp.te o ai colleghi alcuna situazione di disagio per asseriti abusi da parte del superiore, né alcuno aveva assistito ad alcuni episodi di tale natura; anzi la relazione professionale con il superiore e con i colleghi era sempre stata confidenziale e gioviale;

– piuttosto nel tempo essa aveva mutato atteggiamento sul lavoro per tutt’altri sia perché, informata della possibile futura riduzione del personale, era stata invitata a cercare altra occupazione, sia per problemi di salute personale connessi ad intervento chirurgico di tipo ginecologico;

– ricevuta la segnalazione 9.9.10 della lavoratrice, in un primo momento la società muoveva una contestazione disciplinare al S ma, appurata l’infondatezza dei medesimi addebiti, aveva poi dovuto contestare alla ricorrente la diffamazione dalla stessa realizzata ai danni del collega, di nuovo senza che risultasse alcuna conferma a supporto delle accuse della stessa lavoratrice;

– di conseguenza, essendo pacifico che prima di tale segnalazione formale la società non era mai stata informata del problema, che la stessa era rimasta una mera asserzione di parte, che il mutato atteggiamento della ricorrente sul lavoro era risultato la conseguenza di tutt’altri motivi, ne era discesa la totale perdita di fiducia nei confronti della lavoratrice che, inevitabilmente, era stata licenziata per giusta causa;

– lo scrupolo osservato dalla società nell’accertare i fatti, da quando ne era stata messa a conoscenza, mostrava come la condotta datoriale non avesse alcun connotato discriminatorio, profilo che comunque sarebbe stato onere della ricorrente dimostrare.

Tentata invano la conciliazione, che non riusciva per la indisponibilità della convenuta a qualsiasi soluzione transattiva, la causa era istruita con l’esame dei testi C P, L b, F F, T R, M L, F P, M D (ud. 8.6.12), e quindi con prova orale delegata al tribunale di S che assumeva il teste E P.

In seguito la difesa delle ricorrenti depositava verbali delle sommarie informazioni rese nel corso dell’indagine penale a carico di F S da parte delle medesime persone già sentite come testi in questo giudizio, che venivano acquisiti ai sensi dell’art. 421 cpc.

La causa era discussa oralmente e quindi oggi decisa con motivazione contestuale.

Motivi

In via preliminare la convenuta ha eccepito il difetto di legittimazione attiva della Consigliera di parità.

L’eccezione è infondata poiché, come in generale nelle controversie individuali, la Consigliera provinciale di parità ha facoltà di proporre ricorso al giudice del lavoro su delega dell’interessata ovvero di intervenire nei giudizi proposti dalla stessa (a. 36 comma 2 D. Lg.vo 198/06), in concreto agendo congiuntamente con la lavoratrice al fine di ottenere la tutela contro il licenziamento ed il risarcimento del danno alla persona.

Legittimità del licenziamento

Nel merito, la prima questione da affrontare (comune alle domande di tesi e di ipotesi) concerne la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato alla ricorrente sul duplice presupposto sia dell’infondatezza delle accuse di vessazioni personali e molestie sessuali, da questa rivolte nei confronti del superiore F S con la lettera riservata 9.9.10, inviata dall’avvocato della ricorrente al legale rappresentante della convenuta (doc. 1), sia della conseguente diffamazione del collega e della stessa società datrice di lavoro che si sarebbe realizzata con le medesime accuse, anche perché divulgate fra i colleghi nell’ambiente di lavoro.

Va premesso che, quanto alla fondatezza sostanziale del recesso, deve essere applicato il principio generale per cui in materia disciplinare il datore di lavoro ha l’onere di allegare e provare i fatti posti a fondamento dell’addebito (nella specie, insussistenza delle avances sessuali sgradite da parte del superiore S nei confronti della ricorrente, e conseguente diffamazione).

Non si può infatti convenire con la difesa datoriale secondo la quale sarebbe piuttosto la ricorrente, licenziata per avere calunniato il superiore, a dovere fornire nel giudizio di impugnazione del licenziamento la dimostrazione relativa all’accusa mossa contro di lui.

Sul punto la convenuta richiama Cass. sez. lav. n. 143/00 quale precedente che avrebbe addossato alla lavoratrice, licenziata per avere diffamato il collega accusandolo di molestie, l’onere di provare le medesime nel giudizio di impugnazione del licenziamento. Al contrario tale decisione, laddove addossa alla lavoratrice l’onere della prova delle molestie sessuali, fa piuttosto riferimento alla domanda di risarcimento del danno alla persona conseguente al comportamento del molestatore, e non alla diversa domanda della lavoratrice di impugnazione del licenziamento. A quest’ultimo proposito, invece, la pronuncia si limita ad affermare che in concreto il recesso per diffamazione risultava giustificato per la genericità ed il carattere indimostrato delle accuse di molestie sia in sede disciplinare che in sede giudiziale, oltre che per la attiva condotta di divulgazione delle medesime accuse svolta dalla lavoratrice sui media, anche tramite comunicati sindacali riconducibili al marito di lei sindacalista.

Il caso in esame è del tutto diverso da quello esaminato dalla Corte in tale occasione, ed impone di giungere ad opposte conclusioni.

Occorre partire dal fatto che la convenuta non ha fornito alcuna prova della insussistenza delle molestie, che anzi sono state oggetto di conferme prima in sede disciplinare (A) poi in giudizio (B).

A)

Non è vero quanto ripetutamente dedotto in memoria di costituzione (pag. 2,3,4,5) a proposito del fatto che la ricorrente non avrebbe mai manifestato ad alcun collega difficoltà insorte nel rapporto di lavoro con il superiore S, e che nessun altro dipendente avrebbe mai saputo di molestie realizzate dal secondo ai danni della prima. Non è vero nemmeno che il rapporto di lavoro fra i due sarebbe sempre stato “confidenziale e gioviale”, addirittura improntato a “serenità e allegria”.

Prima di tutto, è falsa l’affermazione della convenuta secondo la quale durante l’istruttoria disciplinare nulla sarebbe emerso a sostegno della segnalazione della ricorrente.

Infatti, il dipendente P E. con le dichiarazioni scritte rilasciate durante la fase disciplinare (doc. 9 conv., nella versione leggibile finalmente fornita all’udienza 9.11.12 acquisita come doc. 9 bis), riferiva di avere saputo in più occasioni dalla ricorrente che il superiore le aveva fatto apprezzamenti ed avances esplicite, chiedendole di guardarlo con occhi diversi perché da tempo pensava a lei e provava attrazione, al punto tale che anche quando era a casa con la sua donna immaginava invece di essere con la ricorrente; che il superiore ricevuto il rifiuto della ricorrente aveva risposto che “una volta gli è l’avrebbe potuta dare” perché “ non era giusto che la tenesse sotto sale”.

B)

La prova orale (avvalorata dalle analoghe dichiarazioni rese dalle stesse persone nel corso delle indagini penali, oggetto dei verbali di SIT prodotti in corso di causa, acquisiti ex art. 421 cpc) confermava il crescendo delle richieste improprie e delle molestie sessuali da parte del S nei confronti della ricorrente.

Lo stesso teste P E. ribadiva le confidenze all’epoca ricevute dalla ricorrente a proposito delle ripetute avances verbali e fisiche da parte del superiore, aggiungendo di avere anche di persona assistito ad alcuni episodi (il gesto di inserire il diritto fra i glutei della ricorrente piegata in avanti a raccogliere qualcosa, il bacio sulla guancia imposto contro la volontà di lei, il litigio che era seguito nell’ultimo giorno di lavoro della ricorrente al rifiuto di lei di portare il bicchiere d’acqua richiesto dal S che nell’occasione era esploso in grida rabbiose ed offensive), concludendo che per il comportamento generalmente arrogante del superiore il rapporto di lavoro fra i due non era stato né paritario né cordiale, e che quest’ultima circostanza era nota anche al legale rappresentante della società al quale lo stesso P l’aveva riferita, aggiungendo inequivocabilmente che la ricorrente “ non ne poteva più”.

Gli altri testi, estranei all’ambiente di lavoro, riferivano del progressivo malessere con il quale la ricorrente aveva subito le vessazioni del superiore (richieste di favori impropri, imposizione del fumo passivo, reazioni rabbiose a qualsiasi errore o contrattempo sul lavoro che lo portavano ad alzare la voce contro di lei, tirando pugni sul tavolo o lanciando fogli, fino ad insultarla con espressioni tipo “ti mando via a calci nel culo”) e di come nel tempo, nonostante la comprensibile vergogna, essa avesse cominciato a confidarsi con ognuno di loro lamentandosi di come nell’atteggiamento arrogante del superiore si inserissero anche ripetute condotte fisiche e verbali di sgradito connotato sessuale (imposizione di contatti fisici sgraditi come ripetuti tentativi di baciarla, toccamenti sul sedere, avvicinamento dell’inguine di lui al sedere di lei a simulare una penetrazione, racconti di rapporti sessuali con la sua compagna durante i quali aveva pensato a lei, continue manifestazioni di disponibilità ad una relazione con lei ecc.).

I testi colleghi di lavoro P e M confermavano l’irascibilità del responsabile S il quale nella piccola filiale di Firenze  (composta dell’ufficio condiviso da ricorrente e superiore, e del laboratorio-magazzino per i tre operai) si arrabbiava facilmente con tutti loro, arrivando anche ad alzare la voce, oltre ad imporre abitualmente il fumo passivo all’interno dello stesso ufficio alla ricorrente che pur se ne lamentava, visibilmente contrariata. Aggiungevano inoltre come fosse evidente il, protratto e frequente, malessere della ricorrente sul lavoro. Insomma essi finivano per smentire radicalmente la rappresentazione idilliaca della relazione professionale fra la ricorrente ed il superiore sostenuta dalla società sia per il rozzo comportamento di lui sia per il conseguente malessere di lei (prima, ed indipendentemente, dall’annuncio di future riduzioni del personale e dall’intervento chirurgico subito dalla lavoratrice, eventi che invece secondo la convenuta sarebbero stati l’unico effettivo motivo di disagio).

Ed anche il legale rapp.te della convenuta nel suo interrogatorio formale finiva per smentire la propria tesi difensiva affermando non la mancata conferma delle molestie in sede disciplinare, bensì di non avere voluto credere all’epoca al dipendente P (autore delle dichiarazioni scritte doc. 9 bis conv.) in quanto unico ad avere ricevuto le confidenze da parte della ricorrente.

L’affermazione è sintomatica di quanto si dirà in punto di discriminazione, evidenziando come la società in sede disciplinare nell’alternativa fra dare credito alla ricorrente, confermata dalP, o dare credito al S avesse scelto quest’ultimo, per poi invece trincerarsi in giudizio dietro la pretestuosa inevitabilità del licenziamento della ricorrente per la totale assenza di riscontri alla sua denuncia.

Ora, dal punto di vista logico non vi è alcuna necessità di esigere la conferma della denuncia della lavoratrice da parte di più colleghi di lavoro, attese peraltro le dimensioni ridotte della filiale di Firenze ed il fatto che le molestie si verificavano all’interno dell’ufficio condiviso dalla ricorrente e dal superiore, ed al quale gli operai del laboratorio magazzino non avevano accesso abituale.

Anzi non è difficile immaginare perché la ricorrente non solo si fosse limitata ad alcune confidenze con il collega P, ma avesse tardato così tanto a segnalare il problema alla società, a fronte del serio timore di perdere del posto di lavoro. Infatti, in servizio in una piccola filiale, essa avrebbe dovuto accusare il proprio superiore, peraltro responsabile della medesima filiale, il tutto nell’ambito di impresa di ridotte dimensioni, soggetta alla tutela obbligatoria, per di più in difficoltà oggettive a fronte delle quali si ventilava una futura riduzione del personale. In altri termini la ricorrente temeva quello che poi si è puntualmente verificato: non essere creduta e per ciò licenziata.

In conclusione (avvalorando la differenze fra la vicenda in esame e quella discussa in Cass. n. 143/00 invocata dalla convenuta), la motivazione del licenziamento è stata smentita dal momento che, già in sede disciplinare e poi viepiù in giudizio, le accuse mosse dalla lavoratrice sono state confermate, al punto tale da impedire di qualificarle come calunniose.

Va considerato del resto come nel momento in cui nel settembre ’10 tali accuse erano avanzate, la ricorrente era in malattia già dal precedente mese di giugno ‘10 a causa di un “ disturbo dell’adattamento con componente emozionale mista” della cui origine lavorativa gli organi pubblici a ciò preposti erano certi, come risulta dalle relazioni e certificati rilasciati dall’UO di Medicina del lavoro dell’Università di Pisa a sostegno della diagnosi quale di origine occupazionale (doc. 2, 3, 4, 5), al punto tale da giungere all’indennizzo Inail quale inabilità temporanea assoluta (doc. 6, 7, 8, 10, 11).

Per quanto riguarda poi l’ulteriore addebito relativo alla diffamazione (avere diffuso tali accuse nell’ambiente di lavoro) è già difficile capire quale ne sia l’oggetto, visto che la stessa società nel contempo lamentava come la lavoratrice non avrebbe mai esternato a sufficienza le proprie lamentale e proteste.

Fra l’altro per smentire comunque l’addebito va considerato come nell’ambiente di lavoro essa non avesse dato luogo ad alcuna diffusione di notizie, per essersi piuttosto limitata a confidenze con il collega P (presumibilmente originate dal fatto che egli aveva assistito di persona ad alcuni episodi di molestia e quindi era già a conoscenza di parte del problema), oltre che alla successiva segnalazione scritta alla società con la lettera, riservata, del proprio legale (doc. 1 ric.).

Carattere discriminatorio del licenziamento

Appurata l’illegittimità del licenziamento (e quindi quanto meno la fondatezza della domanda di ipotesi di risarcimento del danno in tutela obbligatoria) l’ulteriore questione da affrontare concerne il carattere discriminatorio per sesso insito nello stesso recesso, affermato il quale va accolta la domanda di tesi.

Va evidenziato come la discriminazione risulti da due ordini di considerazioni, poiché le molestie sessuali se addirittura (C) avrebbero consentito alla società di licenziare il S che ne era autore, comunque (D) impedivano di licenziare la lavoratrice che ne era vittima, nei confronti della quale piuttosto la società doveva assolvere l’obbligo di protezione.

C)

La giurisprudenza ha ripetutamente affermato l’idoneità delle molestie sessuali ad integrare giusta causa del licenziamento di colui che ne è autore nell’ambiente di lavoro a carico di collega (per la diffusa ricostruzione delle pronunce sul tema vedi Cass. sez. lav. n. 20272/09, che a sua volta richiama la n. 7768/1995, la n. 5049/00 e la già menzionata n. 143/00).

E per la sovrapponibilità del caso concreto a quello in esame è illuminante la motivazione della n. 20272/09 secondo la quale < è di tutta evidenza come le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenita’ (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. Sicche’ deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare ed avendo il datore di lavoro in ogni caso l’obbligo di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l’integrita’ fisica e la personalita’ morale dei lavoratori, provvedimenti tra i quali puo’ certamente ricomprendersi anche il licenziamento dell’autore delle molestie sessuali, minando un tale illecito disciplinare fortemente l’elemento fiduciario che e’ alla base del rapporto di lavoro e rendendo dunque proporzionata la sanzione del licenziamento in tronco dell’autore di una tale violazione. Nel caso di specie, sussiste proporzione tra sanzione disciplinare applicata e mancanza commessa, avuto riguardo a tutti gli aspetti del caso concreto e tenuto conto che le molestie sessuali sono state compiute durante l’orario di lavoro, nel corso del turno di notte, da un lavoratore sovraordinato (capo squadra), provocando nella vittima una profonda lacerazione dello stato psico – fisico >.

D)

L’ulteriore passaggio attiene all’accertamento del carattere discriminatorio della condotta datoriale, culminata nel licenziamento della lavoratrice molestata per avere denunciato il fatto.

Le nozioni di riferimento si trovano nel Decreto Legislativo 198/06 Codice delle Pari Opportunità.

Ai sensi dell’art. 25 é “discriminazione diretta” qualsiasi provvedimento datoriale produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici in ragione del loro sesso, o comunque riservando loro un trattamento meno favorevole rispetto a quello di altro lavoratore in situazione analoga. Ai sensi dell’art. 26 sono considerate “discriminazioni” anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati posti in essere per ragioni connesse al sesso, che violano la dignità di una lavoratrice e creano un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Inoltre sono ritenute “ discriminazioni” altresì le molestie sessuali, quali comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica e verbale, che violano la dignità della lavoratrice e creano il medesimo clima.

E fino a qui la qualificazione normativa di discriminazione concerne la condotta del S, realizzata prima con vessazioni personali e poi con avances sessuali sgradite, reiterate in crescendo di gravità dal maggio 2009 al giugno 2010, quale causa del danno biologico di tipo psichico insorto nella ricorrente.

E ancora, ai sensi dell’art. 26, sono considerati “discriminazioni” i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice per il fatto di avere rifiutato di sottomettersi alle medesime molestie, ed in particolare i trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che, a loro volta, costituiscano reazione ad una protesta della lavoratrice volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento fra uomini e donne. Infine, sono nulli i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro delle vittime delle molestie adottati in conseguenza del rifiuto di sottomettersi.

Tale ulteriore qualificazione normativa va riferita alla condotta datoriale dalla lettera 9.9.10 al licenziamento, consistita nel fatto di non avere tenuto nel debito conto la segnalazione delle gravi molestie subite e delle conseguenze lesive già manifestatesi, e ciò nonostante significative conferme ottenute rispettivamente dal collegaP ed agli organi pubblici, che avevano indagato la situazione diagnosticando l’origine lavorativa della patologia che affliggeva la ricorrente già dal precedente mese di giugno.

Riemerge a questo proposito il carattere arbitrario della scelta datoriale già ammesso nell’interrogatorio formale del legale rappresentante, secondo il quale “i fatti che mi riferìP non ho ritenuto che avessero i caratteri della molestia da parte del S, mi sono preoccupato più di sentire l’ambiente complessivo che una sola dichiarazione. Quando ha cercato la ricorrente mi si è negata, avevo con lei un rapporto diretto per telefono ma quando l’ho cercata non sono riuscito a parlare di questo argomento”.

Insomma la società – invece di convocare la ricorrente, assistita dall’avvocato autore della lettera, per farsi riferire nel dettaglio lo svolgimento della vicenda, le persone che progressivamente ne erano state informate ed eventuali ulteriori circostanze oggettive a conferma, invece di approfondire i dati conoscitivi già indagati dall’UO di Medicina del lavoro dell’Università di Pisa e dall’Inail con conclusioni inequivocabili, dei quali era stata messa formalmente a conoscenza – si limitava raccogliere la dichiarazione scritta delP (doc. 9 conv.), e presunte informazioni orali da altri colleghi di lavoro, per concludere che le accuse erano infondate e quindi diffamatorie nei confronti sia della società sia del superiore gerarchico, e che perciò la lavoratrice doveva essere allontanata definitivamente dall’ambiente di lavoro.

Va ribadito come il carattere discriminatorio della complessiva condotta datoriale, a sua volta vittima di discriminazione da parte del superiore, non sia consistito tanto nel non avere licenziato quest’ultimo quanto nel non avere assolto l’obbligo di protezione della stessa lavoratrice. Infatti, anche volendo ipotizzare che in sede disciplinare la società non ritenesse di avere ottenuto sufficiente conferma delle molestie al punto di licenziarne l’autore, comunque doveva tenere in seria considerazione le necessità della lavoratrice di proseguire la sua prestazione in sicurezza, e quindi in condizioni diverse (tutte da definire, eventualmente anche attraverso la consultazione della lavoratrice e del suo avvocato) da quelle che fino al giugno 2010 l’avevano esposta alla relazione a tu per tu con il superiore all’interno dell’unico ufficio di firenze.

Del resto il modo sbrigativo, ed appunto tecnicamente discriminatorio, con cui la segnalazione della ricorrente fu liquidata in sede disciplinare (inspiegabile a fronte della gravità della vicenda segnalata come dell’importanza delle conferme già all’epoca disponibili), si spiega proprio con la volontà datoriale di proteggere la posizione privilegiata del superiore, uomo, nonché responsabile della piccola unità produttiva di Firenze. Come dire che, eliminata l’unica dipendente donna, l’attività di impresa poteva proseguire inalterata senza che la personalità vessatoria del S procurasse alcuna conseguenza (dal momento che nei confronti degli operai, uomini, egli si limitava ad alzare la voce per esercitare il suo potere direttivo).

In conclusione, qualificata come discriminazione per sesso sia la condotta molesta del superiore, sia quella disciplinare del datore di lavoro a sua volta tenuta – dichiaratamente – per sanzionare la lavoratrice che aveva denunciato la molestia, ne discende che il licenziamento è illecito e discriminatorio (art. 26 comma 3) e quindi nullo con le conseguenze di cui all’art. 18 L. 300/70 (nella versione previgente alla L. 92/12 riferibile ratione temporis al licenziamento), indipendentemente dalle dimensioni occupazionali (art. 3 L. 108/90).

La ricorrente ha chiesto la reintegra o in sostituzione il pagamento dell’indennità pari a 15 mensilità.  Ora, premesso che l’art. 18, comma quinto, della legge n. 300 del 1970 configura un’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore (Cass. sez. lav. n. 11609/03), in concreto la ricorrente non ha formulato alcuna scelta univoca fra le due facoltà. E allora < nell’ipotesi di domande formulate letteralmente in termini alternativi, l’apprezzamento, sotto il profilo dell’interesse ad agire .. della sussistenza di una corrispondente situazione di indifferenza dell’attore rispetto all’uno o all’altro dei risultati della propria azione non può affidarsi al solo dato semantico, costituito dall’utilizzata relazione disgiuntiva, ma postula il riconoscimento di un’assoluta equivalenza intrinseca dei risultati stessi, in rapporto alla misura, all’entità dei diritti azionati e alle prospettive di assicurare il soddisfacimento: ciò che risulta impossibile quante volte l’accoglimento di una alternativa possa assicurare concretamente all’attore un bene o un risultato più ampio e favorevole di quanto non sia consentito dall’accoglimento dell’altro. Ne consegue che proposta una domanda di condanna A in alternativa con quella di condanna B, potendo l’accoglimento della prima assicurarne al creditore .. più compiute prospettive di effettiva realizzazione delle proprie aspettative, tale circostanza implica che l’alternativa meno favorevole debba considerarsi, anche se all’uopo non vi sia una dichiarazione espressa, logicamente subordinata alla reiezione dell’altra domanda, da intendere proposta in via principale per il dato oggettivo della più esaustiva tutela con essa invocata >, Cass. sez. lav. n. 680/93.

In conclusione, la domanda di tesi risulta proposta in via principale per la reintegra ed in via subordinata per l’opzione alternativa.

Quindi, la società convenuta deve essere condannata a reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro ed a risarcirla del danno derivante dall’illegittimità del licenziamento pari alle mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (nella misura pacifica di €. 1.377,13) maturate dal recesso all’effettiva reintegra, oltre rivalutazione ed interessi come da dispositivo, e con la regolarizzazione della posizione previdenziale della lavoratrice.

E)

Risarcimento del danno non patrimoniale

La ricorrente ha diritto ad un ulteriore risarcimento a fronte del danno non patrimoniale subito per essere stata oggetto del licenziamento discriminatorio da parte del datore.

Secondo la nuova nozione unitaria per il danno non patrimoniale (Sez. Un. n. 26972/08), la risarcibilità in ipotesi tipiche previste dalla legge va riferita al principio della tutela minima spettante ai diritti costituzionalmente tutelati nei casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di situazioni inviolabili della persona. In particolare quanto al contratto di lavoro l’art. 2087 c.c. inserisce nell’area del rapporto interessi non suscettibili di valutazione economica (integrità fisica e personalità morale) già implicando che, qualora l’inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale, considerata altresì la tutela di tali interessi della persona da parte della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili.

Ne discende quindi l’astratta risarcibilità del danno non patrimoniale rivendicato dalla lavoratrice dal momento che le discriminazioni per motivi di sesso realizzate dal datore di lavoro sono previste espressamente a tal fine dalla legge (art. 37 e 38 D. Lg.vo 198/06, art. 2087 cc).

Quanto al riparto in concreto degli oneri di allegazione e prova a carico della lavoratrice, trattandosi di prova presuntiva del danno non patrimoniale, si deve ritenere che gli stessi siano stati assolti nell’affermare e quindi dimostrare il licenziamento subito in ritorsione alla denuncia delle molestie sessuali.

In concreto, i fatti costitutivi delle lesioni a diritti della persona erano dedotti con riferimento al fatto che il licenziamento (doppiamente umiliante, perché subito come lavoratrice proprio per non essere stata creduta e protetta a fronte della denuncia delle molestie nei confronti del superiore) avesse a sua volta aggravato la complessiva condizione di, intenso e protratto, disagio fisico e psichico già derivante dalle molestie del superiore, dando luogo non solo a lesioni interiori e biologiche ulteriori rispetto a quelle già provocate dalle molestie, ma anche ad alterazioni della vita di relazione conseguenti inevitabilmente alla perdita dell’occupazione.

Le discriminazioni di genere sono materia di diritto dell’Unione (da ultimo con la direttiva 2006/54, ricognitiva delle precedenti fonti comunitarie).

Ne discende l’obbligo del giudice nazionale di interpretare la normativa interna (artt. 37 e 38 del D.Lvo 198/2006), tra le diverse opzioni consentite, nel senso conforme  al testo ed agli obiettivi delle direttive (v. già Corte giust., 10 aprile 1984, causa c-14/83, Van Colson e Kamann; più recentemente, tra le altre, Corte giust., 13 novembre 1990, causa c-106/89, Marleasing, 15 maggio 2003, causa c-160/01, Mau, e 4 luglio 2006, causa c-212/04, Adeneler). Altrimenti, il giudice nazionale  se constatasse l’impossibilità di pervenire ad una soluzione ermeneutica conforme alle stesse direttive, sarebbe tenuto a non applicare la disposizione interna difforme, per dare integrale attuazione all’ordinamento europeo e proteggere i diritti che questo attribuisce ai singoli (Corte giust., 2 maggio 2003, causa c-462/99, Connect Austria Gesellschaft für Telekommunikation).

Ora, l’art. 18 della direttiva 2006/54 CE obbliga gli Stati membri ad introdurre nei rispettivi ordinamenti nazionali le misure necessarie per garantire, per il danno subito da una persona lesa a causa di una discriminazione fondata sul sesso, “un indennizzo o una riparazione reali ed effettivi, da essi stessi stabiliti in modo tale da essere dissuasivi e proporzionati al danno subito. Tale indennizzo o riparazione non può avere un massimale stabilito a priori, fatti salvi i casi in cui il datore di lavoro può dimostrare che l’unico danno subito dall’aspirante a seguito di una discriminazione ai sensi della presente direttiva è costituito dal rifiuto di prendere in considerazione la sua domanda”.

La fonte sovranazionale quindi attribuisce al risarcimento del danno connotati necessari di effettività rapportati, non solo alla gravità del danno, ma anche alla funzione dissuasiva e sanzionatoria della qualificata riparazione. E’ inevitabile che una tale qualificazione del risarcimento del danno incida sui criteri di quantificazione obbligatori per il giudice nazionale, nel senso che provata l’esistenza nell’an del danno risarcibile ne deve seguire una determinazione in una misura idonea a soddisfare la funzione ripristinatoria e, nel contempo, dissuasiva.

In conclusione, a fronte delle circostanze del caso, si stima equo quantificare il danno nella misura di €. 20.000 oltre accessori come in dispositivo.

SPESE

Le spese di lite liquidate come da dispositivo in applicazione del DM 140/12 (Cass. Sez. Un. n. 17406/12) seguono la soccombenza della convenuta nei confronti delle ricorrenti.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita, così dispone:

in accoglimento della domanda di tesi, dichiara la nullità del licenziamento disciplinare intimato con lettera 25 febbraio 2011 in quanto discriminatorio per ragioni di sesso, e per l’effetto condanna la convenuta alla reintegra della ricorrente nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno nella misura delle mensilità di retribuzione globale di fatto (€. 1.377,13) dovuta dal licenziamento alla effettiva reintegra, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sulla somma mensilmente rivalutata dalle singole scadenze mensili fino al saldo, con regolarizzazione della posizione previdenziale della ricorrente;

condanna la convenuta al risarcimento del danno alla persona subito dalla ricorrente liquidato in via equitativa in €. 20.000 oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sulla somma mensilmente rivalutata dal licenziamento fino al saldo;

condanna altresì la convenuta a rimborsare alle ricorrenti le spese di lite, che si liquidano in € 4.000, oltre esborsi, i.v.a., c.p.a.

Sentenza resa ex articolo 429 cpc, pubblicata mediante lettura alle parti presenti ed allegazione al verbale.

Firenze, 9 novembre 2015

Il Giudice

Dr. Roberta Santoni Rugiu