Discriminazione di Genere,Tribunale di Pisa, sentenza del 3 marzo 2009

REPUBBLICA ITALIANA

In Nome del Popolo Italiano

Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Pisa, dr. Roberta Santoni Rugiu,
all’udienza del 3 marzo 2009 ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. 238 / 2008 RG
promossa da
R. S.
CONSIGLIERA DI PARITA’ DELLA PROVINCIA DI PISA
rappresentate e difese dalle avvocata Chiara Federici, con domicilio eletto presso il suo studio in Pisa, Lungarno Pacinotti n. 8, per procura a margine del ricorso introduttivo

contro

srl F. Toscana. (già srl F. Pisa)
in persona del legale rapp.te sig. A. R.
rappresentata e difesa dagli avvocati Umberto Cerrai e Agnese Bertini, con domicilio eletto presso loro studio del primo in Pisa, via Oberdan n. 41, per procura a margine della memoria di costituzione

Svolgimento Del Processo

Con ricorso depositato il 3.3.2008,R S e la CONSIGLIERA DI PARITA’ DELLA PROVINCIA DI PISA convenivano la srl F. avanti al Giudice del Lavoro di Pisa.
Esponeva la difesa delle ricorrenti che la R era stata dipendente della società convenuta dal 7.1.2004, inquadrata al 4° livello CCNL Studi Professionali con mansioni impiegatizie che consistevano nell’attività di personal trainer, assistenza clienti e consulenza presso il Centro F. di Pisa.
Lamentava che, nonostante il contratto collettivo prevedesse un orario settimanale di 40 ore, di fatto la sua prestazione ammontava a complessive 44 ore distribuite su 5 giorni (dalle 10 alle 20 dal lunedì al giovedì, e dalle 10 alle 14 il venerdì), in assenza di una effettiva pausa per il pranzo che per contratto nei primi 4 giorni della settima avrebbe dovuto essere di un’ora. Aggiungeva altresì che era regola generale quella secondo la quale le dipendenti dovevano presentarsi al lavoro entro le 9,45 nonostante che l’apertura al pubblico avveniva sempre alle 10.
Inoltre deduceva che la lavoratrice, in gravidanza dal dicembre 2004 ed assente per maternità anticipata dal marzo 2005 ai sensi dell’a. 17 D. Lg.vo 151/01, in data 10.9.05 aveva partorito una bambina purtroppo affetta da problemi di salute, di modo che in seguito la madre aveva usufruito prima dell’interdizione dal lavoro fino ai sette mesi di età della figlia ai sensi degli aa. 11 e 12 D. Lg.vo 151/01 ed infine, rientrata al lavoro nell’aprile 2006, dei riposi giornalieri per allattamento di cui all’a. 39 D. L.gvo 151/01 fino all’anno di età della figlia.
Affermava che, in coincidenza con la ripresa del servizio dopo la maternità e per l’ulteriore corso del rapporto, la lavoratrice aveva avvertito un radicale mutamento del comportamento datoriale nei suoi confronti, che qualificava come discriminatorio in relazione alla propria condizione di madre, per di più aggravata dal fatto di essere una donna single che si occupava da sola di una figlia nata con difficoltà all’apparato respiratorio, aiutata esclusivamente dalla madre e dal marito di lei. Denunciava in particolare di avere subito in progressione le seguenti condotte discriminatorie, culminate infine nel licenziamento dell’ottobre 2007:
1) dalla ripresa dell’attività ad aprile 2006 e per l’intero periodo, fino al settembre 2006, nel quale aveva usufruito dei riposi per allattamento di cui all’a. 39, era stata demansionata ovvero adibita in modo esclusivo a mansioni di promozione che consistevano nella mera distribuzione di materiale pubblicitario all’esterno del Centro, compiti non equivalenti a quelli svolti costantemente prima della maternità ed inerenti invece l’attività di personal trainer, assistenza clienti e consulenza all’interno del medesimo Centro, i quali le venivano riassegnati solo dal settembre 2006. Aggiungeva che, pochi giorno il rientro dell’aprile 2006, le responsabili L e G l’avevano convocata per chiederle di firmare una di-chiarazione precompilata la quale conteneva appunto la richiesta di assegnazione alle mansioni dequali-ficate, documento che essa aveva rifiutato di sottoscrivere. Diceva infine che per l’intero periodo nei continui spostamenti necessari a distribuire il materiale in vari punti della città aveva dovuto utilizzare il mezzo proprio senza ricevere alcun rimborso dalla datrice;
2) inoltre, assente dal lavoro per qualche mese in seguito ad un infortunio alla spalla verificatosi nel febbraio 2007, la ricorrente era stata ripetutamente sollecitata a rientrare in servizio durante il periodo di malattia, ogni volta per trattenersi qualche ora nel Centro per svolgere lavori di amministrazione o telefonate alle clienti o comunque per partecipare a riunioni di lavoro o meeting;
3) nel giugno 2007, approssimandosi la chiusura estiva dell’asilo della figlia ed in concomitanza a problemi di salute della madre che la aiutava nella gestione della situazione familiare, la ricorrente aveva comunicato alla datrice che nei successivi mesi di luglio ed agosto si sarebbe avvalsa del congedo parentale (astensione facoltativa) di cui all’a. 32 D. Lg.vo 151/01. Ne era seguito un incontro con la Direttrice F., la commercialista C. e le responsabili L. e G., durante il quale la ricorrente aveva subito una vera aggressione verbale a proposito del fatto che la maternità l’aveva resa un peso per l’azienda, una presenza inaffidabile ed indesiderata;
4) per di più, il giorno successivo a tale incontro, la ricorrente aveva ricevuto due contestazioni disciplinari datate entrambe 13.6.2007, in seguito alle quali aveva fornito le proprie difese e nessuna sanzione era applicata. Di conseguenza, attesa la gravità della reazione aziendale la lavoratrice aveva rinunciato all’idea di chiedere il congedo parentale ed otteneva dalla datrice di usufruire delle ferie arretrate;
5) per l’intero periodo del servizio al rientro dalla maternità, lamentava inoltre che la datrice aveva smesso di corrisponderle il premio collegato al raggiungimento di una soglia minima di fatturato, ricevuto invece con costanza nel periodo precedente;
6) al rientro dalle ferie estive il 20.9.07 la ricorrente si era determinata nuovamente a chiedere il congedo parentale (astensione facoltativa) di cui all’a. 32 D. Lg.vo 151/01 e di conseguenza dopo pochi giorni aveva ricevuto lettera di licenziamento per giustificato motivo oggettivo del 2.10.07, motivata con ridotta affluenza di clientela che avrebbe imposto risparmio sui costi di gestione. Per contro, a smentire la causale nel periodo immediatamente successivo la datrice aveva assunto tre nuove persone destinate allo stesso Centro con le stesse mansioni della ricorrente;
7) infine, quale dato esterno alla propria vicenda, ma di significativo riscontro del generale atteggiamento discriminatorio della convenuta rispetto alle lavoratrici madri, menzionava analoghi comportamenti che la datrice aveva tenuto nel tempo anche nei confronti di altre dipendenti nella medesima condizione.
In diritto, premessa la concorrente legittimazione attiva della Consigliera provinciale di Parità nell’azione individuale, la difesa delle ricorrente affermava in tesi la nullità del licenziamento ai sensi dell’a. 3 L. 108/90 perché determinato da ragioni discriminatorie fondate sulla maternità ai sensi dell’a. 25 D. Lg.vo 198/06, ribadendo che il medesimo atteggiamento ostile e persecutorio nei confronti delle lavoratrici madri era avvalorato da dati statistici relativi all’ambiente aziendale ove il rapporto si era svolto. In ipotesi, affermava la nullità del medesimo licenziamento ai sensi dell’a. 54 comma 6 D. Lg.vo 151/01 non foss’altro perché causato dalla domanda di fruire del congedo parentale (punto 6).
E, per i due casi di nullità del recesso, chiedeva che fosse disposta, rispettivamente, la reintegra o la riammissione della ricorrente nel posto di lavoro con condanna al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento e fino a quello della effettiva reintegra o riammissione, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.
In ipotesi ulteriormente subordinata deduceva ancora l’illegittimità del recesso per mancanza di giustifi-cazionenel merito, negando che nel periodo di riferimento fosse diminuita la clientela o la complessiva attività lavorativa, chiedendo che fosse ordinata in tesi la reintegra nel posto di lavoro con le relative tutele di cui all’a. 18 L. 300/70 o in ipotesi la riassunzione di cui all’a. 8 L. 604/66.
In tutti i casi, chiedeva la condanna della convenuta sia al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito in conseguenza della complessiva condotta datoriale secondo la previsione speciale di cui al D. Lg.vo 198/06 (a. 37 comma 3, a. 38 comma 1) quantomeno nella misura di €. 10 mila, sia al pagamento delle differenze di retribuzione per la prestazione straordinaria (orario di 44 ore settimanali in luogo delle 40 contrattuali per assenza di pausa pranzo ed ingresso anticipato rispetto all’orario di inizio della prestazione), quest’ultima quantificata in €. 1.948,21.
La srl F. TOSCANA (già srl F Pisa) si costituiva con memoria, resistendo alla domanda di cui chiedeva il rigetto.
Negava le affermazioni di controparte relative al carattere discriminatorio della condotta datoriale e, ripercorsa nel dettaglio la scansione delle condotte discriminatorie denunciate dalla ricorrente, affermava piuttosto che:
1) il mutamento di mansioni realizzato dopo il rientro dalla maternità era dovuto alla necessità di garantire la continuità personale dell’assistenza offerta alle clienti del Centro, nella lunga assenza della ricorrente seguite da altre operatrici. Del resto le nuove mansioni di promozione erano congeniali sia alla ricorrente, la quale aveva dichiarato di gradirle, anche perché meglio le consentivano di fruire delle pause per l’allattamento di cui godeva in quello stesso lasso di tempo, sia alle esigenze aziendali poiché nell’arco dell’anno il suo rientro in servizio in autunno era coinciso con il periodo nel quale, tradizionalmente, maggiore spazio era dedicato alla promozione;
2) i contatti intrattenuti con la ricorrente per periodo della sua assenza per infortunio erano dovuti alla necessità di informarsi sulle sue condizioni di salute in funzione di organizzare gli appuntamenti con le clienti nonché l’attività dell’intera struttura, mentre la partecipazione ad un meeting di formazione era ispirata solo al fornirle il dovuto aggiornamento professionale;
3) nel giugno 2007 si era effettivamente svolto l’incontro fra la ricorrente e le sue superiori, ma nell’occasione la discussione, svoltasi con modi e termini civili, aveva riguardato piuttosto il fatto che la ricorrente si volesse avvalere dei congedi parentali a fronte di ricaduta nei postumi dell’infortunio del precedente mese di febbraio; in tale occasione la datrice l’aveva invece inviata a mettersi, più corretta-mente, in malattia oppure a richiedere le ferie arretrate, come poi era avvenuto;
5) il premio non era stato più corrisposto alla ricorrente per il semplice motivo che essa non aveva più raggiunto gli obiettivi posti a base di tale riconoscimento;
6) il licenziamento si era imposto per la necessità di ridurre i costi di gestione, a sua volta riflesso della considerevole riduzione dell’affluenza di clienti realizzatasi durante il periodo dell’estate 2007, senza che nella scelta della ricorrente avesse avuto alcuna rilevanza né la sua qualità di lavoratrice madre, né la richiesta di congedi parentali del settembre 2007. Non era vero nemmeno che dopo il recesso la convenuta avesse assunto tre nuove persone, dal momento che mentre due addette avevano un contratto a termine con società collegata e pur essendo destinate ad altri Centri F erano solo state distaccate in via temporanea a quello di Pisa, la terza era stata assunta sempre a termine dalla convenuta al solo fine di sostituire prima la dipendente V., che aveva già anticipato le proprie dimissioni ma che nel frattempo era assente per infortunio, e poi la dipendente N. anch’essa dimissionaria.
In tutti i casi, qualora fosse stata ritenuta l’illegittimità del licenziamento, la difesa della convenuta affer-mava, e provava per documenti, il mancato superamento del requisito dimensionale della tutela reale.
Contestava inoltre il richiesto risarcimento del danno sia per la legittimità del recesso sia per l’assenza di un evento qualificabile come illecito ai sensi dell’a. 2043 cc, rimarcando in ultimo il difetto di allegazione e prova a base della domanda.
Infine, quanto alla pretesa relativa allo straordinario, negava che la ricorrente avesse mai superato l’orario contrattuale di 40 ore, dal momento che dal lunedì al giovedì la prestazione distribuita dalle 10 alle 20 prevedeva effettivamente un’ora di pausa pranzo (mentre il venerdì la prestazione era continuata e l’uscita alle 14), mentre l’orario di ingresso era richiesto di anticipare la presenza dei soli pochi minuti necessari a completare la vestizione quali operatrici del Centro.
Tentata invano la conciliazione, la causa era istruita con l’esame dei testi V.P., C. R., C. R., C. S. (ud. 7.10.08), G. C., N.B., L. B. (ud. 19.11.08) e B. I. (ud. 9.12.08) .
Quindi depositate note conclusive di entrambe le parti, all’udienza odierna la causa era discussa e decisa con lettura del dispositivo.

Motivi della decisione

In via preliminare di rito, nessuna questione si è posta in ordine alla legittimazione attiva in controversie individuali della Consigliera provinciale di parità, la quale in questo giudizio ha esercitato la generale facoltà di ricorrere al giudice del lavoro su delega dell’interessata ovvero di intervenire nei giudizi proposti dalla stessa (a. 36 comma 2 D. Lg.vo 198/06), in concreto agendo congiuntamente con la lavoratrice al fine di ottenere la tutela contro il licenziamento, il risarcimento del danno alla persona e la condanna al pagamento di differenze di retribuzione.
Passando al merito, la vicenda va così sintetizzata.
La ricorrente era assunta dalla convenuta in data 7.1.2004, come impiegata di 4° livello CCNL Studi Professionali e mansioni di personal trainer, assistenza clienti e consulente presso il Centro F. di Pisa (docc. 1 e 2 ric.).
Nel corso del rapporto, la lavoratrice si era assentata in corrispondenza di una maternità, in particolare per il periodo dal marzo 2005, in congedo di cui all’a. 17 lett. a) D. Lg.vo 151/01 per gravi complicanze della gravidanza (doc. 4 ric.) fino al parto del 10.9.05 (docc. 6,7 ric.) e ancora continuativamente per gli ulteriori sette mesi di vita della figlia corrispondenti all’interdizione al lavoro di cui agli aa. 11 e 12 dello stesso D. Lg.vo 151/01 (doc. 5 ric.).
Rientrata in servizio nell’aprile 2006, da quel momento fino al compimento dell’anno di vita della figlia avvenuto il 10.9.2006 aveva goduto dei riposi giornalieri per allattamento di cui all’a. 39 D. Lg.vo 151/01.
In seguito, aveva subito un infortunio alla spalla sinistra nel febbraio 2007, per il quale eramancata dal lavoro per alcuni mesi, e ancora nel corso dell’estate del 2007 era stata assente per un periodo che corrispondeva al godimento delle ferie maturate in quell’anno nonché delle ferie arretrate.
In data 20.9.07 aveva richiesto il congedo parentale (o astensione facoltativa) di cui all’a. 32 D. Lg.vo 151/01 ed il 2.10.07 era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo con la seguente motivazione “risparmi sui costi di gestione della struttura a cui, considerata la riduzione della frequenza delle clienti, non è più possibile rinunciare” (doc. 15 ric.).
Per la comprensione della vicenda lavorativa è essenziale considerare la – strettamente intrecciata – condizione personale e familiare della ricorrente quale madre nubile, unico genitore coinvolto nell’allevamento della figlia nata nel settembre 2005 (doc. 8 ric.), la quale per di più soffriva dalla nascita di complicanze polmonari (doc. 6 e 7 ric.).
Situazione che, a sua volta, era stata il motivo per cui la ricorrente aveva ottenuto l’interdizione al lavoro di cui agli aa. 11 e 12 (da settembre 2005 ad aprile 2006, fino ai 7 mesi di età della figlia), nonché i riposi giornalieri per allattamento di cui all’a. 39 (da aprile a settembre 2006) ed infine richiesto di congedo parentale (astensione facoltativa) di cui all’a. 32 D. Lg.vo 151/01 il 20 settembre 2007, a ridosso del licenziamento del successivo 2 ottobre.
Con la presente domanda la ricorrente affermava l’illegittimità del recesso, che diceva essere:
in tesi, discriminatorio ai sensi dell’a. 25 D. Lg.vo 198/06 in quanto intimatole – peraltro al culmine di un complessivo trattamento ostile e persecutorio subito dal rientro in servizio dell’aprile 2006 – a causa della propria condizione di lavoratrice madre;
in ipotesi, nullo ai sensi dell’a. 54 comma 6 D. L.go 151/01 perché intimatole a causa della richiesta di astensione facoltativa del settembre 2007;
in tutti i casi, infondato nel merito per difetto di giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’a. 8. L. 604/66.
CONDOTTA DISCRIMINATORIA
E allora la prima questione da affrontare è quella relativa al carattere disciminatorio della complessiva condotta datoriale, e quindi del licenziamento nel quale sarebbe culminata.
La verifica va condotta in relazione alla nozione di “discriminazione diretta” enunciata dall’a. 25 comma 1 D. Lg.vo 198/06, relativa a qualsiasi “atto, patto comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”.
La ricostruzione del trattamento discriminatorio è improntata al criterio di riparto degli oneri di cui all’a. 40 D. Lg.vo 198/06, in base al quale “quando il lavoratore fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi ad assunzioni, regimi retributivi, assegnazione a mansioni e qualifiche, trasfe-rimenti, progressione in carriera e licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al datore di lavoro l’onere della prova dell’insussistenza della discriminazione”.
In concreto, la dimostrazione della discriminazione inflitta alla ricorrente in ragione del sesso (nel cui ambito è paradigmatica la maternità) si è ottenuta in modo lampante esaminando gli indici, numerosi ed univoci, relativi alla sua posizione (infra, punti da 1 a 6), nonché gli ulteriori dati cd statistici relativi ad altre dipendenti della datrice, nel contempo parimenti discriminate in quanto madri (infra, punto 7).
Infatti, il tutto ha descritto un quadro nel quale il comportamento datoriale, letto nella sua oggettività e con sguardo di insieme, si dimostrava essere trattamento sfavorevole inflitto a sanzionare l’esercizio dei diritti di lavoratrice madre di cui al D. Lg.vo 151/01.
1) Demansionamento
La denuncia della discriminazione partiva dal primo giorno di rientro in servizio dalla maternità avvenuto nell’aprile 2006, momento dal quale è pacifico che, per l’intero periodo fino al settembre 2006, la ricorrente fosse stata adibita in modo esclusivo alla promozione esterna (distribuzione di materiale pubblicitario in vari punti della città), in luogo che alle consuete mansioni di personal trainer, assistenza clienti e consulenza all’interno del Centro per le quali era stata assunta e che aveva svolto fino alla gravidanza.
L’arco di tempo del dedotto demansionamento coincideva peraltro esattamente con quello fino al compimento dell’anno di vita della figlia, in corrispondenza del quale la ricorrente aveva usufruito dei riposi giornalieri per allattamento di cui all’a. 39 D. lg.vo 151/01.
Sosteneva la ricorrente che l’esclusiva destinazione esterna a per 5 mesi consecutivi svolgere compiti di nessuno spessore professionale, priva di contatti con la clientela e le colleghe addette alle attività inerenti il dimagrimento, per di più sostenendo le spese di spostamento con mezzi propri, avesse rappresentato una sorta di ritorsione contro il suo rientro in servizio limitato dalle ore di riposo quotidiano, per l’appunto venuta meno solo con il cessare del relativo diritto.
La convenuta riconosceva che le nuove mansioni erano state le uniche svolte per l’intera durata dei riposi per allattamento, affermando piuttosto che si trattava di decisione tesa nel contempo a tutelare sia l’esigenza della clientela di continuità nell’assistenza da parte delle colleghe della ricorrente, iniziata durante la sua lunga assenza per maternità, sia quella della stessa ricorrente alla quale la promozione esterna non solo era esplicitamente gradita, ma anche congeniale alla necessità contingente di godere di pause per allattamento.
La mera descrizione dei compiti mostrava, di per sé, come la distribuzione del materiale pubblicitario ai passanti non possa essere assimilata alla, più complessa e qualificata, prestazione di personal trainer, assistenza clienti e consulenza in un centro di dimagrimento, motivo per cui ai sensi dell’a. 2103 cc il demansionamento emergerebbe comunque sotto il profilo della mancata equivalenza delle nuove man-sioni rispetto alle ultime effettivamente svolte, ed in modo indipendente dal fatto che entrambe le presta-zioni potessero essere astrattamente ricondotte alla declaratoria del livello di inquadramento contrattuale spettante alla lavoratrice.
Ciò premesso, ai fini che qui interessano si trattava altresì di verificare se il temporaneo mutamento dei compiti fosse da un lato stato richiesto dalla stessa lavoratrice e dall’altro imposto da oggettive esigenze aziendali, aspetti entrambi sui quali le difesa della convenuta hanno trovato smentita.
In primo luogo, la datrice non aveva replicato in alcun modo a quanto dedotto dalla ricorrente sul fatto che negli stessi giorni del rientro essa aveva rifiutato di firmale una dichiarazione che le era stata sottoposta dalle responsabili L. e G. nella quale risultava la stessa lavoratrice a chiedere di essere assegnata ai nuovi compiti (così testualmente nei capitoli 25 e 26 del ricorso).
Ora, in base al principio della non contestazione, il fatto deve darsi per pacifico, motivo per cui di conse-guenza viene ad essere smentita la deduzione (logicamente contraddittoria) svolta in memoria nel senso che i nuovi compiti fossero invece graditi e congeniali alla ricorrente, al punto tale da essere stati da lei espressamente richiesti al rientro in servizio.
Va ribadito peraltro come (dal tenore degli atti introduttivi) sia pacifico che l’attività promozionale fosse l’unica alla quale la ricorrente era stata destinata nel periodo aprile / settembre 2006.
Ne discende che nessun credito può essere attribuito alla diversa, e inconciliabile, ricostruzione in fatto operata dalla convenuta nelle note conclusive, tesa piuttosto a dimostrare come nei mesi da aprile a settembre 2006 l’attività promozionale non fosse l’unica svolta dalla ricorrente, dal momento che nel contempo essa sarebbe stata reinserita in modo progressivo nel ruolo di personal trainer all’interno del Centro (teste G.).
Passando poi all’ulteriore argomento della datrice, è difficile capire come mai la continuità nell’assistenza alle clienti valesse per estromettere in toto la ricorrente nel periodo da aprile a settembre 2006, quando invece in seguito da un giorno all’altro la ricorrente fu reintegrata a tempo pieno all’interno del centro – e ciò a maggior ragione una volta escluso che nel primo periodo si fosse realizzato il progressivo reinserimento nel contatto con la clientela preteso solo nelle note conclusive della convenuta.
Va notata infine una significativa inesattezza contenuta in memoria, laddove, nello sforzo di dimostrare come al rientro in servizio della ricorrente la promozione fosse una tale priorità da dedicarvi in modo esclusivo un’addetta, si diceva che tale rientro sarebbe avvenuto in autunno (momento nel quale fletten-dosi la più intensa attività estiva è essenziale il rilancio per i successivi mesi invernali), laddove è invece pacifico che sia avvenuto in primavera.
Ora, senza negare che anche in primavera le esigenze aziendali prevedessero ulteriore promozione (valorizzando appunto l’imminente necessità di mettersi in costume, teste G), più in generale va detto come nel nostro caso si discuta di tutt’altro rispetto ad eventuali picchi stagionali di attività.
Infatti, è pacifica l’adibizione esclusiva di una dipendente a distribuzione esterna di materiale pubblicitario per 5 mesi consecutivi, attività questa che alcuna allegazione e prova della datrice hanno dimostrato corrispondere, in nessun periodo dell’anno, ad effettiva necessità commerciale o comunque a prassi organizzative del Centro di Pisa.
2) Pressioni per il rientro in servizio durante la malattia
E’ pacifico che, in seguito all’infortunio alla spalla sinistra del febbraio 2007, la ricorrente era stata assente dal lavoro per qualche mese, periodo durante il quale per circa 45 giorni aveva portato un’ingessatura che bloccava il braccio sinistro in posizione sollevata, impedendole fra l’altro la guida di veicoli, ed in seguito aveva dovuto fare la relativa riabilitazione.
Sosteneva la ricorrente che, nel contempo, il comportamento persecutorio della datrice era proseguito sotto forma di ripetuti perentori solleciti perché essa si recasse comunque al lavoro per attività varie da svolgere all’interno del Centro, cosa che sarebbe poi avvenuta in più occasioni sia per effettuare telefonate alle clienti e svolgere lavori di segreteria, sia per partecipare a riunioni o meeting aziendali.
La convenuta negava di avere mai esercitato pressioni in tal senso, tuttavia senza contestare che singoli rientri fossero avvenuti durante la malattia, ed anzi dicendo che la ricorrente era stata contattata dalla società per “informarsi sulla sua eventuale disponibilità lavorativa” al fine di “organizzare gli appuntamenti con le clienti e, più in generale, l’attività della struttura”. Aggiungeva che la lavoratrice nello stesso periodo di malattia era stata invitata a partecipare alle stesse riunioni di lavoro e meeting destinati all’aggiornamento di tutte le dipendenti (alludendo ad una preoccupazione aziendale di favorire la crescita professionale della ricorrente che mal si conciliava con il demansionamento di cui al punto 1).
Insomma, al di là degli eufemismi, è certo che in più occasioni la ricorrente fosse rientrata al lavoro su espressa richiesta della convenuta per non meglio specificate necessità di gestione delle sue clienti, le quali non si capisce perché fossero così urgenti e soprattutto non potessero essere svolte dalle altre addette del Centro, come tutto il resto dell’attività aziendale.
In concreto, le testi B e N confermavano di avere visto la ricorrente, anche nel periodo in cui ancora indossava l’ingessatura voluminosa e scomoda, passare qualche ora a fare telefonate o commissioni varie, senza tuttavia seguire le clienti in sala.
E allora, una volta appurato che i rientri corrispondevano a precise richieste datoriali e non certo ad iniziative della ricorrente, diviene del tutto irrilevante stabile nel dettaglio quali compiti le sarebbero stati assegnati nelle stesse occasioni – tema sul quale nelle note conclusive la convenuta finiva per sostenere che si sarebbe trattato di pochissimi episodi, in occasione dei quali nessuna direttiva sarebbe stata impartita alla lavoratrice, come a dire che nemmeno si capirebbe per quale motivo essa si fosse recata al centro.
Infine, per connotare il tratto persecutorio delle richieste datoriali, vanno ricordate le circostanze riferite dalla madre della ricorrente e dal marito di lei (testi C R e C S), quali avevano assistito alle chiamate datoriali con richiesta urgente di recarsi al centro, alle proteste della lavoratrice che da sola non poteva guidare e non sapeva a chi lasciare la figlia, e che alla fine in più occasioni erano stati costretti ad accompagnarla con la loro auto.
Precisavano peraltro entrambi i testi che tali richieste erano avvenute anche nel periodo in cui la ricor-rente, portando ancora il gesso, si era trasferita a vivere nella loro abitazione con la figlia poiché da sola non le era possibile la cura della casa e della bambina, aggiungendo che ogni volta che si era recata al lavoro si era trattenuta del tempo, di modo che chi dei due la accompagnava era rientrato a casa, ove fra l’altro rimaneva la bambina da accudire, e dopo qualche ora era tornato a riprenderla.
Insomma, a parte il fatto che nello stesso periodo la ricorrente abbia partecipato anche a meeting di formazione (teste C, consulente della convenuta la quale, con solerzia e di sua iniziativa, ha sotto-lineatocome la partecipazione non fosse obbligatoria, ed il pranzo addirittura offerto dalla società), è indubbio che in ulteriori occasioni sia stata richiamata in modo perentorio al Centro, per ragioni produttive che sono rimaste del tutto indistinte quanto a urgenza ed eccezionalità che non consentivano di affidarle ad altri, e ciò nonostante l’evidente disagio fisico di spostarsi con l’ingessatura che la affliggeva e l’inevitabile necessità di farsi accompagnare dai propri familiari.
3) Pressioni per non chiedere il congedo parentale (astensione facoltativa)
Si tratta dell’episodio clou della denuncia di discriminazione, sostenendo la ricorrente che la sua intenzione di avvalersi del diritto di cui all’a. 32 D. Lg.vo 151/01 era sempre stata osteggiata dalla convenuta, al punto tale che quando l’aveva prospettata per la prima volta nel giugno 2007 ne era seguita violenta discussione, ed addirittura quando nel settembre 2007 aveva esercitato lo stesso diritto era stata licenziata.
E’ pacifico che nel mese di giugno 2007 all’interno del Centro, ed in particolare nell’ufficio di fronte alla reception, si era svolto un incontro fra la ricorrente, la direttrice F, la responsabile Ge le consulenti aziendali C e L, all’esito del quale la ricorrente aveva chiesto di usufruire di un lungo periodo di ferie, maturate in quell’anno ed arretrate.
Le versioni delle parti divergono radicalmente sul contenuto e sui modi dell’incontro.
Da un lato, la ricorrente affermava di avere nell’occasione fatto presente che la chiusura dell’asilo della figlia ed i problemi di salute della madre (unica persona che, insieme al marito, la aiutava quotidianamente nella cura della bambina, all’epoca minore di due anni) le imponevano di avvalersi del congedo di cui aveva ancora diritto, venendo quindi aggredita da tutte le esponenti aziendali che avrebbero alzato la voce accusandola di essere, con la sua maternità, un peso per la società.
Dall’altro lato, secondo la convenuta la lavoratrice avrebbe invece lamentato risentimenti dell’infortunio del precedente mese di febbraio, rifiutando tuttavia di mettersi in malattia, come sarebbe stato logico, pur di non vincolarsi alle fasce orarie di presenza in casa, motivo per cui all’esito di pacata conversazione alla fine sarebbero state decise le sue ferie.
La versione della ricorrente ha trovato riscontro nella teste V. che, presente all’interno del Centro, riferiva di avere notato che la riunione si protraeva per circa un ora, sentendo provenire dall’ufficio voci di conversazione animata, senza distinguere però le parole. Aggiungeva inoltre di avere visto la ricorrente appena uscita dalla stanza, notandone la faccia molto provata, e di avere chiesto cosa era successo sentendosi rispondere che le avevano “detto di tutto”, in particolare “di essere un peso per l’azienda” (a questo proposito vedi infra al punto 7 quanto al trattamento riservato in analoghe situazioni alla stessa dipendente V.).
E ancora, la teste B riferiva che in quei giorni, parlando al telefono con la ricorrente del fatto che le avevano rifiutato il congedo imponendole invece le ferie, aveva sentito che questa era assai arrabbiata soprattutto per il fatto che “la discussione era stata molto animata”.
La versione della convenuta era oggetto invece della deposizione delle testi C a G, le quali al contrario riferivano di una conversazione pacata relativa alle sole difficoltà della lavoratrice di fare le terapie per la spalla senza vincolarsi alle fasce orarie della malattia.
Ma quest’ultima versione non convince affatto.
Va ricordato infatti come la riunione si fosse tenuta nel mese di giugno, periodo nel quale notoriamente gli asili chiudono per oltre due mesi, imponendo alle famiglie di organizzare altrimenti la cura dei figli (e va ricordato come per la ricorrente limitate fossero le soluzioni, essendo essa genitore unico che, nor-malmente, poteva contare solo sull’aiuto della madre e del marito di questa).
Per di più è confermato (teste C) che, nello stesso mese di giugno, la madre della ricorrente avesse altresì propri problemi di salute che, per lungo tempo, le avrebbero impedito la cura della nipote.
Ora, a fronte di questo scenario è veramente incredibile che la discussione vertesse sulle pretese ricadute dell’infortunio (teste G), eventualmente in aggiunta alle difficoltà di salute della madre della ricorrente (teste C), e non anche la chiusura dell’asilo – visto che quest’ultimo evento introduceva fondamentali necessità, al momento non demandabili ad altri, di accudire la bambina per l’intera giornata, esigenze che a loro volta non potevano non essere la preoccupazione centrale della lavoratrice.
Fra l’altro, nel ribadire che non si può credere alle deposizioni C a G, va evidenziato come entrambe ricordassero benissimo il tema di conversazione relativo alle pretese ricadute dell’infortunio, la sola Canche quello dell’intervento chirurgico della madre della ricorrente, ma nessuna delle due avesse alcuna memoria di avere parlato altresì della chiusura dell’asilo e della conseguente difficoltà della ricorrente di collocare la figlia.
E, ripetutamente richieste dal giudice di precisare la loro dichiarazione sul punto, entrambe le testi si attestavano su un diplomatico “non ricordo”, tuttavia ed in modo assai eloquente senza spingersi a negare che l’argomento fosse stato affrontato. Soluzione questa del “non ricordo” del tutto implausibile, considerato come, anche a fronte dei diritti di cui al D. Lg.vo 151/01 lungamente (e legittimamente) goduti in precedenza, nell’ambiente di lavoro fosse ben nota a tutti la condizione della ricorrente, madre single di bambina malata.
In conclusione, smentita la versione della convenuta quanto al contenuto del colloquio, quella della ricorrente viene ad essere ulteriormente avvalorata anche quanto ai modi della conversazione, svoltasi per un’ora ponendo la lavoratrice nella spinosa condizione, 4 contro 1, di tentare di esercitare un diritto soccombendo all’altrui rabbiosa reazione.
4) Contestazioni disciplinari
Ulteriore riprova del carattere disciminatorio della complessiva condotta datoriale, ed in particolare del contenuto fortemente conflittuale del colloquio di cui al punto 3), emerge dal fatto che il giorno immedia-tamente successivo la ricorrente riceveva ben due contestazioni disciplinari datate 13.6.2007 (docc. 10 e 11 ric.), con le quali le si contestavano infrazioni rispettivamente commesse in data 1 e 4.6.07.
Va premesso che la, pacifica, concomitanza temporale la diceva lunga sul carattere ritorsivo e strumentale della duplice iniziativa disciplinare il giorno dopo il litigio, considerato altresì che le due lettere si riferivano a fatti a loro volta avvenuti da circa 10 giorni e che quindi, se ritenuti in sé di effettivo disvalore, ben avrebbero potuto essere contestati prima.
Per di più, entrambi gli addebiti non solo si preservavano di scarso rilievo ma erano smentiti in radice dalle giustificazioni della lavoratrice, alle quali infine – significativamente – nessun provvedimento faceva seguito.
In particolare, le contestazioni si riferivano al fatto che il 1.6.07 la ricorrente non avrebbe avuto con sé le chiavi per aprire il Centro, imponendo quindi un’attesa di 15 minuti alle prime clienti della giornata, ed il 4.6.07 essa avrebbe avvisato della sua assenza per motivi di salute una collega invece che personal-mente la direttrice.
Le giustificazioni della ricorrente chiarivano bene che nulla le poteva essere rimproverato.
Infatti, nel primo caso lei non disponeva delle chiavi che aveva piuttosto la collega N, laddove aprire il Centro non era mai stato un suo compito (doc. 12 ric.), e nel secondo caso essa aveva cercato di parlare personalmente con la responsabile F ma la collega Vle aveva detto che era in riunione e quindi aveva preso la comunicazione del suo impedimento per motivi di salute (doc. 13 ric.)
Escluso quindi che le due contestazioni rappresentassero una genuina iniziativa disciplinare, è inevitabile concludere come anche tale strumento fosse affidato il messaggio datoriale di contrarietà verso la condotta della dipendente che, appena il giorno prima, aveva manifestato l’intenzione di avvalersi di un diritto che le spettava quale madre.
5) Premio
Le genericità delle allegazioni e prova poste dalla ricorrente a base dell’affermazione del carattere ritor-sivo del mancato pagamento del premio impediva di ricollegare con certezza tale circostanza alla natura discriminatoria del complessivo atteggiamento datoriale, evidente invece da tutti gli altri punti di vista denunciati.
Tuttavia è vero che il mancato pagamento è in sé fatto pacifico, e che, quantomeno per il periodo di demansionamento da aprile a settembre 2006, la destinazione a sola promozione esterna presumibil-mente era di per sé motivo che impediva il raggiungimento della soglia minima di fatturato.
6) Licenziamento
Prima di tutto il recesso si presenta illegittimo per totale infondatezza della motivazione addotta nella lettera del 2.10.07 (doc. 15 ric.).
Tale motivazione faceva sintetico riferimento ad una ridotta frequenza delle clienti, di cui non si specifi-cava né l’entità né il periodo, che avrebbe imposto di rinunciare ad una posizione lavorativa per rispar-miare sui costi di gestione.
La ricorrente contestava l’effettività dell’argomento, negando che si fosse mai verificata alcuna riduzione della clientela in sé, ed evidenziava come la pretesa motivazione fosse stata smentita dal fatto che immediatamente dopo il suo licenziamento la datrice aveva assunto ben tre dipendenti altre addette al Centro di Pisa con le stesse mansioni che le erano state proprie.
Le difese svolte sul punto dalla convenuta non erano in grado di assolvere l’onere di allegazione e prova che ricade suldatore di lavoro, motivo per cui indipendentemente dal suo carattere discriminatorio il recesso avrebbe comunque dovuto essere ritenuto illegittimo.
Prima di tutto era generica l’affermazione tesa a dimostrare il nucleo di fatto della motivazione, (ridotta affluenza della clientela), poiché le allegazioni e richieste di prova orale della memoria replicavano sostanzialmente la stessa sommarietà della lettera di recesso, limitandosi a riferire che nel corso dell’estate 2007 (ovvero quando la ricorrente era stata lungamente in ferie, vedi punto 3) si sarebbe verificata una flessione di attività la quale, risultata da una verifica dei bilanci e del fatturato, aveva imposto la riduzione dei costi del personale.
Per di più la convenuta ammetteva, quale fatto che di per sé avrebbe smentito ogni pretesa necessità di contrazione del personale, che immediatamente dopo il recesso nello stesso Centro di Pisa erano giunte ben tre nuove lavoratrici con mansioni analoghe alla ricorrente, argomentando l’irrilevanza ai fini della verifica in ordine al giustificato motivo soggettivo a fronte del fatto che due di loro fossero dipendenti della srl F International e solo temporaneamente distaccate a Pisa, e la terza fosse stata assunta a termine dalla convenuta per sostituire la dimissionaria V.
Ora, mentre la prova orale dedotta dalla convenuta non era ammessa in quanto generica, la documen-tazione prodotta dalla datrice finiva da un duplice punto di vista per smentire in radice suoi stessi argomenti.
Da un lato, i dati che emergevano dal registro dei corrispettivi (doc. 2 convenuta) non provavano alcuna riduzione di incassi nei mesi precedenti il recesso, anzi al contrario per i mesi di giugno e luglio 2007 risultando dati superiori a quelli del corrispondente mese dell’anno precedente. Né del resto erano forniti riscontri di sorta che sorreggessero l’affermata riduzione di clientela, quale dato eventualmente diverso da quello della correlativa diminuzione dei corrispettivi, come detto smentita dalla contabilità aziendale.
Dall’altro lato, le due dipendenti della collegata società srl F International,B. E.e B. V., erano state assunte entrambe a termine per il periodo dal 22.11.07 al 31.12.2007 e, in corrispondenza all’assunzione, subito distaccate a Pisa “fino a nuova comunicazione” (docc. 4, 5,6,7 convenuta).
Si trattava quindi di due rapporti brevissimi, presumibilmente per l’intera loro durata di un mese svolti in forma di distacco a Pisa, mostrandosi quindi come tale collocazione fosse la vera ragione dell’assunzione delle due lavoratrici e non certo un mero incidente in un più ampio percorso di lavoro.
Ancora più significativa è l’assunzione di V. M. da parte della convenuta, dal momento che la motivazione del contratto a termine del 5.10.07 riportava testualmente la seguente indicazione dei motivi “causa maggiore afflusso di clientela rispetto all’ordinario” (doc. 3).
Insomma, a distanza di soli tre giorni dal licenziamento della ricorrente per riduzione della clientela, la stessa datrice di lavoro smentiva clamorosamente sé stessa assumendo nuovo personale con le mede-sime mansioni e la – contraddittoria – causale dell’aumento di clientela.
Né è possibile sostenere, come invece ha preteso fare la difesa della convenuta, che la motivazione dell’assunzione della V. sarebbe stata ben altra, guarda caso del tutto estranea alla dizione con-trattuale ma compatibile con la motivazione del licenziamento della ricorrente.
Infatti, non solo in generale non si può provare per testi che la causale del contratto sarebbe stata ben altra rispetto a quella esplicitata nel testo dell’accordo, ma in particolare va considerata l’importanza che la disciplina legale assegna alla specificazione delle ragioni del contratto a termine (a. 1 comma 2 D. Lg.vo 368/01, secondo il quale il termine è privo di effetto se non risulta da atto scritto che specifichi le ragioni tecniche, produttive, organizzative e sostitutive di cui al comma 1), dato quest’ultimo che certo a nessun fine consente di obliterarne il contenuto.
In conclusione va detto come non solo il recesso dovrebbe ritenersi comunque illegittimo, ma quanto appurato in ordine alla sua infondatezza nel merito finisca per avvalorare ancora una volta le conclusioni relative alla sua natura discriminatoria, poiché il carattere smaccatamente non veritiero della sua moti-vazione rifletteva inevitabilmente la ricerca di un pretesto oggettivo a copertura di ben diversi, soggetti ed illeciti, motivi di allontanamento della lavoratrice (come detto analogamente a come la convenuta aveva operato in relazione alla dipendente Bani).
E l’ultima notazione sul licenziamento che, in linea con quanto già emerso ai punti 1), 2) e 3) e 4), ne evidenziava definitivamente il carattere ritorsivo è quella relativa al fatto che la sua intimazione era seguita di pochi giorni alla richiesta di congedo parentale del 20.9.07 (doc. 14 ric.).
7) Analoghe vicende di altre dipendenti
La speciale disciplina in materia antidiscriminatoria consente di dare valore ad elementi cd. statistici estrinseci al rapporto di lavoro dedotto in giudizio (a. 40 D. Lg.vo 198/06).
La causa ne fornisce quasi un caso di scuola, riferito addirittura a due posizioni distinte di dipendenti della convenuta, collocate entrambe in tempi sovrapponibili al periodo in esame.
La dipendente V P riferiva di essere madre di una bambina nata nel luglio 2004, per accudire la quale aveva incontrato serie resistenze da parte della convenuta laddove aveva chiesto di assentarsi dal lavoro sia in occasione di un ricovero ospedaliero della figlia nei mesi di novembre e dicembre 2006, sia per seguirne di persona l’inserimento all’asilo nel settembre 2007.
In particolare, riferiva la teste che sia la responsabile del Centro di Empoli al quale era addetta all’epoca, sia il legale rapp.te della società R A le avevano rinfacciato le lunghe assenze godute in corri-spondenza della maternità affermando che un maggior senso di responsabilità le avrebbe imposto di scegliere di lavorare piuttosto che di fare la mamma, “strascicando” un rapporto di lavoro, costellato da continue assenze dovute ai motivi di salute della figlia, che si imponeva come un peso alla datrice di lavoro.
Infine, la V riferiva che in occasione di una delle ennesime discussioni con la responsabile F a causa delle sue assenze dal lavoro, la superiore le aveva anticipato che l’avrebbe destinata alla promo-zione pubblicitaria da svolgere all’esterno, piuttosto che alle ordinarie mansioni interne al Centro, dal momento che “non mi voleva più vedere”, avvalorandosi la conclusione (vedi sopra punto 1) che tale tipo di demansionamento fosse consueto strumento aziendale di ritorsione nei confronti di chi “abusava” dei diritti di lavoratrice madre.
Non vi è bisogno di argomentare l’analogia fra i tratti salienti del trattamento riservato alla V rispetto a quello della ricorrente, così come sopra ricostruito.
Altrettanto emblematica è la storia della dipendente I. B.
La teste riferiva di essere dipendente della convenuta dal 2005, di essersi sposata nel maggio 2007, di essere stata assente fino ad agosto 2007 per una gravidanza a rischio che poi si era interrotta e di essere quindi stata licenziata per giustificato motivo oggettivo nell’ottobre 2007.
A quel punto, impugnato stragiudizialmente il recesso perché intimato entro l’anno dal matrimonio, aveva ottenuto dalla datrice il ripristino del rapporto.
Va notato come la difesa della convenuta nulla abbia contestato quanto alla ricostruzione della vicenda operata dall’interessata, la quale peraltro riferiva sotto giuramento quale teste.
Riemerge ancora una volta la strumentalità con la quale la convenuta utilizzava pretesi profili oggettivi per risolvere rapporti di lavoro (vedi punto 6) laddove la vera motivazione era palesemente la maternità, giungendo a liberarsi di dipendente che avendo appena subito l’interruzione di una gravidanza, a fronte della giovane età e del recente matrimonio, faceva presumere che a breve avrebbe potuto essere di nuovo in gravidanza.
A conclusione della rassegna dei, numerosi e univoci, dati di fatto relativi allo svolgimento del rapporto di lavoro della ricorrente (e di altre colleghe) si impone quindi di qualificare come discriminatorio per ragioni di sesso l’intero trattamento datoriale culminato nel licenziamento, che va quindi ritenuto nullo.
In accoglimento della domanda di tesi, la nullità dell’atto comporta a sua volta l’applicazione della tutela reale di cui all’a. 18 L. 300/70, il quale al comma 1 espressamente menziona in caso di nullità del licen-ziamento, con conseguente condanna della convenuta a reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro nonché al risarcimento del danno con il pagamento di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, oltre accessori come in dispositivo (nonché, come richiesto in ricorso, con ogni altra conseguenza di legge, fra cui il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali relativi allo stesso periodo dal licenziamento alla reintegra ai sensi dell’a. 18 comma 5).
E’ frutto di errore materiale la condanna espressa nel dispositivo letto in udienza in termini di “riammissione in servizio” in luogo di quella di “reintegra nel posto di lavoro”.
L’erronea dizione, a sua volta, discendeva dall’avere utilizzato la terminologia delle conclusioni formulate dalla ricorrente per l’ipotesi di nullità del medesimo licenziamento ai sensi dell’a. 54 comma 6 D. Lg.vo 151/01 perché causato dalla domanda di fruire del congedo parentale, rispetto a quella relativa alla diversa ipotesi di nullità del licenziamento perché determinato da ragioni discriminatorie fondate sulla maternità ai sensi dell’a. 25 D. Lg.vo 198/06, avendo la lavoratrice, per i due casi, chiesto che fosse disposta, rispettivamente, la riammissione o la reintegra.
Del resto, il fatto che il contenuto effettivo della pronuncia espressa dal dispositivo letto in udienza fosse riferito invece alla disciplina di cui all’a. 18 L. 300/70 è avvalorato dalla complessiva formulazione testuale del provvedimento laddove, partendo dalla premessa di accoglimento della domanda di tesi e di con-seguenza dalla dichiarazione del licenziamento come discriminatorio, fino alla condanna della datrice al risarcimento del danno commisurato secondo i criteri legali della tutela reale per numero di retribuzioni globali cui commisurarlo, detrazione dell’aliundeperceptum ecc.
Per quanto riguarda infine l’importo del risarcimento del danno patrimoniale conseguente al recesso, nonostante la mancanza di qualsiasi allegazione e prova in proposito da parte della convenuta (come invece sarebbe imposto dal rito, Cass. n. 17606/07 e n. 14131/06), ma essendo emersi elementi in tal senso dei quali tenere conto d’ufficio, è stata effettuata la detrazione per aliundeperceptum risultante dall’avere la ricorrente nel suo interrogatorio libero riconosciuto successive occupazioni lavorative di tipo interinale, al momento esaurite, dalle quali aveva ricavato complessivamente un compenso di €. 4.500,00.
RISARCIMENTO DEL DANNO NON PATRIMONIALE
La ricorrente ha diritto ad un ulteriore risarcimento a fronte del danno non patrimoniale subito per essere stata oggetto di condotta discriminatoria per l’intero anno che aveva preceduto il licenziamento, in parti-colare a fronte del fatto che – nella condizione personale e familiare più volte sottolineata di madre single di bambina malata nata nel settembre 2005 – nel periodo dal settembre 2006 al settembre 2007 aveva subito nell’ordine:
– i primi 5 mesi di demansionamento che l’avevano all’allontanata da clientela e colleghe, destinandola a mansioni prive di spessore professionale, nonché a sopportare il disagio ed il costo di continui spostamenti con mezzi propri;
– ripetute pressioni per rientrare in servizio durante la malattia conseguente all’infortunio del febbraio 2007, che per intere mezze giornate l’avevano costretta a recarsi al Centro seppur costretta in ingessatura fonte di grande disagio e privata perciò dell’autonomia negli spostamenti;
– rabbiosa reazione datoriale alla richiesta del giugno 2007 di fruire di astensione facoltativa, che l’aveva costretta a rinunciare al proposito usufruendo piuttosto delle sole ferie, e quindi restringendo il tempo complessivo da dedicare alla cura della figlia che avrebbe goduto qualora avesse potuto usufruire altresì del congedo;
– due contestazioni disciplinari infondate nello stesso giorno del 13 giugno 2007;
– licenziamento pochi giorni dopo la decisione del settembre 2007 di fruire effettivamente della medesima astensione facoltativa.
Secondo la nuova nozione unitaria introdotta dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 26972/08, il danno non patrimoniale è categoria ampia ed omnicomprensiva, per quanto qui interessa, da riferire a lesioni di diritti di rilievo costituzionale, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti, senza duplicazioni inammissibili di voci che impongano di liquidare separatamente biologico, morale ed esistenziale.
Va precisato altresì che il danno non patrimoniale non discende in modo automatico da ogni inadempimento datoriale, e quindi nemmeno dalla discriminazione, richiedendosi comunque in ricorso specifiche allegazioni su natura e caratteri dei pregiudizi di cui si chiede il risarcimento, la cui prova può discendere da presunzioni (Cass. sez. lav. n. 29832/08).
In concreto, il danno non patrimoniale era espressamente richiesto nelle conclusioni del ricorso (pag. 14), mentre i relativi fatti costitutivi erano esplicitati in narrativa (pag. 11/13) con riferimento alla complessiva condizione di, intenso e protratto, disagio fisico e psichico che la condotta datoriale aveva procurato alla lavoratrice in conseguenza alle condotte di cui ai punti 1), 2), 3) e 4), dando luogo non solo ad un pregiudizio interiore di tipo emotivo, ma anche ad alterazioni della vita di relazione derivanti dall’avere indotto scelte personali e familiari diverse, e deteriori, rispetto a quelle che sarebbero state espressive della personalità della lavoratrice qualora avesse potuto godere liberamente e senza ritorsioni dei suoi diritti quale madre.
Emergeva come la sottoposizione al trattamento palesemente discriminatorio, reiterato in numerosi e gravi episodi per un intero anno prima del recesso, aveva inflitto alla lavoratrice sofferenze personali dovute alla mortificazione professionale sul luogo di lavoro nonché limitazioni oggettive per gli ostacoli frapporti sia alla cura della propria salute di lavoratrice infortunata sia alla cura della figlia (la cui gravità esige di richiamare, ancora una volta, la particolarità della condizione familiare della ricorrente).
Sul punto, basta richiamare da un lato le deposizioni delle colleghe di lavoro V., N. e B. quanto al disagio fisico e psichico manifestato dalla ricorrente in conseguenza al demansionamento, alle pressioni per il rientro in servizio con il gesso, al rifiuto di congedo parentale, e dall’altro lato la deposizione della madre C. R. quanto alla protratta condizione di afflizione che ne aveva debilitato il fisico e, nei momenti peggiori, le impediva perfino di occuparsi della figlia.
In conclusione, emergendo una vicenda lesiva dell’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore di cui all’a. 2087 cc fino al nucleo, di indubbio rilievo costituzionale, della tutela dei diritti della lavoratrice madre, a fronte delle circostanze del caso, si stima equo quantificare il danno nella misura di €. 10.000,00 in moneta attuale, oltre accessori come in dispositivo.

RETRIBUZIONE STRAORDINARIA
La domanda della ricorrente va rigettata per quanto riguarda il solo ultimo capo relativo alle differenze retributive rivendicate a titolo di lavoro straordinario, essendo mancata una prova risolutiva del preteso superamento dell’orario ordinario di 40 ore settimanali (distribuite dalle 10 alle 20 nei giorni dal lunedì al giovedì e dalle 10 alle 14 il venerdì).
In particolare, l’affermazione della prestazione ulteriore era svolta dalla lavoratrice negando che nei giorni dal lunedì al giovedì fosse stata effettiva l’ora di pausa per il pranzo prevista per contratto (che invece la convenuta affermava essere sempre stata interamente goduta dalle dipendenti, ricorrente compresa).
Per di più, la lavoratrice lamentava che tutti i giorni lavorativi essa, come tutte le altre colleghe, sarebbe stata costretta ad entrare almeno 15 minuti prima delle 10, aggiungendo quindi che tale ingresso antici-pato finiva per compensare il limitato tempo concesso ad ognuna di loro per mangiare un panino negli intervalli fra una cliente e l’altra.
In conclusione, le 10 ore continuative di prestazione dal lunedì al giovedì unite alle 4 ore del venerdì avrebbero fatto raggiungere all’orario settimanale la misura di 44 ore, di cui 4 straordinarie (l’ingresso anticipato compensando invece la pausa panino).
Tuttavia non si può dire assolto l’onere della prova che in proposito gravava sulla lavoratrice, a fronte del carattere variegato, e non componibile ad unità, delle versioni fornite dalle testi su entrambi i profili del godimento della pausa pranzo e dell’ingresso anticipato.
Infatti, mentre le testi dedotte dalla convenuta riferivano di un’ora effettiva di pausa pranzo usufruita dalle dipendenti seppur con modalità di tempo adattate alla presenza della clientela (C., G.), le testi dedotte dalle ricorrente comunque riferivano che un lasso di tempo era riservato al pasto (anche 30 minuti secondo N., anche 30 minuti oltre una pausa per il caffè secondo V.).
Analogamente, per quanto riguarda l’anticipo di ingresso, mentre le testi dedotte dalla convenuta riferi-vano di pochi muniti destinati a completare la preparazione della divisa da lavoro (C., G.), le testi dedotte dalle ricorrente neppure concordavano fra di loro (passando dai 30 minuti rigidamente imposti secondo N., ai 15 muniti prima secondo V.).
SPESE
Le spese di lite, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza della convenuta sui capi fon-damentali della domanda (licenziamento e risarcimento del danno), laddove la soccombenza della ricorrente sul capo residuale relativo allo straordinario discendeva dalla sola applicazione dell’onere della prova.

P.Q.M.

in accoglimento della domanda di tesi, dichiara il carattere discriminatorio del licenziamento intimato il 2.10.07, e condanna la convenuta alla riammissione in servizio della ricorrente R nonché al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva riammissione, detratto l’aliundeperceptum di complessivi €. 5.400,00, e maggiorato il capitale di rivalutazione monterai ed interessi legali sulla somma mensilmente rivalutata dalle singole scadenze al saldo;
in accoglimento della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, condanna la convenuta al pagamento in favore della ricorrente R. della somma di €. 10.000,00 oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sulla somma mensilmente rivalutata dalla presente decisione al saldo;
respinge per il resto il ricorso;
condanna la convenuta al pagamento delle spese di lite sostenute dalle ricorrenti, liquidiate complessi-vamente in €. 2.000,00 di diritti ed €. 3.500,00 di onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa.
Pisa, 3 marzo 2009.