Molestie, licenziamento ritorsivo, Tribunale di Torino, sentenza del 4 novembre 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO, SEZIONE LAVORO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n.   12248/2010 R.G.L.

promossa da

E. A., rappresentata e difesa dall’avv. Alida Vitale presso il suo studio elettivamente domiciliata in Torino, Ferrucci 6

RICORRENTE

Contro

A. I. SRL in persona del suo legale rappresentante, e N. A.,ti e difesi  dall’avv. Stefania Serafini e presso il suo studio elettivamente domiciliata in Torino, via Gropello 4

                                                                                   RESISTENTE

Oggetto: Licenziamento discriminatorio e risarcimento danni non patrimoniali

FATTO  E  DIRITTO 

La ricorrente, premesso di aver lavorato alle dipendenze della A dal 27.11.2006 al 28.12.2009 svolgendo mansioni di operaia inquadrata al I° livello ccnl chimica-plastica artigiani, chiede l’accertamento della nullità del licenziamento intimatole il 23.12.2009 in quanto discriminatorio con condanna della convenuta A a reintegrarla nel posto di lavoro; chiede altresì la condanna dei convenuti in solido tra loro al risarcimento dei danni biologico ed esistenziale sofferti  a causa della condotta di molestia sessuale nei suoi confronti posta in essere.

Resistono entrambi i convenuti.

I fatti prodromici al licenziamento intimato dalla A il 23.12.2009 sono ricostruiti dalle parti in modo diametralmente opposto.

La ricorrente sostiene di essere stata demansionata e vessata in ogni modo a seguito del rifiuto opposto alle avances del superiore gerarchico N: in particolare deduce di non aver più ruotato sulle varie postazioni lavorative venendo assegnata sempre alle stesse mansioni, di essere stata più volte insultata dal N ( nel frattempo divenuto responsabile di produzione), di aver riferito delle vessazioni subite a D S, di aver avuto il giorno 22.1.2009 una violenta crisi respiratoria a seguito di insulti da parte di N, di essere seguita dal centro di salute mentale, di avere nuovamente rappresentato sia a S sia al titolare dell’azienda il comportamento ingiurioso del N, di avere redatto unitamente alle colleghe una relazione descrittiva del comportamento scorretto tenuto da N nei confronti di tutte le dipendenti, di essere stata licenziata per asserita giusta causa il 23.12.2009.

La convenuta contesta i fatti allegati nel ricorso introduttivo e deduce che i pregressi rapporti di amicizia tra la ricorrente ed il N si sarebbero interrotti in occasione delle nozze del N e che da quel momento la ricorrente, animata da risentimento personale, avrebbe contestato qualsiasi ordine di lavoro impartito dal N ed avrebbe lavorato con scarsa diligenza. Deduce altresì la legittimità del licenziamento affermando che il comportamento della A, concretizzatosi nell’aver scattato delle foto all’interno dell’azienda e nell’essersi rifiutata di rammostrarle  al titolare, costituirebbe inadempimento grave tenuto conto altresì della circostanza che la A è titolare di brevetti .

La ricorrente in via principale sostiene che il licenziamento intimato il 23.12.2009 ha natura discriminatoria costituendo in sostanza la reazione del datore di lavoro alle sue rimostranze in merito alle molestie in suo danno realizzate dal responsabile della produzione N; la ricorrente si è così assunta il rischio di provare  che la discriminazione ha avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà espulsiva del datore di lavoro.

E’ quindi necessario innanzitutto ricostruire il quadro normativo che, in attuazione della direttiva CEE 2002/73, disciplina la materia.

L’art. 26 del codice delle pari opportunità, come modificato dal d.lgs. 5/2010, include nell’ambito della discriminazione le molestie, testualmente definite come “ quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.  Gli elementi costitutivi della molestia di genere sono quindi rappresentati dal verificarsi di un comportamento indesiderato e correlato al sesso nonché dalla finalizzazione della condotta alla violazione della dignità della lavoratrice mentre resta del tutto irrilevante l’elemento soggettivo in capo all’autore della molestia; può quindi concretizzarsi la fattispecie della molestia anche se l’autore della condotta non abbia intenzione moleste ovvero offensive poiché ciò che rileva è la circostanze che la condotta posta in essere sia indesiderata ed idonea a ledere la dignità della vittima.

L’art. 14 ccnl applicabile al caso di specie, sostanzialmente riproducendo il contenuto dell’art. 26 citato, stabilisce che sono considerate come discriminazione le molestie sessuali cioè “quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice (…)” ed impone al datore di lavoro l’obbligo di mettere in atto tutte le misure per prevenire il verificarsi di comportamenti configurabili come molestie sessuali e di promuovere e diffondere la cultura del rispetto della persona.

E’ infine necessario ricordare il particolare regime probatorio applicabile alla fattispecie; la dir. 2006/54/ce ( 30° considerando ) imponeva agli stati membri di adottare provvedimenti affinché l’onere della prova fosse a carico della parte convenuta quando si può ragionevolmente presumere che vi sia stata discriminazione rimettendo agli stati membri la valutazione dei fatti da cui si può presumere vi sia stata discriminazione.

L’art. 19 della direttiva impone agli stati membri di adottare i provvedimenti necessari  affinchè spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento  ove chi si ritiene leso abbia prodotto elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretto o indiretta.

L’art. 40 codice pari opportunità impone all’attore di  fornire elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso imponendo al convenuto di provare l’insussistenza della discriminazione . Non si tratta quindi né di prova presuntiva nella nozione stabilita dall’art. 2727 c.c. ( “le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad uno ignoto”) perché ciò che si richiede alla parte attrice è la verosimiglianza dei fatti che si offrono a dimostrazione della discriminazione né di presunzioni semplici ex art .2729 c.c. poiché si richiede solo la precisione e la concordanza non la gravità delle presunzioni.

In applicazione delle regole sulla ripartizione dell’onere probatorio contenute nell’art. 40 cit. poiché le molestie sono già normativamente definite quali comportamenti discriminatori in ragione del sesso la ricorrente non doveva allegare la discriminazione bensì solo  fornire elementi di fatto idonei a fondare in termini precisi e concordanti di essere stata molestata.

Ritiene il decidente che la ricorrente abbia ampiamente assolto agli oneri probatori su di lei gravanti con ciò facendo scattare l’inversione dell’onere probatorio.

Decisiva sotto il profilo dell’allegazione di indizi rilevanti ed univocamente orientati nel senso della realizzazione in danno della ricorrente di molestie di genere è la lettera redatta dalle lavoratrici il 15.9.2009 , allegata al ricorso introduttivo, nella quale sono presenti tutti gli elementi costitutivi della molestia come descritta dall’art. 26 cit. Dal punto di vista soggettivo infatti la denuncia  costituisce la comunicazione formale al datore di lavoro dei comportamenti indesiderati tenuti nei loro confronti dal N. Il disagio provocato nelle dipendenti dai comportamenti del N( esemplificativamente elencati nella lettera) è reso evidente dalla frase conclusiva di seguito trascritta: “ rendiamo comunque noto che il problema è dato dal comportamento generale del sig. N. La scorrettezza è sempre presente nei confronti delle dipendenti(….) Manca completamente il rispetto per le persone e per la loro salute, siamo spesso oggetto di scherzi stupidi ( spaventarci con il lancio di scatole dal soppalco per farci venire un infarto) (….) per quanto riguarda la mancanza di rispetto tale fenomeno si verifica anche per persone che per motivi diversi frequentato la produzione (….) in diverse occasioni si è state costrette ad assistere e/o ascoltare comportamenti e battute poco gradevoli. (….)”

Dal punto di vista oggettivo dell’illecito i comportamenti denunciati sono tutti lesivi della dignità delle lavoratrici ( basti pensare ai consigli sull’uso degli assorbenti impartito alla lavoratrice mestruata), incuranti dei più elementari diritti delle stesse, quali pause, mansioni confacenti al livello di inquadramento, rotazione sui vari macchinari ( il declassamento della Aversa, la mancata concessione della pausa mattutina e di quella pomeridiana), inosservanti del diritto di ogni lavoratrice al proprio onore e decoro e del diritto alla protezione della sfera psischica nell’ambiente di lavoro ( insulti e derisioni) .

L’allegazione di fatti inequivocabilmente orientati in senso discriminatorio imponeva al datore di lavoro di dimostrare la prova negativa e tale onere non è stato assolto nonostante l’impegno profuso dalle parti convenute  nel tentativo di smontare le accuse contenute nella lettera in gran parte  ritrattate dalle lavoratrici escusse quali testi.

La teste M, pur essendo a tal punto preoccupata dalle possibili conseguenze della sua testimonianza da addebitare alla ricorrente ogni responsabilità sull’insorgere del risentimento delle dipendenti nei confronti del N confermando così la tesi difensiva delle convenute( “da quando Ni ha deciso di sposarsi e di mettere su famiglia lei ce l’ha fatto odiare e ce l’ha fatto vedere in un modo diverso da quello in cui lui è”), non ha potuto comunque esimersi dal confermare di essersi “lamentata con S per alcune espressioni di N nei miei confronti: così ricordo che mi ero lamentata perché una volta mi era caduta una cosa dalle mani e lui mi aveva detto che avevo le mani di merda ed una seconda volta mi ha chiamata testa di pinolo” . La teste ha altresì confermato il contenuto della lettera prodotta come doc. 10 da parte convenuta nella quale in ogni caso si da atto di preesistenti lamentele sulle problematiche di natura personale e professionali riguardanti la figura del sig. N . La deposizione predetta quindi non costituisce prova negativa dei fatti descritti nella lettera 15.9.2009.

Analogamente la teste M, pur tentando di ridimensionare i fatti denunciati nella lettera 15.9.2009 e di giustificare la condotta del N con le esigenze produttive, ha comunque riconosciuto che,  in concomitanza con la scadenza della commessa per Poste Italiane, il comportamento del N era stato diverso dal solito e che a lei personalmente era stato negato il permesso di andare in bagno per due volte ed era stata adibita per quattro mesi continuativi alla stampa del lotto dei calendari. La teste ha così testualmente descritto il contesto nel quale la lettera è stata redatta e sottoscritta: “ Quando è stata fatta quella lettera era un momento di tensione perché c’era tanto lavoro e E ne ha approfittato un po’ per metterci contro A, e noi, da colleghe, la abbiamo appoggiata su questa cosa qua che poi alla fine non era niente vero perché quando è finito il lavoro delle Poste A ci ha addirittura ringraziato per la nostra disponibilità ed è tornato tutto normale. È vero che A mi ha detto di non andare in bagno 2 volte ma mi ha spiegato il motivo, così anche per la stampa del lotto dei calendari, è vero che io ho fatto 4 mesi continuativi ma è anche vero che io sono la più veloce. E’ vero che nell’arco di questi 4 mesi io ho chiesto a N un cambio e lui mi ha detto di no e poi mi ha spiegato il motivo. Non è vero che A mi ha detto rincoglionita, deficiente, incapace.”

La teste ha poi confermato la tesi datoriale a mente della quale la lettera del 15 settembre sarebbe il frutto di una macchinazione della ricorrente, mossa da risentimento personale e da inconfessabili gelosie ed ha così descritto l’agire della ricorrente : “ È stato un bombardamento unico,da parte di E, tutti i momenti era lì a dire che A non le dava il cambio, che la trattava male e ce lo ripeteva in continuazione, lei è arrivata perfino a dirci che con quella lettera sarebbe riuscita a mandarlo via e ad assumere un suo amico che ci avrebbe fatto lavorare  di meno.L’idea della lettera è stata di E ed è venuta fuori nel mese delle Poste. Un giorno, quando sono arrivata al lavoro E mi ha detto che lettera era di là, nello stanzino dove ci cambiamo, io ero in ritardo e l’ho firmata senza neanche leggerla.(….) Quel giorno abbiamo consegnato la lettera al titolare, lui ci ha detto di aspettare che finisse la consegna alle Poste dicendo che noi dovevamo tenerlo sotto controllo e riferire come si sarebbe comportato una volta finito il superlavoro, A si è poi scusato con noi dopo la fine del periodo si superlavoro e ci ha anche ringraziato. Lui si è scusato per il nervosismo perché ci ha detto dei no al posto dei si.”

La deposizione riportata , oltre a non costituire prova negativa dei fatti descritti nella lettera 15.9.2009 poiché comunque contiene parziali ammissioni quantomeno sul clima di nervosismo nel periodo della commessa per le poste e sulla sospensione del godimento dei più elementari diritti ( quali quello di espletare le funzioni fisiologiche)  è assolutamente inattendibile in quanto intenzionalmente orientata a gettare discredito sulla ricorrente e valorizzare l’operato del N. Del tutto inverosimile è poi la giustificazione addotta dalla teste per la sottoscrizione  da lei apposta in calce alla denuncia di fatti inveritieri: “  Ribadisco che , sebbene S ci avesse sollecitato a scrivere e sebbene E ci avesse detto il contenuto di ciò che avrebbe scritto io ho firmato anche se non era vero quello che aveva scritto, l’ho fatto per farla stare tranquilla.” E’ quantomeno incredibile che, in un’azienda di piccole dimensioni, una dipendente si esponga al rischio di gravi conseguenze disciplinari denunciando a carico del responsabile della produzione episodi non corrispondenti al vero solo per tranquillizzare una collega operaia.

I fatti descritti dalla teste M nel corso della deposizione testimoniale, tutta orientata ad una maldestra ritrattazione degli episodi descritti nella lettera di settembre, si pongono inoltre in contrasto con le deposizioni  rese dai testi S e S, elemento che ulteriormente dimostra la totale inattendibilità della teste.

Non solo le convenute non hanno adempiuto all’onere di offrire la prova negativa dei fatti allegati nel ricorso ma anzi gli esiti istruttori dimostrano la veridicità del clima discriminatorio e lesivo della dignità delle lavoratrici in generale ed in particolare della ricorrente.

Decisiva in questo senso è la deposizione del teste S, certamente non orientato a dichiarazioni compiacenti in favore della ricorrente in quanto agente della A ed amico del titolare P.

Il teste S ha dichiarato che: “è  vero che la ricorrente in varie occasioni si è lamentata con me del comportamento del N a suo dire non consono per un collega di lavoro; in particolare lei lamentava di essere maltrattata dal N e di essere esclusa dalla rotazione sulle macchine. Io la stavo ad ascoltare perché come ho già detto avevo buoni rapporti con tutti i dipendenti ma non perchè rientrasse nei miei compiti gestire il personale. Io ho tentato di farli avvicinare parlando separatamente con l’uno e con l’altro; secondo me il tutto discendeva da problemi personali tra loro .  N mi aveva detto che la questione della rotazione no discendeva affatto da valutazioni personalistica bensì da esigenze produttive. Avevo convinto N ad offrire un caffè alla ricorrente per rappacificarsi ma lui mi ha riferito che la ricorrente non ha voluto accettare. E’ vero che nel mese di luglio le dipendenti mi hanno riferito di battute  sgradevoli da parte di  N, battute che magari volevano essere spiritose ma forse erano di cattivo gusto. In particolare ricordo che N aveva l’abitudine di chiamare le dipendenti testa di pinolo. Le dipendenti lamentavano altresì che era un periodo che erano sotto pressione, anche N lo era e si rivolgeva a loro con tono più energico. Siccome a me sembrava che si trattasse per lo piu di pettegolezzi che però si trascinavano ormai da troppo tempo inviati le dipendenti a scrivere una relazione dettagliata. Feci anche presente che forse il nervosismo era da addebitare al fatto che c’era una grossa commessa di poste italiane da evadere. Al rientro dalle ferie le lavoratrici redissero la relazione collettiva che riconosco essere quella prodotta come doc. 5 di parte ricorrente.

Per quanto riguarda in particolare gli insulti profferiti da N nei miei confronti è vero che anche con me è successo che andandogli a chiedere qualcosa nel momento sbagliato lui mi dicesse “ frocio non mi rompere i coglioni” ma lo diceva con il sorriso sulle labbra e non certo per offendere. N è così non brilla certo di sensibilità ma chi lo conosce lo prende per quello che è lui non vuole offendere.”

Il teste ha quindi confermato tanto le ripetute denunce da parte della ricorrente  di comportamenti sgradevoli e marginalizzanti nei suoi confronti tenuti dal N quanto la diffusione tra tutte le dipendenti del fastidio provocato dalla condotta molesta del N.

Ulteriori e significativi riscontri della veridicità degli episodi esposti nella lettera 15.9.2009 nonché dei fatti allegati in ricorso sono desumibili dalla deposizione della teste S, sicuramente attendibile in quanto non più dipendente A. La teste infatti ha confermato sia le lamentele da parte della ricorrente sulla sua esclusione dalla rotazione sulle macchine sia le doglianze di tutte le colleghe sul modo di fare di N definito “ pesante sia per come gestiva la produzione sia perché aveva un modo di fare forse per lui cameratesco ma vissuto dalle colleghe come volgare forse lui scherzando lo riteneva cameratesco.” La S ha inoltre riferito un episodio sintomatico del clima ostile nel quale la A era costretta a lavorare: la teste ha dichiarato che ”la ricorrente si è assentata per malattia ed io ho chiesto al N cosa fosse successo lui mi ha risposto che la A era pazza(….) quando è rientrata in azienda un giorno è stata male e nessuno, ad eccezione del sig. P, le ha prestato assistenza. (….) Io ero la spalla su cui lei piangeva e spesso mi aspettava all’uscita e ricordo i particolare che una volta N vedendoci insieme ci disse lesbiche”.

I due episodi riferiti dalla teste per scienza diretta, sia quello della ascrivibilità dell’assenza dal lavoro della ricorrente per la sua pazzia sia quello del lesbismo, denotano entrambi da parte del N un atteggiamento sessista di pregiudiziale disprezzo, una assoluta mancanza di serenità nella valutazione di ogni azione posta in essere dalla ricorrente ed ulteriormente avvalorano la credibilità degli episodi descritti nella più volte richiamata lettera del 15 settembre.

Deve qui essere ribadito quanto prima esposto in ordine all’irrilevanza dell’elemento soggettivo ed intenzionale dell’autore della molestia  essendo sufficiente al fine del realizzarsi della fattispecie che la condotta sia indesiderata dalla vittima e sia obiettivamente idonea a lederne la dignità. In questo senso quindi i tentativi difensivi delle convenute, orientati a giustificare il contegno del N in un  quadro di carattere cameratesco e scherzoso  al fine di escludere l’illecito sono destinati a fallire.  Così pure le precisazioni fornite dai testi sulla non intenzionalità delle offese recate dal N ( emblematico quanto riferito dal teste S sulla frase “ frocio non mi rompere i coglioni” detta col sorriso sulle labbra e non certo per offendere) sono  del tutto irrilevanti come il fatto  che il contegno di N non fosse intenzionalmente diretto ad offendere la ricorrente bensì dal nervosismo creato dalla mole di lavoro da smaltire. Perché si realizzi la fattispecie descritta dall’art. 26 infatti è irrilevante l’elemento soggettivo dell’autore della molestia essendo di contro il discrimine tra lecito ed illecito demandato alla percezione della vittima e nella specie il malcontento della ricorrente era a tal punto noto in azienda  da avere indotto le lavoratrici a sottoscrivere la lettera 15.9.2009 per porre fine al tormento!

Il fatto incontestabile che l’azienda fosse perfettamente informata della intollerabilità -quantomeno da parte della ricorrente- dei comportamenti posti in essere dal N  comportava per l’azienda stessa l’obbligo di intervenire immediatamente per fare cessare la condotta molesta alla luce anche dell’obbligo specifico previsto dalla contrattazione collettiva di settore. Il rispetto della persona che l’azienda si era impegnata a tutelare imponeva un reazione severa e tempestiva essendo evidente che la molestia posta in essere da un dipendente in posizione gerarchica sovraordinata, se resta impunito all’interno del contesto lavorativo, genera la tendenza tra i lavoratori a considerare la condotta socialmente accettabile con vanificazione dell’azione di promozione della cultura del rispetto contrattualmente  attribuita all’azienda.

Ciò non è avvenuto in quanto il P, dopo essere stato informato dalle dipendenti di quanto accadeva in azienda, lungi dall’adottare un qualunque provvedimento che potesse far cessare l’illecito, ha scelto di prendere tempo sottoponendo il N ad un periodo di osservazione conclusosi poi con una aperta e supina condivisione  dell’operato del proprio responsabile di produzione.

Ulteriori e significativi elementi a sostegno della discriminazione subita dalla ricorrente emergono dal comportamento datoriale in occasione del licenziamento. Il fatto addebitato alla ricorrente è infatti rappresentato dall’aver “scattato delle foto all’interno dell’azienda alle attrezzature e al personale”. Nella lettera di giustificazioni la ricorrente ha fatto presente di aver scattato le foto avendo notato appeso alla parete un calendario raffigurante donne nude, dopo aver richiesto inutilmente la rimozione del calendario ed ottenendo la rimozione solo alle ore 16.

Il licenziamento è stato poi intimato a causa della gravità del gesto e della non veridicità delle giustificazioni.

L’istruttoria esperita ha sul punto inequivocabilmente confermato la tesi difensiva della ricorrente.

Le dichiarazioni rese nel corso dell’interrogatorio libero dal legale rappresentante della A hanno sul punto valore confessorio. Il sig. G P ha infatti dichiarato: “ Il calendario oggetto della contestazione disciplinare era da tempo collocato su uno scaffale, quel giorno N lo ha appeso dietro il macchinario vicino al magazzino. N ha appeso il calendario all’inizio del turno, la ricorrente a metà mattinata ha iniziato a lamentarsi chiedendo la rimozione del calendario è venuta anche da me a chiedermi di toglierlo ed io ho detto vabbè vado e lo tolgo e lei mi ha detto “no deve farlo N”. Io avevo chiesto a N di togliere il calendario era già verso mezzogiorno e mezza. Lui mi ha detto che l’avrebbe tolto quando avrebbe finito di lavorare. Lui stava tagliando delle bobine. La taglierina richiede la presenza continua del lavoratore” .

Le dichiarazioni rese dal legale rappresentante della convenuta dimostrano il completo disinteresse per l’adempimento dell’obbligo di prevenire il verificarsi di comportamenti configurabili come molestie sessuali previsto dall’art. 14 ccnl di settore e denotano una preconcetta ed aprioristica condivisione dei metodi adottati dal N. Il calendario in oggetto, prodotto in foto dalla ricorrente come doc. 12, è indubbiamente pornografico, privo di ogni valore artistico e raffigura il corpo della donna in modo così squallido ed arrogante da offendere la dignità ed il decoro di ogni essere appartenente al genere femminile. Né può fondatamente sostenersi che l’affissione del calendario fosse giustificata da esigenze organizzative aziendali poiché il calendario è relativo all’anno 2010 e pacificamente l’ affissione è avvenuta nel mese di dicembre 2009. La dignità della ricorrente è stata lesa in modo reiterato e continuativo da un lato dall’affissione del calendario, dall’altro dall’indifferenza con cui le sue lamentele sono state accolte dal datore di lavoro ed infine dall’assurda decisione di risolvere il rapporto di lavoro.

Il provvedimento espulsivo rappresenta quindi l’atto conclusivo del percorso discriminatorio intrapreso dal N come parte attiva e dall’azienda come parte colpevolmente inerte e pertanto il licenziamento deve essere dichiarato nullo in quanto sorretto da un motivo illecito determinante con conseguente applicazione del regime della tutela reale a prescindere dal requisito dimensionale della società datrice di lavoro in base a quanto previsto dall’art. 3 legge 108/90.

La ricorrente rivendica altresì la condanna dei convenuti in solido tra loro al risarcimento del danno non patrimoniale subito a causa delle molestie.

Dal punto di vista dell’inadempimento datoriale l’inerzia rispetto alla molestia di genere posta in essere sul luogo di lavoro concretizza la violazione dell’obbligo di sicurezza e protezione dei lavoratori sancito dall’art. 2087 c.c. norma che tutela anche la personalità morale del lavoratore . La convenuta A -cui era noto il compimento di molestie di genere nell’ambito dell’impresa- era tenuta ad intervenire adottando le misure, anche di natura disciplinare nei confronti dell’autore delle molestie, necessarie a garantire la dipendente vittima della molestia; la violazione del predetto obbligo comporta l’insorgere dell’obbligazione risarcitoria.

L’obbligo di risarcire i danni subiti dalla ricorrente grava cumulativamente anche sull’autore del fatto lesivo sig. N tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c.

I danni causati alla ricorrente dalla prolungata soggezione alle molestie sono documentalmente provati  e non sono stati contestati nella loro obiettiva esistenza. In particolare il certificato della ASL TO 3 del 5.5.2010 ( doc. 20 di parte ricorrente)  dimostra che la ricorrente è seguita dal centro di salute mentale a far data dal 27.1.2010, ha manifestato un disturbo dell’adattamento con ansia e depressione misti, è stata sottoposta a terapia psicofarmcologica. La relazione peritale redatta dal dott. G d L conclude per la sussistenza della malattia psischica nei termini di disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso misti da attribuire interamente alle vicissitudini lavorative della Aversa ed ha quantificato il danno biologico intorno al 7%.

Tale percentuale non è stata in alcun modo contestata dalle parti convenute che si sono limitate a negare la condotta senza prendere posizione sulla quantificazione dei danni.

Secondo l’insegnamento della suprema corte in materia di risarcimento danni, in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, la regola, secondo la quale il risarcimento deve ristorare interamente il danno subito, impone di tenere conto dell’insieme dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purchè sia provata nel giudizio l’autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo il giudice, a tal fine, provvedere all’integrale riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso ogni meccanismo semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga conto, pur nell’ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, dunque, delle particolarità del caso concreto e della reale entità del danno. ( così Cass. 9238/2011)

Applicando i predetti criteri al caso di specie si deve quindi personalizzare il danno che discenderebbe dall’applicazione delle tabelle redatte dal tribunale di Milano ( quantificabile in base alla percentuale del 7% e tenuto conto dell’età della ricorrente in €. 11.852,18) . Da un lato occorre considerare che la condotta lesiva non ha compromesso solo la salute psichica della ricorrente ma ha inciso negativamente sulle sue abitudini di vita, privandola dell’autostima e   rendendola insicura e chiusa in sé stessa ( cfr. deposizione testimoniale di R A, padre della ricorrente) . D’atro lato è necessario considerare il progressivo miglioramento delle condizioni di salute della ricorrente attestato dai certificati del 5.5.2010 e 12.10.2010 e la presumibile ed auspicata possibilità di ripristinare il benessere psicofisico precedente tenuto conto anche della sua giovane età.

In definitiva le convenute in solido tra loro vanno condannate a pagare a titolo di risarcimento dei danni complessivamente subiti la somma di euro 15.000.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q. M.

Visto l’ art. 429 c.p.c.

In accoglimento del ricorso,

dichiara la nullità del licenziamento intimato il 23.12.2009 in quanto discriminatorio e per l’effetto condanna la srl A a reintegrare la ricorrente nel suo posto di lavoro ed a corrisponderle a titolo di risarcimento del danno un’indennità commisurata alle retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento sino alla reintegra ed a versare i contributi previdenziali ed assistenziali;

condanna i convenuti, in solido tra loro,  al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla ricorrente liquidato in complessivi euro 15.000,00;

condanna i convenuti in solido a rimborsare le spese di lite liquidate in euro 3.500,00 oltre Iva e cpa con distrazione in favore del difensore

visto l’art. 53 L. 133/08

fissa il termine di giorni 60 per il deposito della sentenza.

Torino 4 novembre 2011

Il Giudice

Drssa Clotilde FIERRO.