Discriminazione di genere, discriminazione della lavoratrice madre al rientro della maternità, Corte d’appello di Firenze, sentenza del 2 luglio 2015

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del popolo italiano

LA CORTE DI APPELLO DI FIRENZE

composta dai magistrati:

Dr.  Giovanni BRONZINI                -Presidente rel.

Dr.  Gaetano SCHIAVONE             -Consigliere

Dr.  Simonetta  LISCIO                   -Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

dando lettura  del dispositivo  e della motivazione contestuale  all’udienza del   2 luglio 2015    nella causa n.  592  del 2014 r.g.

promossa da  

D P. E. nata …

con avvocati Fabio Rusconi e Francesco Rusconi

-appellante- 

contro

xxxx  s.r.l. in persona del legale rappresentante Giovanni Mazzoleni

con avvocati Pier Luigi Giannelli e Giovanna Bogani –appellata-

P T. nata …..

con avvocato Marco Tagliaferri – appellata-

 

Conclusioni : come in atti

 

Oggetto :  Condotta discriminatoria di genere  – appello contro la sentenza N. 534  del Tribunale di Firenze giudice del lavoro  del  14  maggio 2014  – appello del 4 luglio 2014   

Motivazione contestuale

E D P- con l’intervento adesivo della Consigliera di Parità della Toscana- chiedeva con ricorso 4.11.2010 al giudice del lavoro di Firenze di accertare ex art. 38 d.legs.vo n. 198/2006 che, alle dipendenze della s.r.l. xxxx, in qualità di commessa, essa aveva subito discriminazione di genere anche per la condotta della superiore gerarchica P. T..

Chiedeva che fossero adottati specifici provvedimenti per rimuovere  gli effetti della discriminazione e per impedire  la sua reiterazione. Chiedeva inoltre la condanna dell’azienda datrice e della stessa P. al pagamento del risarcimento del danno in proprio favore quantificato in euro 50.000,00 a titolo di pregiudizio non patrimoniale.

Con decreto 11/14.2.2011 il Tribunale di Firenze in funzione di giudice del lavoro rigettava la domanda e condannava D. P. al pagamento delle spese processuali.

L’opposizione proposta il 3.3.2011 da E. D. P  veniva rigettata dal giudice del lavoro fiorentino, con l’onere delle spese,  con la sentenza n.534 del 14.5.2014 oggetto dell’odierno gravame.

Con appello 4.7.2014 D P chiede la integrale riforma della sentenza impugnata.

Resistono all’appello N.G.M. s.r.l. e P T rispettivamente con memorie del  19.6.2015 e del 22.6.2015.

Nel merito, osserva il Collegio :

non è contestato che la sig.ra D P lavori come commessa alle dipendenze della N.G.M., all’interno del centro commerciale …. a partire dal novembre 2005 e che essa ha abbia partorito due gemelli il 10.6.2009.

La lavoratrice denunzia una serie di pressioni e di discriminazioni che le sarebbero venute dalla datrice di lavoro fin dal momento in cui essa chiese di riprendere il lavoro nel gennaio 2010 e culminate con un increscioso episodio del 14.6.2010.

In particolare, D P lamenta che le furono fatte difficoltà già per la ripresa del lavoro e per fruire del part time e comunque delle agevolazioni previste dalla legge come madre lavoratrice.

La sentenza appellata definisce l’episodio del 14 giugno 2010 come un    “violento e deprecabile diverbio fra colleghi sorto in occasione di sopravvenute esigenze di sostituzione” (e quindi accerta il fatto come avvenuto), ma omette di analizzarne il contenuto e le modalità, salvo poi a sminuirne la portata.

Al contrario, ritiene il Collegio che il fatto debba essere esattamente ricostruito  e più attentamente valutato.

Il 14.6.2010 cadeva poco dopo il compimento di un anno di età dei bambini e tre giorni dopo che D P aveva ripreso l’attività lavorativa a tempo pieno. Quel giorno essa doveva osservare l’orario  h.15.30 – 22.10. Al mattino, circa alle ore 10,00,  si trovò nella necessità di portare la bambina dal pediatra perché presentava delle macchie rosse sulla pelle  e avvertì l’azienda che, se fosse stata diagnosticata alla figlia  una malattia infettiva, essa non avrebbe potuto prendere servizio all’ora pattuita. Nell’occasione, mentre era  in automobile, D P ricevette la telefonata della sua diretta superiore gerarchica  sig.ra P T che la apostrofava con queste parole :

Per colpa tua  e dei tuoi figli ho dovuto assumere un’altra persona e se non vieni al lavoro alle 15.30 in punto ti faccio il culo, mi sono rotta i coglioni di te e dei tuoi figli e non me ne frega un cazzo se tua figlia sta male, procurati una fottuta babysitter, tu devi rientrare al lavoro di corsa e stai attenta questo è l’ultimo avvertimento che ti do”.

Dopo la visita dal pediatra e avendo avuto rassicurazioni sulla salute della bambina, D P richiamava l’azienda per confermare che avrebbe rispettato l’orario di entrata, ma anche per chiedere spiegazioni

sulla telefonata precedente ; al che sempre P la investiva con queste parole :

con il tuo atteggiamento da mamma mi offendi. Hai rotto con questa malattia stai mancando di rispetto all’azienda e alle colleghe …ricordati che io ho i soldi e le conoscenze e il potere per rovinarti e ricordati che io non mangio grazie al punto di vendita e posso tirare fuori i soldi per farti il culo in due.”

Dopo un’interruzione della comunicazione, vi era un’altra telefonata in cui P diceva : “ ..Il part time che mi hai chiesto scordatelo, devi farti il culo a lavorare dato che sei una super mamma e hai voluto dei figli vedremo quanto sei dura;  ti ho assunto sperando tu fossi sterile ed è solo  grazie alle terapie del cazzo  che me lo hai tirato in culo….venditi la macchina del tuo uomo se non puoi permetterti la babysitter e ricordati che quel poveruomo del tuo uomo non può badare dopo dieci ore di lavoro a due neonati, devi stare a casa a fare la mamma sei una calcolatrice e approfittatrice del cazzo”.

M D P, sorella dell’appellante, sentita  come teste sia nella fase di urgenza, sia nel giudizio di opposizione in tribunale, ha  ricordato di avere accompagnato E D P dal pediatra con la bambina il 14.6.2010  e ha confermato di aver ascoltato, nel viaggio in automobile,al telefono in “vivavoce” le frasi sopra trascritte. Ha ricordato di essere stata colpita da quel riferimento alla sterilità e dalle espressioni volgari.

Dall’altro capo del telefono vi era sicuramente la sig.ra  P , la quale ammette che le telefonate vi furono ( v. anche verbali della fase sommaria) .

La teste G –  altra dipendente che era in quel momento  all’interno del punto di vendita – ha riferito che P era “molto contrariata” e aveva un tono “risentito”  perché sarebbe spettato proprio  a lei  di sostituire D P se non si fosse presentata alle ore 15.30 ; ed ha definito l’episodio “spiacevole”, pur dichiarando  di non aver ascoltato tutto il colloquio telefonico ( “….non ascoltai tutta la conversazione poiché il negozio era aperto ed io ero occupata a servire i vari clienti…..”).

Questa ultima e leale precisazione della teste G ( ancora legata da un rapporto di lavoro con l’azienda)  appare al Collegio  assai  significativa in quanto G non udì tutte le parole di P o è come se non le avesse udite  :  e infatti la teste si limita a supporre che “se T avesse esagerato nei toni me ne sarei accorta”;  e anche  una simile supposizione, così soggettiva e opinabile, esprime una forma di grande cautela che sembra pari all’imbarazzo.

Ritiene il Collegio- in definitiva – che la teste M D P,  benché legata da parentela con l’appellante, sia pienamente attendibile  quando  riferisce di aver udito le parole offensive e volgari sopra riportate.

L’attendibilità della versione fornita da M D P – a conferma  dell’atto introduttivo della causa-  è corroborata poi da una serie di elementi indiziari ed obbiettivi : il fatto che l’episodio ricada subito dopo il periodo di tutela del puerperio,  al compimento dell’anno di età dei bambini e quando D P tentava un reinserimento al lavoro “full time” ; la circostanza stessa che la mattina del 14.6.2010 fu impossibile reperire un’altra commessa disposta all’eventuale sostituzione ( vedi dep. R M) e che quindi T P fu necessariamente coinvolta benché avesse già altri impegni per il pomeriggio (tanto più che avrebbe dovuto sostituire una sua subordinata e per questo era “ risentita e molto contrariata” ); il fatto  che D P avesse già  richiesto in passato dei permessi per andare ad una  cresima e “quattro giorni al mare” (dep.G).

Bisogna  dire ora  quale fosse il ruolo in azienda  di T P, argomento che ha tanto occupato le parti nelle precedenti fasi del giudizio.

La ricordata teste G ha riferito che “la signora P è la compagna del sig. M” e cioè del titolare e legale rappresentante  della xxxx.  e che si occupa delle vetrine e  fa qualche sostituzione di commessa ; la teste E C ha dichiarato che P è munita di “badge” e accede al negozio anche al di fuori degli orari, “fa i banconi e gli scaffali e sta in cassa”. La teste F P ricorda che P è presente nel punto di vendita “un paio di volte a settimana” per controllare la esposizione della merce.

Che P avesse un rapporto anche più ampio con le dipendenti è confermato – oltre che dal contenuto delle telefonate sopra ricordate- dal fatto  che  era solita invitare  “a cena a Natale tutto lo staff” ( v. G).

Al di là della forma contrattuale adottata dall’azienda è pertanto  certo lo stabile inserimento di P nella struttura organizzativa di xxxxx e con modalità e ampia autonomia operativa  che ovviamente non erano ignote ai vertici aziendali (anche per il legame personale P-M).

Ciò posto, a giudizio del Collegio, erra il Tribunale di Firenze quando ritiene che l’episodio del 14.6.2010- accertato nei termini come sopra descritti-  possa essere liquidato come “un violento e deprecabile diverbio”.

Innanzitutto, l’intrinseco contenuto delle telefonate del 14.6.2010 getta luce e conferisce piena attendibilità quantomeno ad un altro episodio: quello del gennaio 2010, assai più pacato ma non meno significativo ai fini che ci occupano e che riguardano la lavoratrice-madre D P.

Si era nel periodo in cui D P stava programmando il suo rientro al lavoro ed  ebbe un colloquio sull’argomento  non soltanto con la responsabile G L C, ma anche  separatamente  con la P T, come si evince dalla istruttoria testimoniale.

Al riguardo, il Tribunale non si è espresso in modo univoco e chiaro ( adottando la formula “anche se si ritenesse provato il colloquio, non è stato seguito dai fatti”).

Il teste G D ha riferito che, all’interno del negozio, P cercò di convincere D P a non riprendere il lavoro per non creare problemi all’organizzazione e alle colleghe ed utilizzò frasi del tipo “dopo che hai  tanto voluto dei figli, rimani a casa ad accudirli”.

Non vi è alcun motivo obbiettivo per negare attendibilità a questa testimonianza e  in contrario non  vale certo il fatto che, a marzo 2010, D P fu poi riammessa al lavoro a tempo parziale.

Tra l’altro, la presenza di P in azienda  (quantomeno) nel gennaio 2010 è attestata dal contratto di collaborazione 2.1.2010 che essa stessa ha prodotto. E che G D, compagno dell’appellante, fosse solito frequentare il punto di vendita è confermato dalla teste G.

D’altro canto, entrambi i convenuti in primo grado hanno descritto la  situazione dei rapporti lavorativi e personali con D P del tutto serena e senza contrasti anche dopo la gravidanza della dipendente ; ma  allora non si può trascurare  che una versione siffatta ( alla quale almeno in parte si può prestar credito) depone nel senso  che la lavoratrice non avrebbe avuto alcun motivo e interesse ad  inventare gli episodi come sopra accertati, che non appaiono affatto  frutto di fantasia :

aspetto quest’ultimo con il quale il Tribunale non ha ritenuto di cimentarsi, ma che costituisce uno snodo inevitabile in tutte le procedure che riguardino denunce di  violenze e di  discriminazioni più o meno subdole.

Non ignora il Collegio che la  versione della vittima non è assistita da alcuna fede privilegiata ( v.  l’art. 40 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, e relativa giurisprudenza), ma non deve  neppure essere svalutata di per sé, e anzi va attentamente considerata tenendo conto della insidiosità dei fatti denunciati e delle difficoltà probatorie che vi sono connesse.

Nel caso concreto, il complesso delle testimonianze acquisite, valutate unitamente con le circostanze obbiettive sopra illustrate  e con  l’intero contesto della vicenda, inducono a ritenere provati i fatti discriminatori del gennaio e del giugno 2010, che sono collegati strettamente fra loro e sono stati diretti a condizionare pesantemente E D P sul luogo di lavoro, insinuando l’idea che la volontà della lavoratrice di conciliare maternità e lavoro fosse un disvalore parassitario  e una decisione riprovevole.

Inoltre le espressioni utilizzate nelle telefonate sopra riportate hanno una portata  ingiuriosa, della  quale è superfluo illustrare il contenuto “di genere” e il riferimento esplicito alla maternità.

Neppure può condividersi la tesi accolta dal Tribunale di Firenze, per cui le parole non sarebbero state seguite  “nei fatti da comportamenti concreti” ( come se quelli fin qui narrati non fossero fatti).

Una tesi di tal genere trascura che la lavoratrice madre, (con figli di un anno di età nella specie), nel settore privato in particolare, si trova necessariamente a dover concordare e spesso ricontrattare con il datore i tempi del lavoro per farli coincidere con le esigenze di cura familiare. Tale condizione rende la lavoratrice madre in una condizione di palese debolezza negoziale e anche psicologica, a fronte della quale il legislatore è intervenuto con il d.legs.vo n.198/2006 che mira a reprimere – fra le altre- anche le forme di discriminazione subdole e logoranti verso le lavoratrici madri.

Nel corso del 2012, dopo il diniego della tutela in via di urgenza D P ha abbandonato il posto di lavoro per dimissioni.

Gli episodi ingiuriosi  sopra descritti sono fatti idonei a colpire e menomare  la lavoratrice proprio nel momento in cui essa  rivela la debolezza sopra descritta e a discriminarla imputandole la “colpa” e la “diseguaglianza” di volere essa  fare valere contro l’impresa esigenze connesse alla maternità.

Va accolta, pertanto,  la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale  per il quale sono solidalmente responsabili PTeresa e xxxx. s.r.l. a norma degli artt.  2055 e 2049 c.c.

Al riguardo, l’azienda ha violato l’art. 2087 c.c. che fa obbligo all’imprenditore  – a mezzo della propria organizzazione di mezzi e di persone – di salvaguardare , tra l’altro, la “personalità morale” dei dipendenti. La condotta sopra descritta di P, che l’azienda ha consentito e comunque tollerato colpevolmente,  integra gli estremi del fatto ingiurioso (art. 2059 c.c.), oltre a ledere la dignità della lavoratrice madre ( artt.41,II comma , e  2 Cost).

Il danno non patrimoniale ( previsto anche  dallo stesso art. 38 d.legs.vo n. 198/2006 già citato) ,allegato specificamente e motivatamente nell’atto introduttivo come lesione dei diritti primari della personalità,  sussiste e va dunque risarcito.

Non devono emettersi provvedimenti interdittali poiché è pacifico in causa che il rapporto di lavoro è cessato per dimissioni.

A norma dell’art. 1226 c.c., per la liquidazione necessariamente equitativa, il Collegio tiene conto del carattere episodico dei fatti sopra descritti (seppure reiterati)  , ma anche dell’obbiettiva gravità di talune espressioni ingiuriose utilizzate e dirette alla sfera più intima della persona, e quindi determina l’importo del risarcimento dovuto in euro 10.000,00 (restando al di sotto, come parametro meramente indicativo  e di massima , alla retribuzione annua netta di una lavoratrice di pari livello a tempo pieno secondo il CCNL del settore terziario).

L’appello va dunque parzialmente  accolto come in dispositivo e a ciò consegue un diverso regolamento delle spese processuali dei diversi gradi.

DISPOSITIVO

In riforma della sentenza impugnata accerta i fatti di discriminazione di genere come descritti in motivazione  ex art. 38 d.legs.vo n. 198/2006 commessi in danno di D P E nel gennaio e nel giugno  2010 ;  condanna xxxx. s.r.l. e P T  in solido al risarcimento del danno in favore di D P E che liquida in euro 10.000,00 in moneta attuale , oltre interessi legali dal 14.6.2010 e fino al saldo ; condanna xxxx. s.r.l. in persona del legale rappresentante e  P a restituire a D P E   tutto quanto percepito per spese  dalla stessa in attuazione dei provvedimenti emessi  in sede cautelare e di opposizione e, inoltre, a rimborsare a D P E  le spese processuali di tutti i gradi che liquida in complessivi euro 10.000,00, oltre iva , cpa e spese forfettarie.

Così deciso in Firenze il  2 luglio  2015