imposizione turno pomeridiano ad una lavoratrice al rientro maternità, discriminazione di genere, Tribunale di Pesaro, decreto del 07.01.2020

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale di Pesaro

In persona del giudice del lavoro dott. Maurizio Paganelli, ha emesso il seguente

DECRETO

A scioglimento della riserva formulata all’udienza del 17.12.2019 , nella causa iscritta al n. 508 /2019 , in corso tra

, rappresentata e difesa dall’avv. Virgilio Quagliato,

RICORRENTE

contro

, rappresentata e difesa dagli avv. Giovanni Nardelli e Lorenzo Ruggeri,

RESISTENTE

Avente ad oggetto: ricorso a norma dell’art. 38, D.LGS. N. 198/2006..

OSSERVATO IN FATTO E DIRITTO

Con ricorso depositato in data 10.06.2019 la ricorrente esponeva di lavorare in qualità di operatrice socio sanitaria, per l’Istituto resistente che gestiva una casa di riposo sita in xxxxx.

La struttura era diretta da due religiose con alle proprie dipendenze circa 26 addetti.

Gli operatori socio sanitari lavoravano su tre turni: mattutino (6.20-14.00); pomeridiano (14.00-21.30), e notturno (21.30-7.00), con le seguenti rotazioni: due mattine, un pomeriggio, una notte, smonto e riposo. Assunta nel 2008, dall’anno successivo aveva sempre lavorato ruotando nelle tre turnazioni.

L’istante, nel luglio 2014 comunicava alla datrice di lavoro la propria quarta gravidanza. Per ragioni di salute anticipò il congedo per maternità, infastidendo la superiora che, oltre a riferire che l’istante “sfornasse figli come conigli” raccomandò ai colleghi di non nominarla.

Tornata dalla maternità nell’ottobre 2015, le venne comunicato un diverso orario di lavoro: dalle 16.00 alle 21.00. Neppure le venne consegnata la divisa ciò che avvenne solo nel 2017.

La ricorrente aveva chiesto più volte di poter modificare il proprio orario di lavoro, lavorando anche di mattina, al fine di poter avere più tempo per stare con i propri figli, tre dei quali andavano a scuola mentre il marito aveva un proprio lavoro. I figli più grandi erano così costretti a passare gran parte del loro pomeriggio (dalle 16.00 alle 18.00) in casa a controllare i due fratelli più piccoli, di 8 e 4 anni. La presenza contemporanea della madre con i figli nel pomeriggio era limitata al giorno di domenica.

La resistente non adibiva l’istante al turno mattutino neppure quando si trattava di sostituire personale che lavorava in tale turno, preferendo assumere personale esterno. Neppure la risoluzione di due rapporti di lavoro con altrettante OOSS e l’assunzione di nuovo personale aveva consentito alla ricorrente di accedere al turno mattutino.

Il rifiuto della datrice di lavoro di consentire alla ricorrente di lavorare anche sul turno mattutino era discriminatorio perché motivato dalla condizione di madre della ricorrente.

Sintomatiche della discriminazione di cui era vittima erano anche la sanzione disciplinare di 3 giorni di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione – ritenuta palesemente sproporzionata – comminata per aver consegnato in orario di lavoro ad una collega di prodotti Yves Rocher venduti dalla figlia della ricorrente e l’omessa convocazione ad un corso di formazione a cui erano state invitate anche le colleghe in malattia.

La ricorrente chiedeva che, accertata la natura discriminatoria dei comportamenti denunciati, la resistente fosse condannata ad assegnare all’istante turni lavorativi analoghi a quelli assegnati agli altri OOSS (due mattine, un pomeriggio, una notte uno smonto e un riposo), oltre al risarcimento del danno morale e patrimoniale.

La resistente chiedeva il rigetto del ricorso per le ragioni che saranno esposte.

***

La convenuta nega che lo speciale procedimento previsto dall’art. 38, del d.lgs. n. 198/2006, sia applicabile alla fattispecie in esame, perché le doglianze della ricorrente non sarebbero ascrivibili in alcun modo al contesto delle discriminazioni di genere disciplinate dalla norma e perché difetterebbe il presupposto dell’urgenza e tempestività (la condotta assunta come discriminatoria datava al mese di ottobre 2015).

Entrambe le eccezioni vanno disattese.

La ricorrente deduce di essere trattata in modo sfavorevole rispetto ad altri dipendenti della struttura in ragione della propria condizione di madre. Il trattamento sfavorevole consisterebbe nell’adibizione in via continuativa e senza eccezioni al turno di lavoro pomeridiano, a differenza degli altri OOSS impiegati nella struttura, che osservano turni che li impegnano a giorni alterni il mattino, il pomeriggio o la notte. La discriminazione sarebbe stata attuata a partire dall’ottobre 2015, al rientro della lavoratrice dalla quarta maternità e troverebbe motivo proprio nella sua condizione di madre, non essendo emerse altre possibili giustificazioni del comportamento datoriale.

Pare al decidente che in tal modo l’istante abbia allegato una discriminazione diretta, attuata mediante l’assegnazione di un orario di lavoro diverso da quello della generalità degli altri dipendenti.

Tale è infatti la definizione di discriminazione diretta evincibile dall’art. 25 del d.lg. 198/2006 (”Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”).

Rientra adesso esplicitamente nella tutela del fattore-genere, ai sensi del comma 2-bis della norma, anche il trattamento deteriore basato sullo stato di gravidanza, di maternità o paternità, anche adottive, o in ragione di titolarità/esercizio dei diritti connessi a tali status, e ciò in conseguenza della novella di cui all’art. 1, c. 1, lett. p), n. 2, d.lgs. 25.1.2010, n. 5, apportata in attuazione della direttiva 2006/54/CE.

La speciale tutela prevista dall’art. 38, del d.lgs. 198/2006 si applica “Qualora vengano poste in essere discriminazioni in violazione dei divieti di cui al capo II del presente titolo… o comunque discriminazioni nell’accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione,…”.

Come rilevato dalla più recente dottrina, i divieti di cui agli artt. 27-35 del codice possono coinvolgere tutti gli atti e i comportamenti (unilaterali o bilaterali) rilevanti ai fini della costituzione, dello svolgimento e della cessazione del rapporto. Sono coperte dai divieti tutte le fasi, quella precedente l’instaurazione del vincolo (in cui il soggetto si trova in una posizione di mera aspirazione al posto di lavoro) e dell’accesso, quella relativa alla formazione (nonché all’orientamento, al perfezionamento, all’aggiornamento, alla riqualificazione professionale, ai tirocini formativi e di orientamento), o allo svolgimento del rapporto (assegnazione di mansioni, trattamenti retributivi, trasferimenti, progressione in carriera ecc.), quella relativa all’estinzione, quella dell’accesso a forme di previdenza, di base e complementare, ed infine quella dell’affiliazione ad associazioni sindacali o professionali.

Il riferimento alle “condizioni di lavoro, compresa la retribuzione”, in ogni caso, implica l’astratta riconducibilità della fattispecie in esame nell’ambito delle discriminazioni considerate dal codice delle pari opportunità.

La tutela predisposta dall’art. 38 non ha natura cautelare poiché non presuppone una situazione di pericolo imminente che nella fattispecie sarebbe effettivamente arduo rinvenire (la condotta discriminatoria è molto risalente nel tempo). L’ordinamento assicura egualmente una tutela sommaria ossia particolarmente rapida, in ragione del rango degli interessi coinvolti, analogamente a quanto previsto in materia di tutela contro i comportamenti antisindacali (art. 28, L. 300/1970) o, più di recente e fino alle ultime riforme, di licenziamento ingiustificato.

Nel merito il ricorso va accolto.

L’accertamento della discriminazione diretta presuppone un giudizio di relazione in forza del quale possa affermarsi che il trattamento differenziato riservato alla ricorrente si ricolleghi causalmente ad uno dei fattori di discriminazione considerati dalla legge e quindi nel caso specifico alla maternità.

Sul piano probatorio, in base all’art. 40, Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o

comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.

Si tratta di un regime probatorio agevolato che favorisce i lavoratori e le lavoratrici nella dimostrazione del nesso di causalità tra trattamento differenziato e fattore di discriminazione, una volta che essi abbiano provato l’esistenza in fatto di un trattamento differenziato rispetto al tertium comparationis prescelto. Il ricorrente dovrà perciò: a) allegare ed eventualmente dimostrare il fattore di discriminazione cui si assume riferibile il trattamento differenziale; b) affermare e dimostrare l’esistenza di un trattamento deteriore rispetto al termine di comparazione (e quindi a un soggetto, anche non più esistente o anche solo ipotetico, ma comunque non portatore del fattore protetto), prova che potrà darsi anche con l’ausilio del dato statistico. Per la verifica del rapporto causale deve compiersi un giudizio di tipo alternativo- ipotetico ovvero interrogarsi sul se il soggetto avrebbe ricevuto quel trattamento se non fosse stato portatore del fattore protetto; se la risposta è negativa quel trattamento ha natura discriminatoria.

Una volta assolto il predetto onere da parte dell’attore, sarà il datore di lavoro a dover dimostrare fatti, necessariamente specifici ed obiettivamente verificabili, idonei a far ritenere, nel caso di discriminazione diretta, l’inesistenza della discriminazione e quindi l’esistenza di una ragione non discriminatoria del trattamento differenziato, alternativa a quella normativamente presunta, e avente esclusiva rilevanza causale, oppure l’esistenza di una deroga, cioè l’esclusione della fattispecie dall’area del divieto (ad es. quando il trattamento differenziale dipenda da una caratteristica essenziale della prestazione, oggettivamente apprezzata).

Sulla base dell’istruttoria svolta l’istante ha assolto il proprio onere probatorio.

E’ infatti dimostrato, perché pacifico, che la ricorrente, madre di 4 figli, svolge le proprie mansioni esclusivamente in orario pomeridiano, a differenza delle altre 12 OOSS, impegnate in turni alternati mattino/pomeriggio/notte.

Fanno eccezione oltre la xxx, impegnata dalle 15.00 alle 21.00, xxx (dalle 6.30 alle 13.00); alternandosi, xxx e xxx (10.00 – 12.30 e dalle 14.00 – 17.30; 13.00 – 19.00 o 13.30 – 19.30).

La ricorrente è perciò effettivamente l’unica OOSS a lavorare senza eccezione alcuna nel turno pomeridiano.

E’ altresì provato che la ricorrente non è mai stata utilizzata in turni pomeridiani per sostituire il personale temporaneamente assente a differenza di altri dipendenti (incontestato ma v. a conferma la teste xxx).

Che la decisione di utilizzare la ricorrente in un turno esclusivamente pomeridiano abbia alla base ragioni attinenti le sue plurime maternità emerge sia da quanto riferito dai testi che dalla resistente.

La teste xxxx ha dichiarato di aver sentito la direttrice dell’istituto in occasione di un cambio turno lamentarsi del fatto che la ricorrente “sfornasse figli come conigli”.

La stessa direttrice, sentita dal giudice, ha affermato che “non ho rilievi da fare alla ricorrente sullo svolgimento del suo turno ma ho necessità di impiegare la signora xxx in un turno che richiede una professionalità e soprattutto una continuità che la ricorrente non mi assicura”.

Dal prospetto depositato dalla resistente all’udienza del 01.08.2019, concernente le ore lavorate e quelle godute in regime di aspettativa, congedo ecc., emerge che i motivi di assenza dal lavoro della ricorrente a partire dall’anno 2008 attengono in misura di gran lunga prevalente alla maternità o al congedo parentale, ad essa connesso. Complessivamente 900 giorni a fronte di 307 di malattia e 93 di infortunio (questi ultimi concentrati nel solo anno 2019).

Si desume perciò che la continuità lavorativa che la ricorrente, secondo la direttrice, non è in grado di assicurare e che motiva la scelta di non impiegarla nel turno mattutino o in turni alternati, consegue alle frequenti assenze dovute alla fruizione degli istituti a protezione della maternità.

Ciò è esattamente quanto la legge intende vietare con le norme antidiscriminatorie e segnatamente con l’art. 25, comma 2bis, in base al quale “Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti».

La nozione di discriminazione ha un carattere puramente oggettivo e prescinde da qualunque intento malevolo del datore di lavoro, che può discriminare un lavoratore per uno dei fattori di rischio considerati, anche indipendentemente da un animus malevolo.

Il caso in esame ne rappresenta un caso emblematico. La sostituzione di una dipendente che ha frequenti gravidanze è probabilmente più complicata se lavora in turni spezzati piuttosto che su turno unico. Non assicurando la ricorrente la (ritenuta) necessaria continuità di servizio la si è adibita al turno meno disagevole per l’organizzazione aziendale. Ciò non toglie che la convenuta, imponendo alla ricorrente il solo turno pomeridiano l’abbia trattata diversamente per una ragione che l’ordinamento disapprova poiché la condizione di madre non può costituire motivo per trattamenti differenziati dei lavoratori (per il rilievo oggettivo delle fattispecie discriminatorie di derivazione comunitaria e per l’irrilevanza di concorrenti ragioni anche di natura economica, v. Cass. 6575/2016).

Non avendo la convenuta allegato altre ragioni a sostegno della condotta denunciata dalla lavoratrice, è superfluo indagare gli ulteriori profili di discriminazione proposti.

Relativamente alle conseguenze dell’accoglimento del ricorso deve rilevarsi come, in corso di causa, la convenuta abbia proposto alla lavoratrice di subentrare nel turno mattutino assegnato alla dipendente Marini che si pensionerà a febbraio 2020. Questa misura, sicuramente adeguata rispetto alle esigenze aziendali e sostanzialmente in linea con le aspettative della ricorrente, dovrà essere anticipata dall’inserimento immediato della Liberti nelle sostituzioni del personale temporaneamente assente, analogamente agli altri dipendenti.

Circa il risarcimento del danno non patrimoniale reclamato dall’attrice, deve precisarsi che il danno risarcibile non è “in re ipsa” e va pertanto individuato, non nella lesione del diritto inviolabile, ma nelle conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di tale danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, e la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice sulla base, non di valutazioni astratte ma del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato” (Cass. civ.ord. 31537/18 in tema di danno all’onore e reputazione, v. anche Cass.civ.sent. 2788/19, sulla personalizzazione del danno forfettariamente individuato dalle tabelle).

La prova di un apprezzabile pregiudizio di natura non patrimoniale direttamente connesso al turno di lavoro svolto non è stata data. Appare sintomatico di tale assenza che la ricorrente abbia sollecitato per iscritto un mutamento del proprio orario di lavoro solo a dicembre 2018, a circa quattro anni dal cambio di turno. E’ invece riscontrabile un pregiudizio indiretto. L’urgenza di tutela della ricorrente si collega, verosimilmente e comprensibilmente, alla mutata condizione familiare riferita all’udienza del 01.10.2019 (“Mia madre ha ormai 70 anni e non se la sente di svolgere questo ruolo”) che ha reso intollerabile la situazione. La condotta datoriale, limitando grandemente la presenza della madre in famiglia e in particolare con i figli, ha finito per incidere negativamente sulla vita familiare. E’ questo il pregiudizio-conseguenza che va ristorato.

In difetto di parametri legali più precisi e dovendo la sanzione non essere simbolica né sproporzionata, appare adeguato un indennizzo di € 5.884,00, pari ad 1/3 della retribuzione annua dell’istante.

Non si reputa possibile risarcire il danno patrimoniale richiesto poiché l’adibizione al turno notturno non può ritenersi conseguenza obbligata per il datore di lavoro.

Le spese di lite restano a carico della resistente e sono liquidate in complessivi € 3.000,00 per compenso al difensore e spese forfettarie, oltre iva e cpa come per legge.

P.Q.M.

Definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattese, dichiara discriminatoria l’adibizione in via esclusiva della ricorrente al turno di lavoro pomeridiano disposto dal mese di ottobre 2015; dispone che la convenuta in via immediata adibisca la ricorrente anche alla sostituzione dei dipendenti addetti ad altri turni e, dopo il pensionamento della dipendente xxx, al turno mattutino o comunque a mansioni che non siano espressive di un trattamento differenziato dell’istante in ragione della maternità.

Condanna parte convenuta al risarcimento del danno non patrimoniale in favore della ricorrente che liquida in complessivi € 5884,00.

Pone a carico di parte resistente le spese di lite che liquida come in parte motiva.

Pesaro li 07.01.2020

IL GIUDICE

Dott. Maurizio Paganelli