Discriminazione età, Tribunale di Genova, sentenza del 4 ottobre 2012

REPUBBLICA ITALIANA

TRIBUNALE DI GENOVA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice Monocratico di Genova – 5^ Sezione Civile del Lavoro in persona del dott. Marcello Basilico ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa promossa da F. O.

elettivamente domiciliata in Genova, v. SS. Giacomo e Filippo 15/5 presso l’avv. A. Califano, che la rappresenta per mandato a margine del ricorso

RICORRENTE

contro

  1. soc. coop. p. a.

Elettivamente domiciliata in Genova, v. C.R. Ceccardi 1/28 presso l’avv. E. Siboldi, che la rappresenta e difende disgiuntamente dall’avv. G.C. Sutich, per mandato in calce al ricorso notificato

CONVENUTA

CONCLUSIONI

Per la ricorrente: “Piaccia all’Ill.mo Sig. Giudice, accertare e dichiarare la nullità e/o l’annullabilità e/o l’inefficacia dei licenziamenti intimati alla ricorrente in data 27 settembre e 11 ottobre 2011, in quanto discriminatori e, comunque, per tutti i motivi indicati in narrativa e, conseguentemente, condannare C. società cooperativa per azioni, in persona del legale rappresentante, con sede in ….., a reintegrare la ricorrente nel proprio posto di lavoro, in applicazione dell’art. 18 SL, nonché a risarcire alla stessa il danno subito sulla base dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita, pari ad € 1.531,26 per 14 mensilità;

Dichiarare inoltre tenuta e condannare C. società cooperativa per azioni, in persona del legale rappresentante, con sede in …., a corrispondere alla ricorrente, per i titoli di cui in narrativa, la complessiva somma di € 74,80.

Il tutto oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali come per legge.

Con vittoria di spese, anche generali, diritti e onorari”.

Per la convenuta: “Voglia l’Ill.mo Tribunale adito, in funzione di Giudice del Lavoro, contrariis reiectis, in via principale rigettare tutte le domande svolte nei confronti di C. Soc. Coop. p.a. perché infondate in fatto e in diritto; in via subordinata nella denegata ipotesi di accertamento dell’illegittimità del licenziamento irrogato in data 12.10.2011, determinare l’ammontare del risarcimento spettante alla sig. ra O. F. detraendo l’importo di € 523,00 alla stessa corrisposto a titolo di TFR in conseguenza della cessazione del rapporto di lavoro, maggiorata degli interessi legali e rivalutazione monetaria dal giorno

dell’avvenuto pagamento (ovvero all’odierna domanda) sino al saldo effettivo. In ogni caso con vittoria di spese, competenze ed onorari”.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La ricorrente F. O., nata il 16.6.46, ha lavorato per la convenuta dall’1 luglio al 31 ottobre 2011, data in cui ha avuto effetto il licenziamento intimatole da quest’ultima.

Essa le ha anticipato già con lettera del 27.9.2011 l’intendimento di recedere dal contratto dal giorno 14 successivo “in relazione al raggiungimento da parte Sua dei limiti di età per il pensionamento di vecchiaia”, riservandosi però di “verificare la Sua reale posizione pensionistica” *all. 6 al ricorso e 4 alla memoria di costituzione+. Facendo seguito a questa prima missiva, l’11.10.2011 le ha comunicato che, “accertata l’effettiva sussistenza dei requisiti per l’accesso ai benefici pensionistici, con la presente Le comunichiamo che il rapporto cesserà con decorrenza dal 31.10.2011” *all. 7 ric. e 5 mem.].

Questi fatti sono pacifici tra le parti.

La ricorrente ha impugnato il licenziamento sostenendone la nullità, per essere stata discriminata in ragione della sua età anagrafica.

Il ricorso è fondato.

Va precisato che l’atto di recesso in contestazione si identifica solo con la comunicazione dell’11.10.2011, poiché è l’unico atto che abbia posto definitivamente fine al rapporto di lavoro; è dimostrato come a questo che il datore di lavoro abbia fatto risalire l’effetto risolutivo *all. 6 mem.+.

Non è contestato l’interesse della ricorrente ad agire per la reintegra nel posto di lavoro, poiché alla data del licenziamento non aveva conseguito la massima anzianità contributiva.

Neppure controverse possono dirsi le ragioni per le quali la convenuta ha intimato il recesso. A loro ulteriore chiarimento valgano comunque l’intestazione della lettera dell’11.10.2011 (“risoluzione rapporto di lavoro per raggiungimento dei limiti di età pensionamento di vecchiaia”) ed il richiamo contenuto nel testo all’art. 48 CCNL di settore, che, al quarto comma, prevede in questo caso la facoltà di recedere per il datore di lavoro senza oneri relativi al preavviso [all. 11 ric.].

Questa facoltà si riconduce alla regola della libera recedibilità, vigente nel nostro ordinamento in forza dell’art. 4, secondo comma, l. 108/90: per sua espressa disposizione, le norme limitative del licenziamento “non si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici”. Letta in combinazione col disposto dell’art. 6 d.l. 791/81 (conv. in l. 54/82), la regola non ammette deroghe, basate sull’eventuale scelta di proseguire il rapporto fino al raggiungimento della massima anzianità contributiva utile, nei confronti dei lavoratori con oltre 65 anni d’età.

Procedendo al licenziamento, la convenuta ha dato applicazione a tale regola. Perciò non acquista rilevanza, a motivo dell’atto, il fatto che essa avesse assunto la ricorrente (e con lei l’intero personale che già vi era addetto) nella “situazione di esubero del personale”, denunciata al momento del subentro nell’appalto per le pulizie negl’impianti ferroviari [all. 1 mem.]. La convenuta stessa, del resto, ha richiamato quest’ultima ragione solo per inserirla tra gli interessi in gioco che avrebbe posto in bilanciamento reciproco nella decisione di licenziare la propria dipendente.

La ricorrente ha ravvisato nell’iniziativa di controparte un comportamento discriminatorio, per diretto contrasto col disposto dell’art. 15, secondo comma, l. 300/70, così come modificato dall’art. 4 d. lgs 216/2003: in virtù di questo intervento normativo, oggi sono nulli “patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.

Di questa norma la difesa attrice ha proposto una lettura orientata non solo dalla disciplina comunitaria, trasposta nel nostro ordinamento dal d. lgs 216/2003 (direttiva 2000/78/UE), ma anche dall’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Esso recita: “ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”.

Va rammentato che l’art. 6 del Trattato UE – così com’è stato riformulato dal Trattato di Lisbona in vigore dall’1.12.2009 – riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali adottata il 12.12.2007. Si è perciò detto che la Carta è stata comunitarizzata, entro i limiti prefissati delle competenze definite nei trattati dell’Unione; il terreno della discriminazione nel settore dei diritti sociali rientra senz’altro nei confini di tali competenze, essendo anzi espressamente regolato dalle direttive comunitarie e, in particolare, dalla 2000/78 di cui si discute.

La questione che pone la presente controversia è data dalla compatibilità della regola della libera recedibilità prevista dall’art. 4 l. 108/90 con il divieto di discriminazione per età introdotto nel 2003. E’ innegabile che tale divieto si estenda al licenziamento che è “atto” inerente al rapporto di lavoro, secondo la dizione dell’art. 15 l. 300/70, il cui capoverso richiama del resto anche la disposizione sub b) precedente, dedicata al licenziamento.

La valutazione di compatibilità si pone d’altro canto anche con riferimento al citato art. 30 della Carta di Nizza.

Secondo la direttiva 2000/78 “il divieto di discriminazione basata sull’età costituisce un elemento essenziale per il perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione [..] tuttavia, in talune circostanze, delle disparità di trattamento in funzione dell’età possono essere giustificate e richiedono pertanto disposizioni specifiche che possono variare secondo la situazione degli Stati membri” (*25° considerando).

Questa clausola manifesta la correlazione tra lo specifico divieto disciplinato dalla direttiva in questione e le politiche occupazionali interne. Emerge così la peculiarità dell’elemento protetto “età” rispetto agli altri che sono vietati dalla normativa antidiscriminatoria dell’Unione. Si spiegano quindi le numerose deroghe al divieto, stabilite soprattutto per settori lavorativi o tipologie di attività, che, se fossero riferite ad altri caratteri, sarebbero certamente tacciate d’invalidità.

L’art. 6, n. 1, della direttiva, in particolare, stabilisce che le disparità di trattamento in ragione dell’età, da parte degli Stati membri, “laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale..”.

La dottrina e la giurisprudenza hanno nel tempo delimitato gli spazi di queste eccezioni. In realtà, si è detto che, nella sua “formulazione alquanto ridondante”, l’art. 6, n. 1, vorrebbe solo fissare “i requisiti generali, riconosciuti nel diritto dell’Unione, concernenti la giustificazione di una disparità di trattamento”; pertanto, secondo l’interpretazione della giurisprudenza europea, la discriminazione diretta in ragione dell’età è ammessa solo se “la relativa misura si fondi su una finalità legittima e regga ad un esame della proporzionalità” *conclusioni del 6.5.2010 dell’Avv. Generale Kokott nella causa c-499/08, Ole Andersen].

La verifica di legittimità così richiesta passa attraverso tre momenti di controllo, diretti ad accertare: 1) se l’applicazione del criterio dell’età determini una disparità di trattamento tra situazioni giuridiche comparabili; 2) se tale disparità sia giustificata da un’obiettiva finalità legittima; 3) se la disparità sia adeguata e necessaria a perseguire questa finalità [cfr. Corte giust. UE, 5 marzo 2009, c-388/2007, Age Concern England; 18 giugno 2009, c-88/2008, Hutter; 13 settembre 2011, c- 477/2009, Progge e altri].

Si può ritenere che, nel caso di specie, la scelta aziendale di licenziarla abbia certamente discriminato la ricorrente rispetto agli altri lavoratori che, per ragioni di età, hanno invece conservato il posto di lavoro nella stessa azienda.

Secondo il percorso di verifica appena delineato, si deve secondariamente valutare se l’applicazione della norma dell’art. 4, secondo comma, l. 108/90, data così dalla convenuta, risponda a finalità legittime. Occorre in proposito ricordare che queste devono presentare “un carattere di interesse generale, le quali si distinguono dai motivi puramente individuali propri della situazione del datore di lavoro, come la riduzione dei costi o il miglioramento della competitività” *Corte giust., 5 marzo 2009, c.388/2007, The incorporated trustees of the National council for againg, e 21 luglio 2011, nelle cause riunite c-159 e c-160/10, Fuchs più uno].

Orbene, nell’attuale contingenza economica il nostro legislatore è mosso dall’interesse preminente al contenimento della spesa pubblica e dei costi di previdenza obbligatoria. Gli interventi normativi in materia di età pensionabile, sono stati orientati nell’epoca più recente da una tendenza all’avanzamento e, contestualmente, alla parificazione di genere uomo/donna. Perciò un’interpretazione della norma dell’art. 4 l. 108/90 favorevole ad una recedibilità priva di vincoli si porrebbe nell’esclusivo o preminente interesse dell’impresa, la quale potrebbe avvalersi del criterio dell’età per selezionare il personale e compiere le proprie scelte di assetto dell’organico.

La disparità di trattamento realizzata nei confronti della ricorrente deve dunque ritenersi ingiustificata, poiché compiuta avvalendosi d’una disposizione di legge in modo non rispondente a finalità d’interesse generale e, dunque, legittime.

In un caso quale quello esaminato, il recesso della convenuta, per essere legittimo, non avrebbe dovuto fondarsi esclusivamente sulla motivazione del’età anagrafica. Questa soluzione è altresì coerente col carattere eccezionale delle ipotesi di licenziamento privo di giustificazione, quale è ormai da ricavarsi anche in base all’art. 30 della Carta dei diritti dell’Unione.

Di conseguenza, il licenziamento della ricorrente deve dichiararsi nullo, con le conseguenze previste dall’art. 18 l. 300/70 nel testo ancora vigente alla data in cui vi è stata l’intimazione.

La convenuta deve dunque essere condannata a reintegrarla nel posto di lavoro ed a risarcirla del danno commisurato a quanto previsto dal quarto comma dell’art. 18 stesso. Sulle somme così dovute vanno applicati rivalutazione monetaria e interessi legali, a seguito della sentenza del 23 ottobre 2000, n. 459, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 22 comma trentasei l. 724/94. Gli interessi devono calcolarsi sul capitale rivalutato annualmente, secondo il più recente orientamento della Corte Suprema [Cass., sez. un., 29 gennaio 2001, n. 38].

La convenuta ha eccepito, per il caso di accoglimento della domanda avversaria, il diritto a compensare parzialmente il debito risarcitorio col credito relativo al TFR già corrisposto.

L’eccezione è fondata, poiché non compete alla ricorrente l’emolumento previsto per il caso in cui il rapporto di lavoro sia cessato. La convenuta è pertanto legittimata a recuperare quanto già corrisposto a quel titolo.

La stessa parte non ha contestato l’ulteriore credito fatto valere in causa dalla ricorrente nell’importo di € 74,80, trattenuto indebitamente in corso di rapporto per una giornata di sciopero cui, in realtà, non avrebbe aderito. L’azienda ha anzi correttamente riconosciuto nella memoria di costituzione l’erroneità della trattenuta.

La sua condanna va pertanto estesa anche a quella somma, maggiorata degli accessori calcolati secondo i criteri dianzi indicati.

Il comportamento processuale della parte resistente e l’originalità della questione affrontata in tema di discriminazione giustificano la compensazione parziale dellespese di lite. La frazione residua, pari al 50%, va posta a suo carico e si liquida come da dispositivo.

P.Q.M.

Visto l’art. 429, primo comma, c.p.c., definitivamente pronunciando,

  1. a) dichiara nullo il licenziamento intimato alla ricorrente con lettera dell’11.10.2011 e conseguentemente dichiara tenuta e condanna la convenuta, in persona del legale rappresentante pro-tempore, a reintegrarla nel posto di lavoro ed a corrisponderle, a risarcimento del danno, un’indennità pari alla retribuzione globale di fatto maturata dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva reintegra, con gli interessi legali, applicati sul capitale da rivalutarsi annualmente, dalle singole scadenze e fino al saldo;
  2. b) dichiara tenuta e conseguentemente condanna la convenuta a corrispondere alla ricorrente € 74,80, con gli interessi legali, applicati su questo importo capitale da rivalutarsi anno per anno, decorrenti dall’11.10.2011 e sino al saldo;
  3. c) condanna la convenuta a rifondere la ricorrente delle spese del giudizio nella misura del 50%, misura liquidata in complessivi € 2.750,00, oltre a IVA e cpa.

Riserva il deposito della motivazione entro il termine di giorni sessanta.

Genova, 4 ottobre 2012

IL GIUDICE