Licenziamento collettivo e Discriminazione per età, Corte d’Appello di Firenze, sentenza 6 settembre 2016

 

La Corte d’Appello di Firenze

Sezione Lavoro

composta dai magistrati

dott. Simonetta Liscio presidente

dott. Roberta Santoni Rugiu consigliera

dott.ssa Elisabetta Tarquini consigliera rel.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al N. RG. …. discussa all’udienza del 6.9.2016

pendente

tra ….

Avv. Cesare Pucci

e

U A s.p.a.

Avv.ti Giacinto Favalli, Paola Lonigro e Marina Ercoli

Avente ad oggetto: reclamo avverso la sentenza 409/2016 del Tribunale di Firenze giudice del lavoro, pubblicata il 3.5.2016

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

A R, odierno reclamante, è stato licenziato da U As.p.a. con lettera datata 26.5.2015, al termine di una procedura di licenziamento collettivo, avviata dalla società con comunicazione ex artt. 4 e 24 della L. 223/1991 il 4.3.2015, nella quale la reclamata, dopo avere riferito di una condizione di eccedenza di personale già coinvolgente il complesso aziendale in conseguenza della realizzazione di un progetto di integrazione societaria, e degli accordi sindacali precedentemente raggiunti e diretti, per quanto interessa, a promuovere forme di mobilità volontaria dei lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici, rappresentava la persistenza, pur in esito a dette procedure, di “esigenze tecniche, organizzative e produttive riferite alle unità organizzative dei Centri di liquidazione sinistri” ubicati in diverse sedi nominativamente indicate, esigenze che assumeva tali da determinare esuberi tra il personale preposto alle attività di liquidazione sinistri, tra i responsabili della liquidazione territoriale e tra i dipendenti addetti all’attività amministrativa sinistri, per un totale di 53 unità.

In particolare erano indicati come eccedenti nella tabella allegata alla comunicazione de qua 15 dipendenti con mansioni di profilo “amministrativo sinistri”, 4 con funzioni di “responsabili liquidazione territoriale” e 34 “liquidatori sinistri”.

 

La procedura ex lege 223/1991 si concludeva con accordo 16.4.2015 (sottoscritto solo da una delle sigle sindacali presenti in azienda, della cui rappresentatività non vi è comunque questione) nel quale le parti collettive convenivano di “identificare i lavoratori in esubero – a prescindere dalla sede di lavoro, dalla collocazione aziendale e dal profilo professionale – nel personale non dirigente di ogni ordine e grado in servizio presso UnipolSai che – dai dati a disposizione della Società – sia già in possesso oppure maturi entro il 30 giugno 2015 i requisiti di legge per avere diritto alla pensione anticipata o di vecchiaia, anche se abbia diritto al mantenimento in servizio, con esclusione di coloro che avrebbero un trattamento pensionistico inferiore a € 1.500,00 netti mensili per 13 mensilità, del personale disabile occupato obbligatoriamente ai sensi delle disposizioni di legge e di coloro che abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia con meno di 35 anni di contribuzione alla data del 30 giugno 2015”.

In effetto la società procedeva a 25 licenziamenti.

E’ pacifico che il reclamante sia stato incluso tra i licenziandi in applicazione del criterio di scelta appena detto, né vi è questione in ordine alla circostanza che egli avesse titolo per l’accesso a pensione e che non rientrasse nelle ipotesi eccettive previste dall’accordo gestionale.

Il lavoratore ha impugnato il provvedimento espulsivo di fronte al Tribunale di Firenze censurandone la legittimità sotto due profili (correttamente riassunti a pag. 2 del reclamo):

1) in ragione della dedotta inesistenza di qualsiasi nesso di pertinenza tra l’oggetto della comunicazione di avvio della procedura (che avrebbe fatto riferimento a una condizione di eccedenza di personale circoscritta ad alcuni centri liquidazione sinistri e a specificate posizioni professionali) e l’oggetto dell’accordo sindacale conclusivo della procedura medesima, nel quale invece gli esuberi erano individuati in tutti i lavoratori aventi determinati requisiti contributivi indipendentemente da ruoli e mansioni;

2) assumendo ”l’effetto discriminatorio” (così testualmente il reclamo) che il criterio dell’anzianità avrebbe prodotto nella specie, in quanto utilizzato, non per selezionare i licenziandi nell’ambito di posizioni professionali eccedenti previamente individuate in relazione alle esigenze produttive aziendali, ma immediatamente per delimitare l’area dell’eccedenza di personale. Nella specie poi un tale criterio sarebbe valso anche ad espellere lavoratori sindacalizzati e in gran parte aderenti (come Casini) alle sigle sindacali dissenzienti in ordine alla gestione della procedura di licenziamento collettivo e che non ne avevano sottoscritto l’accordo conclusivo.

Il primo giudice in sede sommaria ha condiviso la prospettazione attrice quanto alla prima delle due censure, ritenendo che l’accordo conclusivo della procedura fosse effettivamente del tutto scollegato rispetto al piano di ristrutturazione individuato dalla società con la comunicazione iniziale del procedimento e che il difetto di un qualsiasi nesso di pertinenza tra i due atti costituisse violazione delle garanzie apprestate dall’art. 4 della L. 223/1991.

Secondo il giudice della fase sommaria infatti la comunicazione di avvio della procedura, individuando i soggetti interessati alla dichiarata eccedenza di personale, delimiterebbe altresì l’ambito della procedura medesima, giacché è sulla possibilità di reimpiego del personale in esubero come individuato dalla comunicazione iniziale che, secondo il comma 5 dell’art. 4, deve svolgersi l’interlocuzione con le organizzazioni dei lavoratori. Così che, per quanto il contenuto della comunicazione non sia immutabile, “il punto di riferimento” del contraddittorio tra le parti collettive sarebbe comunque costituito dalle “ragioni tecniche produttive e organizzative di cui all’art. 5 della L. 223/1991” (come previamente individuate dal datore di lavoro), “con le quali ogni variazione deve essere razionalmente coerente” (così la decisione della fase sommaria pag. 3).

Nella specie in contrario, a fronte di una situazione di dichiarata eccedenza di personale concentrata in uno specifico settore dell’azienda e coinvolgente specificate figure professionali, l’accordo conclusivo della procedura avrebbe consentito inammissibilmente l’espulsione dei lavoratori sulla base di un criterio trasversale del tutto indipendente dai profili professionali e settori di appartenenza.

Il Tribunale ha infine qualificato procedurale la ritenuta violazione e riconosciuto al lavoratore, ex art. 5 comma 3 della L. 223/1991 (come modificato dall’art. 1 comma 46 della L. 92/2012) l’indennità risarcitoria nella misura di 16 mensilità.

Il giudice dell’opposizione, adito da U, è andato di contrario avviso e con la decisione impugnata ha ritenuto:

  1. a) in primis che vi fosse la lamentata discrasia tra contenuto della comunicazione di avvio del procedimento e oggetto dell’accordo gestionale conclusivo, in quanto la comunicazione avrebbe riferito la situazione di eccedenza di personale all’intera struttura aziendale;
  2. b) comunque sarebbe stata legittima, in accordo con la giurisprudenza di legittimità, la determinazione delle parti stipulanti l’accordo 16.4.2015 di applicare il criterio unico di accesso al pensionamento in relazione all’intero complesso aziendale;
  3. c) non vi sarebbe in atti alcun elemento di fatto per ritenere utilizzato un tale legittimo criterio per discriminare i lavoratori anziani e/o gli iscritti alle sigle sindacali dissenzienti. Da un lato infatti i licenziamenti avrebbero riguardato anche lavoratori iscritti ad altri sindacati o non iscritti ad alcuna sigla, dall’altra, pur avendo la società effettivamente programmato future assunzioni, esse avrebbero riguardato competenze ad alta specializzazione non altrimenti reperibili, così che una simile determinazione non sarebbe stata indicativa della volontà di espellere dall’organizzazione aziendale i lavoratori anziani in quanto tali.

 

Il lavoratore soccombente ha reclamato la decisione de qua davanti a questa Corte assumendone l’erroneità in fatto nella parte in cui essa afferma l’esistenza nella specie di un nesso di pertinenza tra la comunicazione di avvio della procedura e l’accordo conclusivo della stessa, e ribadendo per il resto le difese già svolte di fronte al Tribunale, in ordine alla necessaria relazione, secondo la disciplina della L. 223/1991, tra oggetto della preventiva comunicazione ed eventuale successivo accordo di gestione della procedura di licenziamento collettivo, nonché quanto all’effetto discriminatorio in fatto determinato dall’adozione del criterio dell’accesso a pensione se utilizzato per l’individuazione della platea degli esuberi, come sarebbe avvenuto nella specie.

Il reclamante ha concluso per la declaratoria di illegittimità del recesso, in tesi (e quindi ove qualificata l’invalidità come nullità) con le conseguenze reintegratorie e risarcitorie di cui ai primi due commi dell’art. 18 della L. 300/1970 (come modificato dalla L. 92/2012), in via gradata con reintegrazione e indennizzo ridotto (in caso di ritenuta violazione dei criteri di scelta) e in ulteriore ipotesi con condanna della società al pagamento del solo indennizzo.

La società ha resistito, argomentando innanzi tutto l’inammissibilità del primo motivo di reclamo.

Secondo la sua prospettazione la controparte infatti non avrebbe rettamente inteso il contenuto della pronuncia impugnata sul punto di interesse giacché il Tribunale non avrebbe affatto affermato la necessità di un nesso di pertinenza tra comunicazione di avvio della procedura ex lege 223/1991 e accordo conclusivo della stessa (per ritenere poi in fatto nella specie esistente un tale nesso), ma avrebbe in contrario mostrato di aderire alla giurisprudenza di legittimità favorevole all’applicazione del criterio unico dell’accesso a pensione con riferimento all’intero complesso aziendale e non ai soli settori interessati dalla crisi.

E poiché un tale argomento (asseritamente assorbente rispetto alle osservazioni di fatto riportate in sentenza) non avrebbe formato oggetto di censura, il motivo di reclamo sarebbe irrilevante, in quanto in ogni caso inidoneo a superare la statuizione della sentenza gravata.

Il motivo sarebbe comunque infondato, sia in quanto il Tribunale avrebbe esattamente interpretato il contenuto della comunicazione di avvio della procedura, sia comunque perché non si darebbe alcun necessario collegamento tra posizioni in esubero dichiarate nella lettera di apertura di una procedura ex lege 223/1991 e ambito di applicazione dei criteri legali e convenzionali di scelta dei licenziandi.

Del pari infondato sarebbe il secondo motivo, poiché il possesso dei requisiti pensionistici non integrerebbe alcuno dei fattori di discriminazione previsti dalla legge, mentre il criterio di selezione della prossimità al pensionamento sarebbe stato costantemente ritenuto legittimo dalla giurisprudenza di legittimità.

Infine gli elementi di fatto assunti dal lavoratore come indizianti della 5

 

discriminatorietà del recesso (quali la determinazione dell’azienda di procedere a nuove assunzioni o la presenza tra licenziati di numerosi sindacalisti) sarebbero del tutto irrilevanti, come correttamente argomentato dal giudice dell’opposizione con affermazioni non specificamente censurate dal reclamante.

In ogni caso la contestata discriminatorietà del recesso sarebbe esclusa dalla concorrenza di un certo motivo lecito (l’esistenza pacifica degli esuberi).

La resistente ha quindi concluso in tesi per il rigetto del reclamo ed in ipotesi comunque della domanda di reintegra. In via ulteriormente gradata, e quindi per il caso di reintegrazione, ha chiesto detrarsi dal risarcimento in ipotesi riconosciuto a Casini l’aliunde perceptum e percipiendum.

Così riassunta la presente vicenda processuale e le ragioni delle parti, il collegio ritiene in primo luogo che non si dia alcuna inammissibilità dei motivi di reclamo.

Infatti dal contenuto complessivo dell’atto introduttivo del reclamante si rileva inequivocamente come la parte, non solo critichi le osservazioni in punto di fatto del Tribunale, relative alla dedotta esistenza nella specie di una relazione tra l’ambito degli esuberi rappresentato nella comunicazione di avvio della procedura ex lege 223/1991 e quello identificato dalle parti nell’accordo conclusivo, ma più radicalmente censuri la legittimità del criterio di scelta dei licenziandi come adottato nella specie. E sul punto il reclamante assume con chiarezza di ritenere necessario, al fine di garantire la trasparenza, e quindi la legittimità della procedura ex lege 223/1991, l’esistenza di un “rapporto di pertinenza” tra contenuto della comunicazione di avvio del procedimento e accordo conclusivo, pertinenza che il Tribunale afferma esistere in concreto nella specie, ma mostra di ritenere comunque non necessaria ai fini della legalità della procedura.

Così che le censure del reclamante si appuntano evidentemente, non solo sulle osservazioni in fatto dell’ultimo capoverso di pag. 4 della decisione, ma, contrariamente a quanto assume la reclamata, anche su quelle in diritto di pag. 5.

Tutti gli argomenti del reclamante devono quindi essere esaminati nel merito.

E nel merito la Corte non condivide la lettura data dal giudice dell’opposizione della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo di cui è causa, quanto all’individuazione dell’area degli esuberi.

Infatti è indubitabile che ivi la società ripercorra le vicende successive alla fusione tra Unipol e Sai, assumendo l’esistenza, in esito a quella integrazione societaria, di una consistente eccedenza di personale nell’intera struttura aziendale, alla cui riduzione sarebbero stati finalizzati gli accordi sindacali (anch’essi separati come quello che qui rileva) denominati “Accordo di fusione” del dicembre 2013-gennaio 2014 e Integrazione dell’Accordo sindacale di Fusione, sottoscritto il 29.12.2014, che prevedevano, per quanto interessa, un piano di mobilità volontaria diretto ai lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici (o che li acquisissero entro date predeterminate).

Non di meno è un fatto che in quella stessa comunicazione la reclamata, dopo 6

 

avere affermato l’insufficienza delle procedure di esodo volontario a eliminare integralmente gli esuberi giacché sarebbero risultati ancora in servizio 53 lavoratori aventi i requisiti per l’adesione al piano di esodo volontario e che non avevano inteso aderirvi, affermi poi come eccedenti in effetto appunto 53 posizioni lavorative, ma concentrate in uno specifico settore aziendale, in alcune nominate sedi e in alcuni profili professionali, espressamente motivando l’impossibilità di reimpiego limitatamente a tale personale.

Così che una piana lettura del contenuto della comunicazione impone di ritenere che la società, a fronte dell’insufficienza del piano di mobilità volontaria a ridurre l’organico nella misura desiderata, si sia determinata a pervenire alla dimensione occupazionale ritenuta ottimale a mezzo della soppressione di alcune specifiche posizioni lavorative collocate in un’area produttiva (la liquidazione sinistri) in cui si sarebbe data una consistente riduzione delle attività (in conseguenza della contrazione del numero dei sinistri denunciati) e nella quale inoltre sarebbero state possibili le maggiori economie di scala a mezzo dell’integrazione delle strutture organizzative delle due società oggetto della fusione

Così individuata la condizione di eccedenza, in contrario, come già detto, nell’accordo conclusivo della procedura i licenziandi sono identificati nei “lavoratori in esubero – a prescindere dalla sede di lavoro, dalla collocazione aziendale e dal profilo professionale – nel personale non dirigente di ogni ordine e grado in servizio presso UnipolSai che – dai dati a disposizione della Società – sia già in possesso oppure maturi entro il 30 giugno 2015 i requisiti di legge per avere diritto alla pensione anticipata o di vecchiaia, anche se abbia diritto al mantenimento in servizio, con esclusione di coloro che avrebbero un trattamento pensionistico inferiore a € 1.500,00 netti mensili per 13 mensilità, del personale disabile occupato obbligatoriamente ai sensi delle disposizioni di legge e di coloro che abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia con meno di 35 anni di contribuzione alla data del 30 giugno 2015”.

Gli esuberi sono quindi in concreto identificati sulla base di un criterio trasversale del tutto indifferente sia all’area di manifestazione (rectius di permanenza) dell’eccedenza di personale, sia ai profili professionali ritenuti superflui all’atto di avvio della procedura, mentre la reclamata neppure afferma (ed è certo da escludersi attesa la natura dell’attività aziendale) la completa fungibilità tra tutte le figure professionali impiegate nella sua organizzazione di impresa.

Ciò posto in fatto, deve allora valutarsi se, a fronte di una situazione di eccedenza così identificata, la scelta dei licenziandi sulla base di un criterio convenzionale del tutto indipendente dalla collocazione e dal profilo professionale dei lavoratori interessati risponda alle garanzie procedimentali imposte dalla L. 223/1991.

Ora come è noto l’art. 4 della L. 223/1991 dispone, per quanto interessa, che la comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo debba contenere “indicazione: dei motivi che determinano la situazione di eccedenza; dei motivi tecnici, organizzativi o produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, il licenziamento collettivo; del 7

 

numero, della collocazione aziendale e dei profili professionali del personale eccedente, nonché del personale abitualmente impiegato” e che “entro sette giorni dalla data del ricevimento della comunicazione …, a richiesta delle rappresentanze sindacali aziendali e delle rispettive associazioni si procede ad un esame congiunto tra le parti, allo scopo di esaminare le cause che hanno contribuito a determinare l’eccedenza del personale e le possibilità di utilizzazione diversa di tale personale, o di una sua parte, nell’ambito della stessa impresa, anche mediante contratti di solidarietà e forme flessibili di gestione del tempo di lavoro”.

La lettera della legge impone allora di ritenere (come correttamente aveva ritenuto il giudice della fase sommaria) che la situazione di esubero rappresentata nella comunicazione di avvio del procedimento delimiti l’oggetto dell’interlocuzione con le parti sindacali: in ordine a tale situazione deve svolgersi infatti “l’esame congiunto”, del personale eccedente, da essa individuato, deve valutarsi il reimpiego.

Il senso della disposizione non è all’evidenza quello di stabilire una relazione di statica corrispondenza tra contenuto della comunicazione e contenuto di un eventuale accordo conclusivo della procedura, e più specificamente tra area aziendale interessata dall’eccedenza di personale e ambito di applicazione dei criteri di scelta dei licenziandi.

Piuttosto la norma obbliga le parti a garantire una necessaria coerenza tra la situazione di eccedenza e la sua soluzione come rappresentata nell’accordo, giacché solo una tale coerenza, in un sistema in cui il controllo giudiziale di legittimità del licenziamento è limitato al rispetto della procedimentalizzazione di legge, assicura dell’effettività della relazione causale tra i singoli licenziamenti e la situazione di eccedenza rappresentata (per la natura del controllo giudiziale in materia di licenziamenti collettivi, da ultimo Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 03/07/2015, n. 13794).

In altri termini, limitato dalla legge il controllo giudiziale di legittimità dei licenziamenti collettivi alla verifica della regolarità della procedura di consultazione sindacale, è indispensabile che la procedura rappresenti in maniera trasparente l’intera sequenza compresa tra l’individuazione da parte del datore di lavoro della situazione di eccedenza e i licenziamenti.

Ciò che non si dà nel caso in cui, individuato l’ambito degli esuberi in una specifica area dell’azienda e quanto a determinati profili professionali, la scelta dei licenziandi avvenga in base ad un criterio convenzionale che prescinda completamente da quell’area e da quelle figure professionali e senza che si dia conto specificamente delle ragioni per cui il criterio medesimo consentirebbe una selezione idonea a eliminare la condizione di eccedenza rappresentata. In tal caso infatti risulta impossibile qualsiasi verifica effettiva della relazione tra la ragione produttiva o organizzativa posta dal datore di lavoro a fondamento della procedura e singoli licenziamenti, proprio in quanto una tale verifica (da parte dei lavoratori o di soggetti collettivi in ipotesi estranei all’accordo gestionale e poi dal giudice in caso di contestazione giudiziale dei provvedimenti espulsivi) non può farsi che per il tramite del controllo sulla necessaria procedimentalizzazione delle scelte datoriali.

Ne deriva, per converso, che non sussiste alcuna meccanica corrispondenza tra 8

 

area della crisi (o comunque dell’esigenza produttiva e organizzativa) rappresentata nella comunicazione di avvio del procedimento e ambito di applicazione dei criteri di scelta, purché resti comunque esplicitata la relazione tra criterio di scelta, sua applicazione e situazione di eccedenza posta a fondamento della procedura.

Ciò che tipicamente potrebbe accadere in caso di applicazione trasversale di un criterio di scelta convenzionale quale l’accesso a pensione nel caso in cui dagli atti della procedura risulti formalizzata la fungibilità delle posizioni professionali eccedenti con altre (anche con tutte le altre) esistenti in azienda. Che è quanto risulta essersi dato nella fattispecie esaminata dalla Suprema Corte nella pronuncia 14170/2014, richiamata dalle parti, il cui decisum non può all’evidenza essere esaminato prescindendo dal caso in concreto sottoposto alla cognizione dei supremi giudici, non potendo ritenersene la pertinenza a fronte di una condizione di fatto, sul punto che interessa, del tutto diversa.

Facendo allora applicazione dei principi appena detti nella specie deve ribadirsi come, a fronte di una situazione di eccedenza riferita a una specificata area dell’azienda e ad alcune definite figure professionali, la selezione dei licenziandi sia avvenuta sulla base di un criterio convenzionale trasversale (l’accesso a pensione) esteso all’intera platea dei dipendenti non dirigenti e del quale non risulta formalizzata alcuna relazione con l’eccedenza rappresentata. Come già detto, infatti, non è neppure affermata la fungibilità delle posizioni professionali soppresse con quelle già ritenute eccedenti, né l’accordo gestionale esplicita altrimenti il nesso di pertinenza tra le eccedenze e le posizioni lavorative soppresse, limitandosi ad un generico riferimento alla necessità di ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti.

Una considerazione questa che, come si dirà più ampiamente oltre, giustifica l’applicazione del criterio come strumento di selezione tra più posizioni lavorative già assunte come eccedentarie, ma che nulla dice ex se in ordine al prius rappresentato dall’individuazione degli esuberi e quindi non vale a stabilire alcuna relazione causale tra crisi aziendale posta a fondamento della procedura e posizioni lavorative soppresse, a meno che gli esuberi siano riferiti all’intero ambito aziendale e a tutte le posizioni lavorative o queste ultime siano tra loro tutte fungibili, ciò che si è detto non essere avvenuto nella specie.

In contrario l’adozione di un simile criterio, già utilizzato ai fini della dell’accesso alle procedure di esodo volontario con esito solo parzialmente satisfattivo delle aspettative della società, offre un qualche fondamento alla deduzione del reclamante secondo cui ad esso si sarebbe fatto ricorso al fine di ottenere, a mezzo della procedura ex lege 223/1991, non la soppressione di astratte posizioni lavorative eccedentarie, ma l’espulsione di tutti o almeno di alcuni dei lavoratori aventi astrattamente titolo alla mobilità volontaria, ma che non avevano inteso accettarla.

Deve pertanto concludersi per l’illegittimità dei licenziamenti in conseguenza della violazione delle garanzie procedurali imposte dalla L. 223/1991, quanto alla necessaria coerenza del criterio di scelta convenzionale con la situazione di eccedenza 9

 

posta dalla società a fondamento della disposta mobilità, mentre nessun effetto sanante può attribuirsi all’accordo conclusivo della procedura, in quanto il vizio determinativo dell’illegalità della procedura attiene ad altro che alla comunicazione di avvio del procedimento medesimo, della cui esaustività non vi è alcuna questione.

Ciò detto deve apprezzarsi quali siano le conseguenze sanzionatorie della ritenuta violazione.

In proposito è noto come l’art. 3 comma 5 della L. 223/1991, come modificato dalla L. 92/2012, disponga che “qualora il licenziamento sia intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all’articolo 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni. In caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18. In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al quarto comma del medesimo articolo 18”, mentre l’applicazione della piena tutela reintegratoria e risarcitoria al licenziamento discriminatorio (quale che sia il motivo addotto e quindi evidentemente anche ove il recesso avvenga nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo) è affermata dai primi due commi del testo novellato dell’art. 18 L. 300/1970.

Nella specie deve escludersi, ad avviso della Corte, che si sia data una qualche violazione dei criteri di scelta. Il criterio convenzionale è stato infatti correttamente applicato, mentre il vizio della procedura si colloca piuttosto a monte della scelta in concreto attuata.

E’ certo in contrario che la violazione attenga alla procedura di cui all’art. 4 della L. 223/1991.

Deve tuttavia valutarsi se al detto profilo formale di lesione (che darebbe ingresso alla sola tutela risarcitoria, riconosciuta infatti dal giudice dell’opposizione) non si accompagni un pregiudizio sostanziale a posizioni giuridiche tutelate dal divieto di discriminazione, come assume in tesi il reclamante, individuando i fattori protetti nell’età e, seppure con argomentazione più concisa, nell’affiliazione sindacale.

Ora quanto all’età, è ben noto l’orientamento della Suprema Corte che ritiene non discriminatorio il criterio di selezione dei licenziandi fondato sull’accesso a pensione.

Quell’indirizzo consolidato deve essere tuttavia rettamente inteso.

Si legge infatti nella motivazione di Cass. 26.4.2011, n. 9348 richiamata anche dalla difesa della reclamata e tra le molte adesive al citato orientamento, che: “in primo luogo, il criterio concordato tra l’azienda e le organizzazioni sindacali non è basato sull’età in sé, ma sulla presenza dei requisiti per andare in pensione. Non è affatto detto che i lavoratori così individuati siano i più anziani. Possono aversi casi di lavoratori più anziani di età, che a causa della loro storia lavorativa non presentano i requisiti per andare in pensione, che invece hanno lavoratori meno anziani di loro.

In secondo luogo, una volta accertato che sussisteva la necessità di licenziare parte dei lavoratori, la scelta, condivisa dai sindacati, di individuare i lavoratori da licenziare in coloro che avevano i requisiti per passare dal lavoro alla pensione, mantenendo in servizio coloro che 10

 

invece sarebbero passati dal lavoro alla disoccupazione rimanendo privi di fonti di reddito, è una scelta di cui è difficile negare la ragionevolezza”.

La Corte di nomofilachia, quindi, nel primo passaggio della sua motivazione esclude senz’altro che il criterio di scelta dei licenziandi fondato sull’accesso a pensione realizzi una discriminazione diretta per ragioni di età (intesa la discriminazione diretta, secondo la previsione dell’art. 2 del D.L.vo 216/2003, come la condizione per cui “per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”).

Si tratta di una conclusione all’evidenza del tutto condivisibile giacché l’età non è affatto il criterio discretivo per la selezione quando essa avvenga in relazione al possesso dei requisiti pensionistici, dipendendo l’accesso a pensione anche da altri fattori (la storia lavorativa, il genere, talune particolari condizioni di salute ecc.).

Tuttavia è difficile negare che, ove si selezionino i licenziandi a mezzo del criterio della titolarità dei requisiti pensionistici, le possibilità dei dipendenti di rientrare nel novero degli esuberi crescano con il crescere dell’età: in altri termini il criterio dell’accesso a pensione è idoneo a porre i lavoratori anziani in una condizione di particolare svantaggio rispetto alla generalità dei dipendenti, giacché l’età è uno dei requisiti di accesso a pensione.

Ora, secondo la direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (attuata nel nostro ordinamento dal già citato D.Lvo 216/ 2003) si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di un genere, di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno chetale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari(in particolare il testo della norma di trasposizione definisce la discriminazioneindiretta nei seguenti termini: “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”, mentre dispone quanto alle cause di giustificazione testualmente come segue: “Nel rispetto dei princìpi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia legittima, nell’àmbito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello 11

 

svolgimento dell’attività medesima”).

Ne deriva che il criterio dell’accesso a pensione come strumento di selezione dei licenziandi può essere (e anzi è generalmente) un criterio idoneo a porre il gruppo dei lavoratori anziani in condizione di particolare svantaggio, ma ciò non ne implica ex se l’illiceità, giacché, facendosi questione di discriminazione indiretta, esso può trovare giustificazione in una finalità legittima.

Ed è quanto assume la Suprema Corte nella citata motivazione: per quanto possa essere (più) svantaggioso per i lavoratori anziani un tale criterio, esso è comunque ragionevole (e quindi giustificato) dalla finalità, senz’altro legittima, di ridurre l’impatto sociale di provvedimenti espulsivi, consentendo “una volta accertato che sussisteva la necessità di licenziare parte dei lavoratori” di “individuare i lavoratori da licenziare in coloro che avevano i requisiti per passare dal lavoro alla pensione, mantenendo in servizio coloro che invece sarebbero passati dal lavoro alla disoccupazione rimanendo privi di fonti di reddito”.

Si tratta di una conclusione che questo collegio convintamente condivide, così che non può dubitarsi della legittimità del criterio di scelta dell’accesso a pensione quando esso serva alla selezione tra più posizione lavorative giudicate eccedenti.

Nella specie tuttavia si è detto come la concreta formalizzazione della procedura impedisca di ritenere l’esistenza di una relazione causale tra eccedenza rappresentata e singoli licenziamenti, poiché il criterio dell’accesso a pensione è stato esteso anche a posizioni lavorative delle quali non risulta la relazione con l’eccedenza dichiarata (perché l’eccedenza non è stata riferita all’intera azienda, perché le posizioni lavorative non risultano tutte tra loro fungibili e in particolare fungibili con quelle originariamente dichiarate in esubero).

In altri termini nella specie il criterio dell’accesso a pensione è stato utilizzato, come correttamente argomentato dalla difesa del reclamante, non per scegliere i licenziandi tra più posizioni già individuate come eccedenti, ma ex se per delimitare l’area degli esuberi senza alcuna relazione formalizzata (che è quanto rileva) con la situazione produttiva e organizzativa di eccedenza.

In questo caso allora la violazione formale della procedura (l’assenza di un nesso di pertinenza tra eccedenza rappresentata e criterio di scelta adottato) si traduce sul piano sostanziale in una situazione di particolare svantaggio per i lavoratori anziani, che non trova giustificazione nella necessità di scegliere tra loro e altri lavoratori, tutti comunque potenzialmente destinatari dei provvedimenti espulsivi, in quanto tutti eccedentari.

L’adozione nei detti termini del criterio convenzionale in forza del quale il reclamante è stato licenziato determina allora, oltre alla violazione della procedura ex lege 223/1991, anche una lesione del principio paritario, una lesione che l’ordinamento sanzione con la nullità del licenziamento indipendentemente dall’intento soggettivo dell’agente (per il carattere funzionale e obiettivo dei divieti di discriminazione da ultimo cfr. Cass. 6575/2016). 12

 

Il giudizio deve quindi chiudersi con la declaratoria di tale nullità e la società deve essere condannata a reintegrare il reclamante nel posto di lavoro e a corrispondergli l’indennità risarcitoria di legge a norma dei primi due commi del nuovo testo dell’art. 18 della L. 300/1970 e quindi nella misura di tutte le mensilità della retribuzione globale di fatto che egli avrebbe maturato dal licenziamento alla reintegra.

Resta assorbita ogni altra difesa del reclamente quanto alla dedotta discriminazione per ragioni di affiliazione sindacale.

Poiché non vi è questione in ordine alla circostanza che il lavoratore abbia acquisito il diritto a pensione entro il 30.6.2015 e quindi immediatamente dopo il licenziamento (tale infatti è la ragione dell’inclusione di Corsini nel novero dei licenziandi), non vi è luogo ad alcuna indagine in ordine all’esistenza di somme da lui percepite aliunde a titolo di reddito da lavoro nel periodo successivo al licenziamento e che debbano essere detratte dal dovuto risarcimento.

Le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio devono seguire la soccombenza, nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, definitivamente decidendo ogni altra domanda ed eccezione disattesa, in riforma della sentenza impugnata, dichiara la nullità del licenziamento di cui è causa e condanna UnipolSai Assicurazioni s.p.a. a reintegrare Casini Alessandro nel posto di lavoro e a corrispondergli il risarcimento del danno nelle misura di tante mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto quante ne decorrono dal licenziamento alla reintegra, maggiorato il dovuto di rivalutazione monetaria e interessi legali (calcolati gli interessi sul capitale mensilmente rivalutato) dalle singole scadenze a decorrere dalla data del licenziamento e fino al saldo.

Condanna la società alla regolarizzazione della posizione previdenziale del reclamante.

Condanna la società reclamata alla rifusione delle spese di entrambi i gradi giudizio che liquida in complessivi € 8.343,00 per compenso di avvocato ex DM 55/2014, oltre rimborso forfettario, IVA e CAP, come per legge

Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del 6.9.2016 La Presidente

Dott. Simonetta Liscio

La Consigliera est.

Dott. Elisabetta Tarquini