Discriminazione per età, Corte di Cassazione, sentenza 21 febbraio 2018

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –
Dott. BRONZINI Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28369/2014 proposto da:

A.F SRL., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DI VILLA MASSIMO 57, presso lo studio dell’avvocato GUIDO BROCCHIERI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANFRANCO DI GARBO, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI PIETRALATA 320-D, presso lo studio dell’avvocato GIGLIOLA MAZZA RICCI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALBERTO GUARISO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 406/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 03/07/2014 R.G.N. 1044/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/11/2017 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE BRONZINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato GAETANO IORIO per delega verbale di GIANFRANCO DI GARBO;
udito l’Avvocato ALBERTO GUARISO.

Svolgimento del processo

 1.Così sono stati riassunti i fatti di causa nell’ordinanza pregiudiziale di questa Corte del 29.2.2016 (n. 3982/2016) che si riporta testualmente:
“la Corte di Appello di Milano, riformando l’ordinanza del Tribunale di Milano che aveva dichiarato improponibile il ricorso proposto, D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 28, e art. 702 bis c.p.c., da B.A. nei confronti A.F srl con il quale si deduceva l’illegittimità per discriminazione in ragione dell’età del contratto di lavoro intermittente a tempo determinato stipulato in data 14 dicembre 2010 e convertito a tempo indeterminato in data 10 gennaio 2012 e del relativo licenziamento intimatogli al raggiungimento del venticinquesimo anno di età avvenuto il 26 luglio 2012, accoglieva la domanda condannando, ritenuta la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, la predetta società a riammettere il lavoratore nel posto di lavoro ed a pagargli il risarcimento del danno;

a base del decisum la Corte del merito poneva, innanzitutto, il rilievo secondo il quale lo speciale procedimento previsto per le controversie in materia di discriminazione dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, non era stato abrogato dal c.d. rito Fornero di cui alla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 48 e segg., per l’accertamento della legittimità del recesso datoriale, sicchè correttamente il lavoratore aveva azionato la domanda giudiziale secondo il citato D.Lgs. n. 150 del 2011, predetto art. 28, tanto più che, nella specie,sottolineava la Corte del merito, il richiamo, nella domanda, alla L. n. 300 del 1970, art. 18, era strumentale alla invocata cessazione del comportamento discriminatorio;

nel merito, la Corte distrettuale, riteneva che il contratto di lavoro intermittente concluso, in base al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, comma 2, con il B. ed il licenziamento intimatogli in relazione del raggiungimento del venticinquesimo anno di età erano contrari al principio di non discriminazione dell’età di cui alla direttiva 2000/78 CE in quanto la disciplina di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, detto art. 34, “trovava fondamento esclusivamente sull’età senza alcuna altra specificazione non essendo richiamata alcuna ulteriore condizione soggettiva del lavoratore e non avendo esplicitamente finalizzato tale scelta ad alcun obiettivo individuabile”. Conseguentemente, secondo la Corte di appello, il contratto di lavoro intermittente concluso in esclusiva ragione dell’età, era illegittimo ed il rapporto di lavoro doveva considerasi a tempo indeterminato con orario part – time e, non essendosi detto rapporto risolto validamente, la società andava condannata a riammettere il lavoratore nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno nella misura della retribuzione – da agosto 2012 alla data della sentenza – calcolata secondo la media mensile percepita nel corso del rapporto di lavoro;

avverso questa sentenza la società ricorre in cassazione sulla base di tre censure, illustrate da memoria, cui si oppone con controricorso la parte intimata.
Con la prima censura la società, deducendo violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, nonchè degli artt. 702 bis e 702 quater c.p.c., prospetta che la Corte del merito ha erroneamente ritenuto che la natura discriminatoria del licenziamento potesse essere azionata D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 28, e non con il procedimento di cui alla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 48 e segg.;
con il secondo motivo la società, denunciando violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, comma 2, della Direttiva 2000/78/CE, nonchè del principio generale di diritto comunitario inerente il divieto di discriminazione in ragione dell’età e violazione del principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno, sostiene che ha errato la Corte del merito nel ritenere violato il principio di non discriminazione perchè, nella specie, si tratta di una legge che favorisce i lavoratori in ragione della loro età e non viceversa e il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, comma 2, è sovrapponibile alla Direttiva 2000/78/CE; chiede, poi, la società sotto i diversi profili denunciati che la questione sia rimessa alla Corte di giustizia;
con la terza censura critica la società, allegando violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, comma 2, assume che la invalidità del contratto di lavoro intermittente o a chiamata può essere sanzionata con il risarcimento del danno e non con la conversione del rapporto a tempo indeterminato e che comunque il danno liquidato non può essere equiparato alla media delle retribuzioni corrisposte; la società, poi, richiama i motivi già proposti avanti la Corte di appello e non presi in considerazione”.
La Corte di cassazione rilevava ancora “considerato che:

secondo giurisprudenza costante di questa Corte l’inesattezza del rito non determina di per sè l’inesistenza o la nullità della sentenza, ma assume rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi, non ricorrente nel caso di specie, in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. 18 luglio 2008 n.19942, Cass. S.U. 10 febbraio 2009 n.3758, Cass.22 ottobre 2014 n.22325 e Cass. 27 gennaio 2015 n.1448);

il contratto di lavoro intercorso tra le parti in causa è stato stipulato ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, comma 2, che, all’epoca dei fatti, prevedeva la possibilità che il contratto di lavoro intermittente potesse essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età;

il B. assunto quando ancora non aveva compiuto il venticinquesimo anno di età veniva, successivamente, licenziato in ragione esclusiva del compimento di detta età; il D.Lgs. n.276 del 2003, di “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14 febbraio 2003, n. 30”, all’art. 34, nella formulazione applicabile alla data di assunzione, dopo aver sancito, al primo comma, “il contratto di lavoro intermittente può essere concluso per Io svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno ai sensi dell’art. 37”, prevedeva, al comma 2, che “il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età ovvero da lavoratori con più di quarantacinque anni di età, anche pensionati”;

alla data del licenziamento il predetto art. 34, comma 2, stabiliva che “il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con più di cinquantacinque anni di età e con soggetti con meno di ventiquattro anni di età, fermo restando in tale caso che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età”;

il richiamato D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, comma 2, potrebbe porsi, stante lo specifico e caratterizzante riferimento all’età, in conflitto con il principio di non discriminazione in base all’età che deve essere considerato (Cfr. sentenza 19 gennaio 2010, causa C-555/07 Kucukdeveci, punto 21) un principio generale del diritto dell’Unione (V., sentenza 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold) cui la Direttiva 2000/78 dà espressione concreta (V. sentenza 8 aprile 1976, causa 43/75, Defrenne, Racc. pag. 455, punto 54);

la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la quale secondo l’art. 6, n. 1, TUE ha lo stesso valore giuridico dei trattati, all’art. 21, n. 1 vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, (…)sull’età (in tal senso V. sentenza 19 gennaio 2010, causa C-555/07 Kucukdeveci, cit. punto 22);

l’art. 6, n. 1, comma 1, della predetta Direttiva 2000/78 enuncia che una disparità di trattamento in base all’età non costituisce discriminazione laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari (così sentenza 19 gennaio 2010, causa C555/07 Kucukdeveci, cit. punto 33);

nella specie la formulazione dell’allora vigente, D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 276 del 2003, di “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14 febbraio 2003, n. 30″, (ora trasfuso, con modificazioni, e previa abrogazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, detti artt. 33 e 34, nel D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 13, comma 2) mostra di non contenere alcuna esplicita ragione rilevante ai sensi dell’art. 6, n. 1, comma 1, della citata Direttiva 2000/78; questa Corte di legittimità ritiene, con riferimento alla disposizione nazionale di cui in narrativa, di sollevare, ex art. 267, TFUE, questione pregiudiziale sull’interpretazione del principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente dalla direttiva 2000/78 e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 21, n. 1)”.
Pertanto la Corte di cassazione disponeva “ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea di chiedere, in via pregiudiziale, alla Corte di giustizia dell’Unione Europea se la normativa nazionale di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, secondo la quale il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età, sia contraria al principio di non discriminazione in base all’età, di cui alla Direttiva 2000/78 e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 21, n. 1)” e sospendeva il presente giudizio sino alla definizione delle suddetta questione pregiudiziale”.

2.Con sentenza del 19 Luglio 2017 (C-143/2016) la Corte di giustizia riteneva che “l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nonchè l’art. 2, paragrafo 1, l’art. 2, paragrafo 2, lettera a), e l’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, giacchè tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari”: veniva conseguentemente fissata la presente udienza di discussione. Le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

3.Il primo motivo va rigettato alla luce delle considerazioni già svolte nell’ordinanza interlocutoria e prima riportate testualmente che questo Collegio condivide in toto.
4. Il secondo motivo appare invece fondato e pertanto va accolto. Con il detto motivo si è dedotto l’errore della Corte di appello nel ritenere violato il principio di non discriminazione per età così come sancito dalla Direttiva 200/78/CE e dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: nella specie, si trattava di una legge che mirava a favorire i lavoratori in ragione della loro età e non viceversa e il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, comma 2, (nella formulazione vigente al momento del recesso) non violava la citata Direttiva (e l’art. 21 della Carta dei diritti) perchè la disparità di trattamento era giustificata da legittimi obiettivi di carattere sociale perseguiti con mezzi appropriati e necessari.

Sul punto, come detto, questa Corte ha disposto un rinvio pregiudiziale invitando la Corte a verificare se il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, (nella formulazione applicabile ratione temporis, disposizione poi superata) fosse contrario a quanto previsto dalla Direttiva del 2000 e dall’art. 21 della Carta (con specifico riferimento – all’art. 6, n. 1 della Direttiva – alle finalità di politica sociale come ragione di giustificazione di deroghe al principio di parità di trattamento): la Corte di giustizia, nella sentenza prima citata, ha offerto una risposta univoca e esaustiva ai quesiti formulati da questa Corte escludendo che le invocate norme di fonte UE ostino ad una disposizione nazionale come quella oggetto del procedimento principale “che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno…. giacchè tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari”.

La Corte in specifico ha rilevato che “l’art. 6, paragrafo 1, comma 1, della direttiva 2000/78 enuncia che gli stati membri possono prevedere che disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. Si deve ricordare che gli stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo (sentenza dell’il novembre 2014, Schmitzer, C-530/13, EU:C:2014:2359, punto 38 e giurisprudenza ivi citata).

Per quanto concerne la questione se la disposizione di cui al procedimento principale sia giustificata da una finalità legittima, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, risulta dalle osservazioni del governo italiano che tale disposizione si inserisce in un contesto normativo finalizzato a valorizzare la flessibilità nel mercato del lavoro, quale strumento per incrementare l’occupazione.

Per quanto concerne, in particolare, la categoria dei lavoratori di età inferiore ai 25 anni, emerge infatti dalle osservazioni del governo italiano che la facoltà accordata ai datori di lavoro di concludere un contratto di lavoro intermittente “in ogni caso” e di risolverlo quando il lavoratore di cui trattasi compia 25 anni di età ha l’obiettivo di favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro. Il governo italiano ha sottolineato che l’assenza di esperienza professionale, in un mercato del lavoro in difficoltà come quello italiano, è un fattore che penalizza i giovani.

Inoltre, la possibilità di entrare nel mondo del lavoro e di acquisire un’esperienza, anche se flessibile e limitata nel tempo, può costituire un trampolino verso nuove possibilità d’impiego.

In udienza, il governo italiano ha chiarito che l’obiettivo principale e specifico della disposizione controversa nel procedimento principale non è quello di consentire ai giovani un accesso al mercato del lavoro su base stabile, bensì unicamente di riconoscere loro una prima possibilità di accesso a detto mercato.

Si tratterebbe, con tale disposizione, di fornire loro una prima esperienza che possa successivamente metterli in una situazione di vantaggio concorrenziale sul mercato del lavoro. Pertanto, tale disposizione sarebbe relativa ad uno stadio precedente al pieno accesso al mercato del lavoro.

Si deve constatare che dette considerazioni legate all’accesso al mercato del lavoro e alla mobilità sono applicate ai giovani alla ricerca di un primo impiego, vale a dire ad una delle categorie di popolazione più esposte al rischio di esclusione sociale. In udienza, lo stesso sig. B. ha attirato l’attenzione sul fatto che il tasso di occupazione dei giovani – per giovani intendendosi coloro che rientrano nella fascia di età compresa tra i 15 e i 25 anni – è passato dal 51% al 39/0 negli anni compresi tra il 2004 e il 2016.

Va ricordato che, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, secondo comma, lettera a), della direttiva 2000/78, la disparità di trattamento può consistere nella “definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori più anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi”. Inoltre, va ricordato che la promozione delle assunzioni costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale e dell’occupazione degli Stati membri, in particolare quando si tratta di favorire l’accesso dei giovani all’esercizio di una professione (sentenza del 21 luglio 2011, Fuchs e Kohler, C-159/10 e C-160/10, EU:C:2011:508, punto 49 e giurisprudenza ivi citata). Allo stesso modo, la Corte ha dichiarato che l’obiettivo di favorire il collocamento dei giovani nel mercato del lavoro onde promuovere il loro inserimento professionale e assicurare la protezione degli stessi può essere ritenuto legittimo ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 (sentenza del 10 novembre 2016, de Lange, C-548/15, EU:C:2016:850, punto 27). In particolare, è stato anche dichiarato come rappresenti una finalità legittima l’agevolazione dell’assunzione di giovani lavoratori aumentando la flessibilità nella gestione del personale (v., in tal senso, sentenza del 19 gennaio 2010, Kucukdeveci, C-555/07, EU:C:2010:21, punti 35 e 36).

In tali circostanze, si deve constatare che la disposizione nazionale di cui al procedimento principale, avendo la finalità di favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro, persegue una finalità legittima, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78. Occorre pertanto esaminare se i mezzi adoperati per il conseguimento di siffatta finalità siano appropriati e necessari.

Per quanto concerne l’adeguatezza di una disposizione come quella di cui al procedimento principale, si deve rilevare che una misura che autorizza i datori di lavoro a concludere contratti di lavoro meno rigidi, tenuto conto dell’ampio potere discrezionale di cui godono gli Stati membri in materia, può essere considerata come idonea a ottenere una certa flessibilità sul mercato del lavoro. E’ immaginabile, infatti, che le aziende possano essere sollecitate dall’esistenza di uno strumento poco vincolante e meno costoso rispetto al contratto ordinario e, quindi, incentivate ad assorbire maggiormente la domanda d’impiego proveniente da giovani lavoratori.

Per quanto concerne il carattere necessario della disposizione di cui al procedimento principale, va osservato, come fa valere la Abercrombie, che, in un contesto di perdurante crisi economica e di crescita rallentata, la situazione di un lavoratore che abbia meno di 25 anni e che, grazie ad un contratto di lavoro flessibile e temporaneo, quale il contratto intermittente, possa accedere al mercato del lavoro è preferibile rispetto alla situazione di colui che tale possibilità non abbia e che, per tale ragione, si ritrovi disoccupato. A sua volta, il governo italiano ha spiegato, in udienza, che dette forme flessibili di lavoro sono necessarie per favorire la mobilità dei lavoratori, rendere gli stipendi più adattabili al mercato del lavoro e facilitare l’accesso a tale mercato delle persone minacciate dall’esclusione sociale, eliminando allo stesso tempo le forme di lavoro illegali. Il governo italiano ha anche sottolineato, in udienza, che è necessario che il maggior numero possibile di giovani possa far ricorso a tale tipo di contratto, al fine di raggiungere l’obiettivo perseguito dalla disposizione nazionale di cui al procedimento principale. Orbene, se i contratti di lavoro conclusi ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, paragrafo 2, fossero stabili, le imprese non potrebbero offrire lavoro a tutti i giovani, con la conseguenza che un numero considerevole di giovani non potrebbe accedere a tali forme di lavoro. Peraltro, il governo italiano ha evidenziato che la misura di cui al procedimento principale è accompagnata da un certo numero di tutele. Infatti, il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 38, stabilisce che “il lavoratore intermittente non deve ricevere, per i periodi lavorati, un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte”.

Alla luce di tali considerazioni, si deve ritenere, considerato l’ampio margine discrezionale riconosciuto agli Stati membri non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e dell’occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo, che il legislatore nazionale abbia potuto ragionevolmente considerare come necessaria l’adozione di una disposizione quale il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, paragrafo 2.

Tenuto conto delle considerazioni che precedono, si deve rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 21 della Carta nonchè l’art. 2, paragrafo 1, l’art. 2, paragrafo 2, lettera a), e l’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, giacchè tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari”.

5.Ciò ricordato questa Corte osserva che l’interpretazione del diritto dell’Unione è competenza esclusiva della Corte di giustizia ex art. 267 TFUE e che tale competenza si estende pacificamente anche alla valutazione delle eventuali deroghe da parte di una normativa nazionale (oggetto di questo procedimento), in relazione a specifici obiettivi di politica sociale riconducibili alla trama dei Trattati, al trattamento voluto in via generale dalla disciplina sovranazionale, nel caso di specie l’uguaglianza nelle condizioni di lavoro (cfr. le Spiegazioni all’art. 51 della Carta dei diritti Ue che richiamano le due convergenti linee – “Wachauf” e “Ert” dal nome delle decisioni della Corte di giustizia che le hanno per prima specificate – che definiscono in via generale l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione – con conseguente competenza della Corte di giustizia – che riguarda non solo la legislazione nazionale applicativa del primo o che cada sotto qualche significativo aspetto nel suo “cono d’ombra” ma anche la valutazione della legittimità di quelle deroghe che gli stati ritengono di poter legittimamente apporre alle regole sovra-nazionali).

Pertanto non vi è alcun dubbio che la Corte ha legittimamente esteso la sua indagine all’esame della legislazione italiana prima ricordata, alle sue caratteristiche, alla proporzionalità e necessità delle misure previste in rapporto ai fini di politica sociale dichiarati anche scendendo nel merito della plausibile efficacia e portata di queste misure senza demandare al giudice nazionale tale compito (come invece aveva ritenuto di proporre l’Avvocato generale nelle sue conclusioni).

La possibilità per gli stati di derogare al principio di uguaglianza di trattamento per ragioni di età in relazione al perseguimento da parte della legislazione nazionale di una “finalità legittima ivi compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale” è peraltro prevista espressamente e con riferimento specifico alla discriminazione per età dalla Direttiva del 2000 al punto 6.1 e non è stata invocata alla luce dei principi generali desumibili dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e quindi appare del tutto razionale che la Corte del Lussemburgo abbia voluto (come era in suo potere di fare) valutare direttamente la sussistenza dei presupposti dell’invocata deroga alla luce di un’interpretazione complessiva della normativa antidiscriminatoria sul punto e degli effettivi scopi perseguiti dal legislatore sovranazionale e di quello nazionale. Peraltro si deve ricordare che il Trattato di Lisbona ha rafforzato i compiti in ambito discriminatorio dell’Unione con l’art. 2 TUE che inserisce i principi di uguaglianza e non discriminazione tra i valori” dell’Unione (la lotta alle discriminazioni figura ora tra gli obiettivi di cui all’art. 3 TUE), con l’art. 10 del TFUE secondo cui “nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”, attraverso l’attribuzione disposta all’art. 6 TUE alla Carta dei diritti (e quindi al suo art. 21) dello stesso “valore giuridico dei Trattati”. L’art. 4 del TFUE rende “concorrente” tra stati ed Unione la competenza a legiferare nelle politiche sociali, ma l’art. 2 precisa molto nettamente al suo capoverso che “quando i Trattati attribuiscono una competenza concorrente in un determinato settore, l’Unione e gli stati membri possono legiferare ed adottare atti giuridicamente vincolanti in tale settore. Gli stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l’Unione non ha esercitato la propria”. Si tratta di una disposizione che esplicita anche in campo sociale che, una volta intervenuta una normativa sovranazionale, è il contesto Europeo (con i suoi obiettivi e le pertinenti finalità perseguite) che prioritariamente va vagliato ai fini dell’accertamento della legittimità di una disciplina nazionale.

L’insieme di queste innovative disposizioni possono aver indotto la Corte di giustizia ad esaminare direttamente tutti i contorni della vicenda, ivi compreso il merito delle scelte legislative interne e le concrete modalità operative della legge nazionale (in parte derogatoria) come sicuramente è autorizzata a fare alla luce del sistema integrato tra ordinamenti interni e diritto dell’Unione e dei connessi sistemi giurisdizionali, i cui rapporti sono resi ancor più stringenti dall’art. 19 TUE che dispone “che gli stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare la tutela giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione”.
Questa Corte alla luce dell’art. 267 TFUE e dell’art. 4, comma 3, TUE (secondo il quale” l’Unione e gli stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai Trattati… e gli stati membri adottano ogni misura.. atto ad assistere l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione”) e dello stesso art. 19 TUE non può che attenersi a quanto accertato dalla Corte di giustizia non avendo il potere di dare una interpretazione diversa da quella offerta dalla Corte, non essendo il giudizio di rinvio (neppure ad una Corte di legittimità) una sede nella quale sia possibile impugnare o contestare il decisum della Corte del Lussemburgo. Quest’ultima Corte non ha demandato al Giudice del rinvio alcuna ulteriore verifica avendo esaminato tutti gli aspetti pertinenti della vicenda nella risposta al quesito di questa Corte e non ha ritenuto sul punto di seguire la proposta dell’Avvocato generale in sede di conclusioni.

6.Ciò detto va ricordato che il difensore del lavoratore ha tempestivamente depositato memoria ex art. 378 c.p.c., che contengono una serie di argomentazioni e richieste alla Corte.
Circa le deduzioni di cui al punto n. 1 della memoria si osserva che l’eventuale scostamento della sentenza della Corte del Lussemburgo da alcuni precedenti della stessa Corte (che peraltro non riguardano in specifico l’istituto italiano del lavoro “intermittente”) rientra nella discrezionalità del supremo organo giurisdizionale dell’Unione che è arbitro nella selezione ed interpretazione dei suoi precedenti (ed anche nel ritenerli eventualmente superati) non essendo fra l’altro obbligato a menzionare tutte le decisioni in ipotesi pertinenti per risolvere il caso esaminato.

La circostanza per cui non sarebbero state considerate le sentenze Mangold (peraltro molto criticata in Dottrina e persino da alcune Corti costituzionali Europee) o la Age concern England appare quindi del tutto irrilevante avendo fra l’altro la Corte richiamato la celeberrima Kucukdeveci (C-555/07, nei punti 35 e 36), che è la prima decisione adottata, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ad avere fatto riferimento all’art. 21 della Carta dei diritti. Circa la doglianza di cui al punto 2) per cui la Corte non avrebbe in realtà esaminato la norma italiana applicabile ma una sua versione precedente in quanto la formulazione dell’art. 34 pertinente non si riferiva ai giovani (non ancora venticinquenni) in cerca di primo impiego e neppure ai giovani disoccupati si deve osservare che la Corte nelle premesse (punti 7 e 8 della sentenza) riporta espressamente la versione della disposizione applicabile della cui legittimità “sovranazionale” si discute ed ancora nelle conclusioni finali per cui si deve escludere che non abbia correttamente inteso di quale norma si discutesse.

Una eventuale non corretta interpretazione, inoltre, delle finalità attribuite alla disposizione legislativa qui in discorso non è sindacabile in questa sede per le ragioni già evidenziate e, comunque, appare evidente che la Corte di giustizia ha attribuito all’istituto il fine di favorire agli infra-venticinquenni l’ingresso nel mercato del lavoro e tale finalità non è esclusa per il solo fatto che alcuni di essi, in ipotesi, fossero già inclusi perchè, visto le percentuali di disoccupazione giovanile ricordate in sentenza, il legislatore italiano, secondo una valutazione che la Corte di giustizia ha ritenuta plausibile ed oggettivamente riscontrabile, ha ritenuto che sussistessero in quella fascia di età comunque un gran numero di giovani che si potevano giovare di una normativa ad hoc.

La censura di cui al punto 3, per cui sarebbe sbagliata l’affermazione della Corte circa l’esistenza di un certo numero di tutele a favore dei giovani lavoratori intermittenti, a parte la sua irrilevanza in questa sede, non appare fondata perchè la Corte di giustizia afferma che “il lavoratore intermittente non deve ricevere, per i periodi lavorati, un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte” il che è certamente vero; non risulta dal passaggio qui in esame che la Corte abbia voluto attribuire a tali tutele un significato compensativo, ma solo rimarcare che l’istituto deroga a certe regole generali ma ne conserva altre.

Al punto n. 4 si contesta poi il giudizio della Corte in ordine all’appropriatezza e necessità dei mezzi scelti dal legislatore italiano per raggiungere le finalità dichiarate, accertamento che doveva essere demandato al giudice del rinvio. La doglianza è infondata posto che, per le ragioni già evidenziate, la Corte dell’Unione ben poteva operare le valutazioni che ha fatto e questa Corte di cassazione non può sostituire il proprio giudizio a quello della Corte del Lussemburgo. Il fatto che in altre occasioni si siano demandati indagini anche di natura statistica o sociologica al Giudice nazionale non significa che questo rinvio sia dovuto rientrando tale opzione nella discrezionalità della Corte dell’Unione.

Le ulteriori considerazioni sull’inesistenza di un vantaggio in concreto derivato ai giovani dall’istituto di cui si discute o sulla non pertinenza dell’obiettivo di ridurre il lavoro nero costituiscono delle censure di merito alla sentenza della Corte di giustizia non proponibili in questa sede.

Nel punto n. 5 si allega che non era stato impugnato il capo di sentenza di appello in ordine all’illegittimità della cessazione automatica del rapporto al compimento del venticinquesimo anno e che sul punto non vi era stato alcun rinvio pregiudiziale. La censura è infondata in quanto il secondo motivo di ricorso riguarda in generale l’intero art. 34, comma 2, come applicabile ratione temporis e quindi anche il profilo del licenziamento automatico al compimento del venticinquesimo anno d’età, peraltro espressamente trattato pag. 34 del ricorso in cassazione. La norma peraltro è unitaria ed in sostanza riguarda l’assunzione dei giovani infra-venticinquenni e la risoluzione del rapporto al compimento del venticinquesimo anno di età: questa Corte ha peraltro demandato alla Corte di giustizia di stabilire la legittimità del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 34, “secondo il quale il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di 25 anni”; non solo la disposizione oggetto di interpretazione è unitaria ma la formula utilizzata nel quesito alla Corte di giustizia sembra estendersi anche alla cessazione del rapporto perchè evidenzia che le prestazioni devono essere “rese da soggetti con meno di venticinque anni”. In ogni caso anche se si ritenesse che sul punto non vi sia stato un rinvio pregiudiziale ben poteva la Corte di giustizia esaminare nel suo complesso la norma di cui al secondo comma dell’art. 34, anche al fine di evitare un nuovo rinvio pregiudiziale, integrando il quesito o interpretandolo in relazione al thema decidendum.

Non sussistono ragioni di sorta per disporre un nuovo rinvio pregiudiziale (punto 6.A) avendo la Corte di giustizia, come già detto, chiarito tutti gli aspetti della vicenda ed escluso la sussistenza di profili discriminanti rilevanti sotto il profilo del diritto dell’Unione (nè sono emersi nuovi elementi di valutazione essendo la formulazione del contratto da sempre nota ed essendo stata valutata dai Giudici del merito), nè per concedere un termine alle parti per meglio argomentare in quanto queste si sono ampiamente e dettagliatamente difese attraverso lo strumento delle memorie difensive ex art. 378 c.p.c., molto puntuali riguardo ogni aspetto della controversia.

Ancora non è possibile un rinvio, previa cassazione della sentenza impugnata, al Giudice di appello perchè valuti l’idoneità o meno della norma di cui si discute al fine di favorire in concreto l’accesso dei giovani all’occupazione posto che tale accertamento, come già osservato, non è stato demandato al Giudice nazionale avendo già la Corte di giustizia ritenuto che la disposizione sia “appropriata e necessaria” rispetto alla dichiarata finalità di ordine sociale e questa Corte non può revocare in dubbio tale decisum. Infine, al punto 6 C), si chiede alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, alla luce dell’art. 3 Cost., nella parte dell’estinzione del rapporto che – secondo la difesa della parte intimata – non risponderebbe ad alcun criterio di ragionevolezza. L’art. 3 sarebbe violato in quanto i giovani riceverebbero un trattamento differenziato in ragione delle loro ” condizioni personali ” (nell’ambito delle quali rientrerebbe l’età). Ora a parte la genericità della prospettazione, priva di riferimenti di sorta alla giurisprudenza costituzionale, va osservato che la Corte di giustizia ha ritenuto che la deroga al principio di parità di trattamento (sia in entrata che in uscita) sia giustificato da finalità di natura sociale come previsto espressamente dalla Direttiva 2000/78/CE escludendo i dedotti profili discriminatori. Appare evidente che se il rapporto lavorativo potesse proseguire oltre il venticinquesimo anno di età e potesse essere sciolto solo secondo i criteri generali verrebbe ad essere compromessa la ratio delle disposizione globalmente considerata e cioè di favorire l’impiego attraverso l’istituto del lavoro intermittente dei soli soggetti al di sotto del venticinquesimo anno di età: tale ratio è stata – come più volte ricordato – già esaminata dalla Corte del Lussemburgo che l’ha ritenuta legittima alla luce della Direttiva e della stessa Carta dei diritti (art. 21). Non vi sono ragioni per ritenere che la giurisprudenza costituzionale offra una tutela (antidiscriminatoria) ai giovani più intensa di quella che proviene dalla fonti sovranazionali che, come si è accennato, negli ultimi anni hanno rafforzato le politiche e gli strumenti di contrasto antidiscriminatorio rendendoli un momento prioritario di regolazione da parte dell’Unione ed anche di supervisione attraverso un’Agenzia sui diritti fondamentali (introdotta dal Trattato di Lisbona) e periodici Report da parte della Commissione e del Parlamento Europeo sul rispetto della Carta dei diritti che, in genere, privilegiano proprio il monitoraggio antidiscriminatorio (alla luce degli artt. 20 e 21 della Carta). La Dottrina in questi anni ha sottolineato come, proprio nel settore del contrasto della discriminazione, vi sia stata una fusione di orizzonti tra il livello interno, sovranazionale ed anche quello convenzionale (attestato dalle moltissime decisioni della Corte costituzionale che hanno applicato negli ultimi anni l’art. 14 della Cedu), reso più spontaneo ed efficace dal carattere particolarmente intenso delle tutele previste dall’Unione (attraverso le Direttive a largo raggio del 2000 e l’approvazione ed implementazione giudiziaria della Carta dei diritti – che, inoltre, ex art. 52, comma 3, della stessa Carta – deve tenere in considerazione le decisioni della Corte di Strasburgo pertinenti per la materia trattata).

Pertanto non vi è alcuna evidenza e nemmeno plausibilità a favore della tesi per cui il nostro ordinamento possa offrire una diversa soluzione alla questione del carattere discriminatorio (anche sotto il profilo dell’irrazionalità) della disposizione qui in discussione, non solo perchè nel settore le politiche dell’Unione sono particolarmente avanzate, ma anche in quanto gli obiettivi sociali menzionati dalla Corte di giustizia sono comuni al nostro ordinamento costituzionale. Del resto la tecnica del legislatore italiano di facilitare l’impiego dei giovani attraverso strumenti di varia natura in deroga ai criteri generali è stato ripetutamente utilizzata e non ha portato, sul piano interno, ad una messa in mora “di principio” da parte della Corte delle leggi: non sembra in conclusione casuale che, da quel che emerge dagli atti, la difesa della parte intimata abbia in sostanza da sempre insistito, nelle sue argomentazioni, sui profili di illegittimità “sovranazionale” piuttosto che su quelli di incostituzionalità della disposizione prima ricordata. Pertanto la questione sollevata appare manifestamente infondata.
Il terzo motivo si intende assorbito.
Pertanto va cassata la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto: posto che dalla sentenza impugnata si evince che il contratto tra le parti è stato impugnato non solo sotto il profilo del contrasto con la normativa Ue e con l’art. 21 della Carta dei diritti, ma anche per altre ragioni che trascendono questo aspetto si impone il rinvio alla Corte di appello di Milano in diversa composizione che si atterrà a quanto deciso da questa Corte in relazione alla sentenza della Corte di giustizia del 17.7.2017.

P.Q.M.

Rigetta il primo motivo, accoglie il secondo motivo, assorbito il terzo: cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte di appello di Milano in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 9 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2018