Discriminazione di genere e a causa dell’identità di genere, Tribunale di Trento ordinanza del 31.7.2018

TRIBUNALE ORDINARIO di TRENTO SEZIONE CIVILE

Il giudice, a scioglimento della riserva assunta nella causa promossa con rito sommario di cognizione ex artt. 702 bis e ss c.p.c.

D A

XXXXXXX, residente in Levico Terme, XXXXXXX, rappresentata e difesa dall’avv. Alexander Schuster

RICORRENTE

C O N T R O

YYYYYYYY, con sede in Trento, via del Ponte n° 15, in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall’avv. +++++++++

CONVENUTA

ha pronunciato la seguente

O R D I N A N Z A

Premesso, fra l’altro, di essere “persona transgender, ovvero persona di sesso biologico maschile che percepisce e afferma un’identità di genere di tipo femminile”; di svolgere un’attività professionale tramite la *******, start-up nell’ambito dell’innovazione, sviluppo e ricerca; di aver avuto l’intenzione, nell’estate 2016, di trasferirsi da Levico Terme a Trento per ragioni personali e lavorative; di essersi, quindi, all’epoca attivata con un’amica, WWWWWW, per reperire un’abitazione comune al fine di condividere le spese di locazione, con ricorso ex art. 55 quinquies, d.lgs. n° 198/2006, XXXXXXX esponeva che:

letto un annuncio relativo ad alloggi per studenti, dottorandi o ricercatori rinvenuto su un noto portale web, il 16 agosto 2016 aveva contattato il recapito telefonico ivi riportato, con ciò mettendosi in comunicazione con l’agenzia CCCCCCC (di seguito, per brevità, solo CCCCCCC), nella persona dell’amministratrice e legale rappresentante PPPPPPP PPPPPPP, a cui aveva manifestato il proprio interesse e quello dell’amica WWWWWW all’abitazione

  • pubblicizzata, facendole presente nel contempo di svolgere attività lavorativa, e non di studio;
  • la PPPPPPP, dopo aver contattato la proprietà, l’aveva richiamata per dirle che la detta “condizione di non studentessa non era ostativa alla conclusione del contratto”, tant’è che in seguito le aveva comunicato via mail le istruzioni per “bloccare la stanza”, trasmettendole la relativa planimetria e gli estremi dell’offerta, nonché un modulo – qualificato come “preliminare” – da compilare;
  • ribadito alla PPPPPPP di non essere studentessa e, quindi, di non poter allegare documentazione attestante l’iscrizione universitaria, come richiesto nelle istruzioni del detto modulo, le era stato risposto di inviare un contratto di lavoro e, in difetto, una visura relativa alla società di cui era socia;
  • aveva, quindi, successivamente provveduto a sottoscrivere e a trasmettere il contratto preliminare, unitamente alla prova del pagamento degli importi ivi indicati (€ 1.042,00 in favore di YYYYYYYY, a titolo di “caparra” pari al triplo del canone di locazione, oltre alle spese di registrazione; € 402,60 a favore di CCCCCCC a titolo di “costi una tantum”), alla carta d’identità del 2012 (ove era ritratta con sembianze maschili) e alla visura relativa alla società *******;
  • avendo conseguito il 13 settembre un nuovo documento d’identità, recante foto che la raffigurava con apparenze femminili, tre giorni dopo, in vista dell’immissione in possesso dei locali, ne aveva trasmesso per email copia alla YYYYYYYY, in persona della responsabile amministrativa GGGGGG (la quale aveva risposto a una sua precedente comunicazione inviata a FFFFFFF), ricevendone nella stessa giornata varia documentazione in vista del successivo perfezionamento del contratto di locazione relativo alla “stanza D.3”;
  • il 26 settembre aveva ricevuto dalla CCCCCCC la fattura per la provvigione relativa al contratto n. 3000 dd. 16.8.2016 avente a oggetto “locazione di stanza singola in appartamento Via VVVVVV n. 39 – 38122 Trento” e da FFFFFFF comunicazione di consegna della stanza per il successivo 1° ottobre;
  • tre giorni dopo, quindi il 29 settembre, aveva reso nota la propria condizione di transgender alla PPPPPPP, allorché costei le aveva telefonato per dirle che in YYYYYYYY erano sorte perplessità sul fatto che vi fossero “due persone diverse” sulla vecchia e sulla nuova carta d’identità;
  • nella circostanza la PPPPPPP le aveva fatto presente che alla YYYYYYYY tendevano a essere selettivi e che il FFFFFFF era persona “all’antica” e, temendo un uso improprio del locale, aveva manifestato dubbi sull’assenza della condizione di studentessa;
  • nel corso di un incontro a tre effettuato nella stessa giornata, il FFFFFFF si era effettivamente concentrato sulla qualifica di studentessa, tant’è che al termine della discussione le era stato proposto dalla PPPPPPP un alloggio alternativo, ma l’affare non era andato a buon fine per la mancanza di disponibilità della proprietaria;
  • al fine di indurre YYYYYYYY alla stipulazione del contratto, la PPPPPPP le aveva, quindi, suggerito di iscriversi a singoli corsi universitari, pur non celandole il timore di esporla a una spesa che non le avrebbe assicurato con certezza l’alloggio voluto;
  • anche YYYYYYYY, per il tramite del FFFFFFF, le aveva proposto soluzioni alternative, che non aveva accettato avendo all’epoca interesse a conseguire proprio il locale oggetto del contratto preliminare di locazione stipulato con la detta società, nella circostanza rappresentata dalla CCCCCCC;
  • la successiva mancata stipulazione del contratto definitivo non era stata causata dall’assenza dello status di studente, già desumibile dalla documentazione utilizzata per la stesura del regolamento contrattuale inviato il 16/9, ma dalla propria condizione di persona trans;
  • del resto nello stesso annuncio relativo al locale in oggetto, essendosi fatto riferimento anche a “dottorandi” e “ricercatori”, non era stata richiesta la sola veste di studente, oltretutto neppure menzionata nel contratto definitivo che le era stato sottoposto per la firma;
  • YYYYYYYY aveva, dunque, tenuto una condotta discriminatoria di tipo diretto in suo danno, avendole impedito l’accesso a un bene, ossia l’alloggio promesso in locazione, soltanto perché portatrice di un’identità di genere contrastante con il sesso cromosomico.

Tanto premesso, XXXXXXX concludeva chiedendo di:

A accertare il proprio diritto alla locazione (per una durata di dodici mesi) della stanza D.3 dell’immobile sito in Trento, Via VVVVVV, 39, di proprietà della YYYYYYYY, e l’obbligo di quest’ultima di concludere il contratto definitivo di locazione di cui alla mail di data 16.09.2016; di pronunciare, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2932 cod. civ., una sentenza d’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto di locazione, che tenesse luogo dell’inadempimento della YYYYYYYY e producesse gli effetti del contratto non concluso;

B accertare e dichiarare il carattere discriminatorio degli atti posti in essere in suo danno da YYYYYYYY nei rapporti contrattuali e nelle trattative per una locazione a uso abitativo nel periodo settembre 2016 e mesi successivi “per motivo di genere e identità di genere”;

C condannare YYYYYYYY, ai sensi dell’art. 2043 c.c., al risarcimento del danno patrimoniale, pari a € 500,00 per ogni mese d’indisponibilità dell’alloggio a decorrere dal 1° ottobre 2016 e fino a un massimo di dodici mesi;

D condannare YYYYYYYY al risarcimento del danno non patrimoniale ex artt. 2059 c.c., 28, c. 5, d.lgs. 150/2011, da quantificare in € 35.000,00, oltre accessori;

E disporre la pubblicazione, sul sito Internet di YYYYYYYY per un periodo di almeno due anni, di dichiarazione della stessa di adottare, nell’offerta dei propri servizi e dei propri beni, una «politica di non discriminazione», con espressa menzione dell’identità di genere quale motivo di non discriminazione, ordinando, nel contempo, che un richiamo o banner a tale sezione/pagina del sito fosse presente sulla home-page per almeno un anno;

F disporre la pubblicazione a spese di YYYYYYYY di un estratto di almeno 2500 caratteri (spazi inclusi) della pronuncia giudiziale, con contenuto da concordarsi, o in alternativa la pubblicazione dell’ordinanza integrale su un quotidiano di tiratura nazionale.

G in subordine alla domanda sub A, accertare, ai sensi dell’art.1337 c.c., la violazione della buona fede nella fase di trattativa in ordine alla locazione del detto immobile, posta in essere da YYYYYYYY nel mese di settembre, con conseguente condanna al risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c. e dell’art. 2059 c.c..

Costituitasi in giudizio in persona del suo legale rappresentante, YYYYYYYY, premesso che la CCCCCCC, rappresentata da PPPPPPP PPPPPPP, non era propria mandataria, avendo solo la facoltà di procacciarle clienti e che in tale veste, a metà agosto 2016, le aveva segnalato XXXXXXX e WWWWWW, come persone interessate a due stanze nello studentato denominato “Residenza universitaria 2.0”, rappresentava, fra l’altro, che:

  • a dire della PPPPPPP, XXXXXXX aveva asserito di aver terminato un corso di laurea triennale e di non essere iscritto al biennio, ma di essersi riservato di farlo in seguito;
  • preso atto di ciò, si era fatto presente alla PPPPPPP che la stanza poteva essere bloccata, ferma restando la necessità di successiva iscrizione universitaria non oltre il 1° ottobre 2016, data prevista per l’immissione in possesso del locale;
  • allorché il 29 settembre 2016 era stato accertato, in base alla nuova carta d’identità, che XXXXXXX era “programmatore di software”, era stato ribadito che la stanza non poteva essere assegnata in difetto di iscrizione all’università, e nel contempo era stata manifestata la disponibilità a tenerla bloccata ove XXXXXXX avesse provveduto alla detta iscrizione, offrendo comunque anche un alloggio alternativo;
  • controparte non aveva provato la dichiarata qualità di “persona transgender”;
  • le disposizioni di cui al d.lgs. n° 198/2006, costituendo legislazione speciale diretta a reprimere comportamenti discriminatori fra uomo e donna a tutela del genere femminile, non erano applicabili nella fattispecie in esame;
  • controparte non aveva offerto elementi sufficienti per beneficiare dell’inversione dell’onere della prova prevista dall’art. 55 bis del detto decreto legislativo;
  • il locale oggetto di causa, come tutti quelli compresi nella stessa struttura, erano destinati unicamente a studenti, non rilevando la più ampia indicazione rinvenibile nell’annuncio pubblicitario menzionato in ricorso, in quanto riferibile a iniziativa unilaterale della PPPPPPP e contrastante con quanto riportato nel sito di essa convenuta;
  • non avendolo sottoscritto, l’accordo denominato “preliminare” da parte ricorrente non le era opponibile;
  • sin dal primo contatto relativo alla coppia WWWWWW/XXXXXXX, si era fatto presente alla PPPPPPP che la mancata iscrizione universitaria sarebbe stata un problema ove si fosse protratta in prossimità della data fissata per la consegna del locale;
  • soltanto il 29 settembre il proprio dipendente FFFFFFF si era avveduto che la prima carta d’identità di XXXXXXX riportava la dicitura “studente” e la nuova quella di “sviluppatore software”, il che lo aveva indotto a supporre che XXXXXXX avesse definitivamente deciso di non iscriversi all’università;
  • nel corso dell’incontro tenuto nella stessa giornata al fine di chiarire la situazione, FFFFFFF aveva ribadito a XXXXXXX la necessità di procedere all’iscrizione universitaria, per poi far presente che in difetto la stanza non poteva essere concessa in locazione, non mancando comunque di formulare proposte alternative, non accettate da XXXXXXX;
  • il diniego alla locazione dell’alloggio preteso era stato, dunque, causato dalla sola mancanza dello status di studente, e non certo dall’asserita qualità di transgender di parte ricorrente;
  • le domande ex art. 2932 c.c. e di accertamento di condotta discriminatoria erano inammissibili e comunque infondate, al pari di quella proposta ex art. 2043 c.c., per aver controparte prospettato una responsabilità contrattuale o precontrattuale; – parte ricorrente non aveva dimostrato la sussistenza dei dedotti pregiudizi.

Dopo aver formulato una proposta transattiva ex art. 91 c.p.c., YYYYYYYY concludeva chiedendo il rigetto di ogni pretesa avversaria.

1 Sulle domande di accertamento dell’inadempimento, da parte di YYYYYYYY, dell’obbligo di concludere il contratto definitivo di locazione di cui alla mail dd. 16.9.2016 e di risarcimento del relativo danno

Come emerge dalla parte espositiva che precede, sul presupposto di aver stipulato con la convenuta un contratto preliminare di locazione relativamente alla stanza D.3 dell’immobile sito in Trento, via VVVVVV 39, in ricorso XXXXXXX ha chiesto di pronunciare, ai sensi dell’art. 2932 c.c., sentenza che producesse gli stessi effetti del contratto definitivo non stipulato per l’inadempienza di controparte.

Nella successiva memoria difensiva dd. 5.5.2017, parte ricorrente, tenuto conto che in ragione dei tempi processuali la detta eventuale declaratoria non l’avrebbe comunque posta nelle stesse condizioni del contratto non concluso, relativo a una locazione annuale a decorrere dal 1° ottobre 2016, ha manifestato il proposito di “convertire la condanna all’adempimento degli obblighi del preliminare di locazione in una domanda di risarcimento per equivalente”.

Tale domanda, diversamente da quanto eccepito da parte convenuta, è ammissibile, non risolvendosi in un’irrituale mutatio libelli.

Al riguardo va, infatti, considerato che quando “l’esecuzione specifica di un preliminare…si riveli impossibile…la richiesta di reintegrazione per equivalente pecuniario è da ritenersi implicita nella domanda di esecuzione della quale non trascende i limiti, onde non costituisce domanda nuova”, e ciò in quanto “la reintegrazione per equivalente rappresenta un sostitutivo legale della reintegrazione del patrimonio del creditore in forma specifica, mediante la restituzione dell’eadem res debita” (così in motivazione Cass., n° 2613/2001).

In applicazione di tale condivisibile principio di diritto (affermato in ordine a un preliminare di vendita relativo a immobile ceduto a terzi dal promittente venditore, ma suscettibile di estensione anche a un preliminare di locazione, quando sia, di fatto, divenuta impossibile la conduzione del bene nel ristretto lasso temporale ivi considerato), devesi, dunque, ritenere insussistente l’eccepito indebito mutamento di domanda.

Tanto premesso, ritiene il giudicante che le acquisite risultanze istruttorie non consentono di ritenere provato che la YYYYYYYY ebbe ad assumere, con la stipulazione di un contratto preliminare, l’obbligo di stipulare un contratto definitivo di locazione con XXXXXXX relativamente al detto alloggio.

Tenuto conto che l’art. 1, co. 4, legge n° 431/98 richiede la forma scritta ad substantiam per la locazione a uso abitativo (“il contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza la forma scritta ex art. 1, comma 4, della l. n. 431 del 1998 è affetto da nullità assoluta, rilevabile da entrambe le parti e d’ufficio, attesa la “ratio” pubblicistica del contrasto all’evasione fiscale; fa eccezione l’ipotesi prevista dal successivo art. 13, comma 5, in cui la forma verbale sia stata abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso il contratto è affetto da nullità relativa di protezione, denunciabile dal solo conduttore” così Cass., sez. un., n° 18214715), anche il dedotto contratto preliminare, stante il disposto dell’art. 1351 c.c., doveva essere stipulato per iscritto a pena di nullità, ciò significando che la relativa stipulazione non la si può desumere dal comportamento concludente di uno o di entrambe le parti.

Nel caso di specie difetta il detto requisito formale, visto che il regolamento negoziale (v. doc. n° 6 di parte ricorrente), in tesi, corrispondente all’accordo preliminare inadempiuto (che, invero, pone a carico del solo firmatario, con il versamento della “caparra”, “l’impegno a firmare il contratto di locazione”, di talché appare fondato qualificarlo come preliminare unilaterale di locazione, con cui l’obbligazione di stipulare è assunta da una sola parte) non risulta sottoscritto da YYYYYYYY, e neppure dalla CCCCCCC in persona della sua amministratrice e legale rappresentante PPPPPPP PPPPPPP, la quale, secondo la prospettazione di parte ricorrente, nella vicenda avrebbe agito quale rappresentante della società convenuta o comunque come falsus procurator, il cui operato sarebbe stato poi ratificato dalla YYYYYYYY.

Tali assunti non risultano provati ed appaiono comunque contraddetti dall’avvenuto pagamento (da parte di XXXXXXX) dell’importo di € 402,60 oggetto della fattura n° 27/2016 dd. 17.8.2016 emessa dalla CCCCCCC, da intendersi, in sostanza, quale corrispettivo dell’attività di mediazione dalla stessa svolta per la locazione del locale per cui è causa, dunque nell’espletamento di attività riconducibile nel campo applicativo dell’art. 1754 c.c., e non come mandataria di YYYYYYYY.

Al riguardo va peraltro tenuto presente che “il mandato con o senza rappresentanza a concludere un negozio per il quale sia richiesta la forma scritta “ad substantiam” deve essere rilasciato per iscritto a pena di nullità” (così Cass., n° 7453/92; nello stesso senso v. Cass., n° 13212/2014) e che lo stesso dicasi per quanto attiene alla ratifica, dovendo anch’essa parimenti “rispettare la forma prescritta per il contratto concluso dal “falsus procurator” (così Cass., n° 27399/09; v. anche Cass., n° 12308/11, secondo cui “la ratifica di un contratto per il quale la legge prevede la redazione per iscritto “ad substantiam” (nella specie, contratto preliminare di compravendita immobiliare) può anche essere contenuta in un atto avente formale diverso contenuto, ma non può essere desunta da una serie di condotte o documenti complessivamente indicati come convergenti verso la dimostrazione dell’avvenuta ratifica, perché in questa ipotesi si tenderebbe a fornire non la prova indiretta, ma quella per presunzioni, espressamente vietata dall’art. 2729, II comma, cod. civ.”), il che induce a non attribuire rilievo, con riguardo ai profili qui in esame (ossia relativamente al mandato che YYYYYYYY avrebbe conferito alla PPPPPPP e alla dedotta ratifica dell’operato di costei da parte della società convenuta), che la stanza richiesta da XXXXXXX sia stata “bloccata da metà agosto” da parte di YYYYYYYY e che quest’ultima abbia incassato l’importo di € 1.042,00 a titolo di “caparra”.

L’evidenziata carenza di forma scritta non appare superabile neppure con il riferimento ai documentati messaggi telefonici e di posta elettronica, sia perché non intercorsi tra parte ricorrente e soggetto in grado di manifestare la volontà della società convenuta e di vincolarla sul piano negoziale, sia per il loro stesso contenuto.

In parte qua non è poi valorizzabile la particolare ripartizione dell’onere probatorio di cui agli artt. 55 sexies D.Lgs. n° 196/2007 e 28, D.Lgs. n° 150/2011, sia perché tali disposizioni, essendo riferibili, rispettivamente a “elementi di fatto idonei a presumere la violazione del divieto di discriminazione” e alla “esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori”, sono applicabili alle sole domande dirette all’accertamento della denunciata condotta discriminatoria e al risarcimento dei relativi danni, e non a quelle fondate su un preteso inadempimento dell’obbligo a contrarre; sia perché in relazione al profilo sopra esaminato viene in rilievo un requisito formale richiesto a pena di nullità, e non ad probationem.

Aggiungasi a ciò, con specifico riferimento alla pretesa risarcitoria, riferita al disposto dell’art. 2043 c.c. al punto C delle conclusioni rassegnate in ricorso, e alle conseguenze dell’inadempimento del dedotto obbligo di contrarre di cui al punto C delle conclusioni formulate nella memoria difensiva dd. 5.5.2017, che comunque non sono stati acquisiti oggettivi elementi di prova da cui inferire che dalla mancata conclusione del contratto di locazione relativamente all’alloggio oggetto di causa sia derivato a parte ricorrente uno specifico pregiudizio patrimoniale in termini di danno emergente e/o lucro cessante; in particolare, non consta che l’indisponibilità del detto immobile le abbia comportato spese o precluso il conseguimento di un qualche guadagno, o comunque un pregiudizio, quantomeno in termini di perdita di chance, e neppure è stato provato che per effetto della sistemazione abitativa nel centro cittadino XXXXXXX avrebbe avuto modo di svolgere più proficuamente la propria attività lavorativa rispetto a quanto le era consentito dalla sua collocazione residenziale dell’epoca a Levico Terme e, quindi, di incrementare i relativi ricavi.

Le domande formulate ai punti A e C delle conclusioni articolate nella memoria dd. 5.5.2017 non possono, dunque, trovare accoglimento.

 

2. Sulla domanda di accertamento del carattere discriminatorio degli atti posti in essere dalla convenuta in danno di XXXXXXX

a) La normativa di riferimento

Al riguardo occorre in primo luogo individuare le norme di diritto positivo applicabili nella fattispecie in esame e, quindi, verificare se, come prospettato in ricorso, le domande ivi formulate siano effettivamente riconducibili nel campo applicativo del Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n° 198 (“Codice delle parti opportunità tra uomo e donna a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005 n. 246”), come modificato dal Decreto Legislativo 6 novembre 2007 n. 196 (“Attuazione della direttiva 2004/113/CE che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura”), che vi ha introdotto il Titolo II 2-bis (“parità di trattamento tra uomini e donne nell’accesso a beni e servizi e loro fornitura”), ove figurano disposizioni recanti le nozioni e il divieto di discriminazioni (artt. 55 bis e 55 ter), nonché la disciplina della tutela giudiziaria cui può accedere il soggetto discriminato “a causa del suo sesso” (artt. 55 quinquies e 55 sexies).

A tal fine, avendo parte ricorrente sostenuto di essere “persona transgender, ovvero persona di sesso biologico maschile, tale risultante ancora allo stato civile, che tuttavia percepisce e afferma un identità di genere di tipo femminile” (v. pag. 2 del ricorso), nonché di essere intenzionata a “porre in essere nel breve termine un’operazione chirurgica e conseguire la rettificazione anagrafica” (v. pag. 3 della memoria dd. 5.5.2017), e di aver subito proprio a causa della detta condizione soggettiva un trattamento discriminatorio nel reperimento di immobile a uso di abitazione, dunque nell’accesso a un bene, occorre innanzi tutto stabilire se la tutela accordata dalla citata normativa riguarda le sole discriminazioni dovute all’appartenenza all’uno o all’altro sesso, ossia fondate sul fatto che una persona sia una donna o un uomo, o anche quelle attinenti al genere, sì da risultare applicabile anche in relazione a disparità di trattamento riferibili al mutamento del sesso e alla “identità di genere”.

In proposito va in primo luogo considerato che il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., imponendo di escludere privilegi e disposizioni discriminatorie, anche in base al sesso, in ragione della garanzia effettiva del valore primario della pari dignità sociale di fronte alla legge, costituisce il fondamento del divieto di qualunque forma di discriminazione, ossia di ingiustificata disparità di trattamento, e che tra i diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana il precedente art. 2 riconosce e garantisce anche il diritto all’identità personale, che è espressione della dignità del soggetto e del suo diritto a essere riconosciuto nell’ambito sociale di riferimento per quello che si è (v. Corte Cost. n° 13/1984) e che comprende anche l’identità sessuale, per la cui identificazione, come chiarito dalla Corte Costituzionale con specifico riguardo all’impianto normativo della legge 14 aprile 1982, n° 164 (“norme in materia di rettificazione di attribuzioni di sesso”), “viene conferito rilievo non più esclusivamente agli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita ovvero ‘naturalmente’ evolutisi, sia pure con l’ausilio di appropriate terapie medico-chirurgiche, ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale”, derivando da ciò una “concezione del sesso come dato complesso della personalità, determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato e ricercato l’equilibrio, privilegiando il od i fattori dominanti”.

Del resto, com’è noto, il dato biologico può discostarsi dalla componente psicologica, potendosi verificare che un soggetto, presentando i caratteri genotipici di un determinato genere, sente in modo profondo di appartenere all’altro genere, del quale tende ad assumere gli aspetti esteriori e ad adottare i comportamenti e nel quale, pertanto, vuole essere riconosciuto.

Il che richiama il concetto d’identità di genere, ritenuta costituita da tre componenti, ossia il corpo, l’autopercezione e il ruolo sociale (v. Trib. Messina 11.11.2014 e Cass., n° 15138/15), e comunemente definita come l’esperienza intima e personale che ogni persona ha del sesso, che corrisponda o non al sesso attribuito alla nascita, compresa la consapevolezza personale del corpo (che può comportare, se frutto di una libera scelta, la modificazione dell’aspetto fisico o delle funzioni fisiche mediante interventi medici, chirurgici o di altro tipo) e altre espressioni del genere, tra cui l’abbigliamento, il linguaggio e l’atteggiamento.

L’identità di genere, che, dunque, non è necessariamente corrispondente al sesso anatomico di nascita, costituisce “un profilo rilevantissimo, anzi costitutivo dell’identità personale” (così in motivazione Cass., n° 15138/2015, che da tale qualificazione ha tratto la conseguenza che lo Stato non può limitarne l’esplicazione “a meno che non vi siano interessi superiori da tutelare”), come tale “rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)” (v. Corte Cost. n° 221/15).

Devesi, nel contempo, considerare, per quanto qui rileva, che nell’ordinamento comunitario, che da tempo prevede disposizioni sul principio della parità di trattamento, sancito dall’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e considerato dalla Corte di Giustizia (caso Glatzel) “principio generale del diritto dell’Unione”, di cui ne è “particolare espressione” il principio di non discriminazione enunciato all’art. 21, paragrafo 1 della Carta, si è assistito a un progressivo ampliamento della tutela antidiscriminatoria in una dimensione sociale, e non in quella esclusivamente economica, che ha caratterizzato l’iniziale impostazione del Trattato in parte qua.

Sul presupposto che l’eliminazione di ogni discriminazione è parte dei principi generali di cui deve garantire l’osservanza per il conseguimento di un’uguaglianza effettiva e non meramente formale, la Corte di Giustizia ha effettuato un’opera di graduale estensione dell’ambito applicativo della normativa antidiscriminatoria, come tutela della dignità umana, intesa come valore assoluto, con ciò anticipando gli orientamenti degli altri organismi comunitari e influenzandone l’operato.

Tale interpretazione estensiva è riscontrabile, fra l’altro, anche in ordine alle discriminazioni subite da persone transessuali, che, in quanto fondate sul “genere”, la Corte di Giustizia ha ricondotto a quelle vietate dalla normativa europea in materia di discriminazioni tra uomo e donna.

Al riguardo viene in rilievo la sentenza nella causa C-13/94 P.c.S. e Cornwall County Council, in cui la Corte di Giustizia, tenuto conto che la direttiva europea n. 76/207/CEE (poi rifusa nella direttiva 2006/54/CE), sulla parità di trattamento tra uomini e donne nell’accesso al lavoro era l’espressione, nella materia considerata, del principio di uguaglianza e che “il diritto di non essere discriminato in ragione del proprio sesso costituisce uno dei diritti fondamentali della persona umana”, ha affermato che l’applicazione della detta direttiva non poteva “essere ridotta soltanto alle discriminazioni dovute all’appartenenza all’uno o all’altro sesso” e che, in ragione dello scopo e dei diritti che mirava a proteggere, poteva “applicarsi anche alle discriminazioni che hanno origine, come nella fattispecie, nel mutamento di sesso dell’interessata”, evidenziando che “siffatte discriminazioni si basano essenzialmente, se non esclusivamente, sul sesso dell’interessato” e che, quindi, “una persona, se licenziata in quanto ha l’intenzione di sottoporsi o si è sottoposta ad un cambiamento di sesso, riceve un trattamento sfavorevole rispetto alle persone del sesso al quale era considerata appartenere prima di detta operazione”, per poi sostenere che “il tollerare una discriminazione del genere equivarrebbe a violare, nei confronti di siffatta persona, il rispetto della dignità e della libertà alle quali essa ha diritto e che la Corte deve tutelare”.

Tale impostazione interpretativa (seguita in due successivi giudizi: Causa C-117/01

K.B. v. National Health Service Pensions Agency and Secretary of State for Health e Causa C423/04, Sarah Margaret Richards contro Secretary of State for work and pensions), che, dunque, consente di includere nell’ambito operativo della tutela contro le discriminazioni fondate sul sesso, non solo le persone che hanno ultimato l’iter medico/giudiziario/amministrativo di mutamento del sesso, ma anche quelle che hanno intenzione di darvi inizio, è stata espressamente richiamata nella direttiva 2006/54CE (riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego e attuata in Italia con il Decreto Legislativo 25 gennaio 2010 n. 5, che ha modificato alcune disposizioni del D.lgs. n° 198/2006), visto che al considerando n. 3 si legge “la Corte di giustizia ha ritenuto che il campo d’applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne non possa essere limitato al divieto delle discriminazioni basate sul fatto che una persona appartenga all’uno o all’altro sesso. Tale principio, considerato il suo scopo e data la natura dei diritti che è inteso a salvaguardare, si applica anche alle discriminazioni derivanti da un cambiamento di sesso”.

Un rilievo sostanzialmente analogo è riscontrabile nel verbale della riunione n. 2606 del Consiglio dell’Unione europea tenutasi il 4.10.2004 durante i lavori preparatori della direttiva 2004/113/CE relativa all’accesso dei beni e servizi (recepita nell’ordinamento interno con il D.Lgs. n° 196/07, che, come detto, ha modificato il D.Lgs. n° 198/2006), ove si legge “riguardo all’art. 3 e alla sua applicazione alle persone transessuali, il Consiglio e la Commissione ricordano la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea nel caso C-13/94 P.c. S. e Cornwall, ove la corte ha ritenuto che il diritto a non essere discriminati sulla base del sesso non può essere limitato alle discriminazioni fondate sul fatto che una persona sia dell’uno o dell’altro sesso, ma deve includere le discriminazioni derivanti dal cambiamento di sesso di una persona”.

Convergente nella medesima direzione interpretativa appare la Relazione dd. 5.5.2015 della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio e al Comitato Economico e Sociale Europeo sull’applicazione della direttiva 2004/113/CE, il cui punto 3.3 recita “conformemente alla giurisprudenza della Corte, il campo di applicazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne e il divieto delle discriminazioni fondate sul sesso si applicano anche alle discriminazioni che hanno origine dal cambiamento di sesso di una persona…Sinora la Corte si è pronunciata soltanto sul cambiamento di sesso. Non esiste una giurisprudenza riguardo all’identità di genere in termini più generali, inclusa nella protezione dalla discriminazione fondata sul sesso, ma la Commissione ritiene che l’approccio da seguire dovrebbe essere sostanzialmente simile”.

Il che, valutato unitamente al dichiarato scopo della direttiva 2004/113/CE (“istituire un quadro per la lotta alla discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi”), che ne fa espressione del principio di uguaglianza, induce a ritenere innanzi tutto che le stesse considerazioni svolte dalla citata giurisprudenza della Corte di Giustizia in ordine all’operatività della direttiva sulla parità di trattamento tra uomini e donne nell’accesso al lavoro valgono a estendere la sfera di applicazione della direttiva 2004/113/CE anche alle discriminazioni subite per il fatto di aver ottenuto la rettificazione anagrafica del sesso o anche solo per aver manifestato l’intenzione di conseguirla e, quindi, iniziato l’espletamento delle incombenze a ciò necessarie.

Nel valutare poi l’effettiva incidenza delle menzionate sentenze della Corte di Giustizia sulla questione interpretativa in esame, va considerato, da un lato, che esse risalgono a un’epoca in cui si riteneva che per la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile fosse obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari, il che invece, per quanto riguarda l’ordinamento interno, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n° 221/15, non è più un “prerequisito” per accedere a detto procedimento, ma “solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali” (come già in precedenza statuito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n° 15138/15; analoga evoluzione interpretativa è riscontrabile nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale nella causa A.P., Garcon et Nicot c. Francia, ric. N. 79885/12 ha stabilito che riconoscere l’identità di genere delle persone transgender solo in caso di compimento di un’operazione o di un trattamento di sterilizzazione, a cui non si vuole essere sottoposti, significa subordinare l’esercizio del diritto alla rinuncia al pieno esercizio del diritto della integrità fisica e che richiedere l’irreversibilità della trasformazione integra violazione, da parte dello Stato, di un suo obbligo positivo di garantire il diritto al rispetto della vita privata, con conseguente violazione dell’art. 8 Cedu); e dall’altro che i pronunciamenti della Corte di Giustizia, avendo, di fatto, qualificato come discriminazione fondata sul “sesso” anche quella subita da una persona a causa del mutamento di sesso o dell’intenzione di conseguirlo per il fatto di avvertire una marcata incongruenza tra le sue caratteristiche sessuali primarie e secondarie e la percezione di appartenenza all’altro genere, inducono a un’interpretazione della nozione di “sesso” non ancorata al dato biologico dell’appartenenza sessuale – potendosi del resto ritenere la sessualità umana quale espressione di molteplici componenti, essendo al contempo “genetica, fenotipica, endocrinica, psicologica, culturale e sociale” (come precisato da Trib. Trento ordinanza n. 228 dd. 20.8.2014 con cui è stato sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale l’art. 1, 1° co., legge n. 164/82) – e in termini tali da ricondurre nel novero dei fattori proibiti di discriminazione anche l’identità di genere.

Del resto il diritto al cambiamento di sesso è espressione del diritto ad autodeterminarsi in ordine all’identità di genere, che, come detto, rientra nel catalogo aperto dei diritti inviolabili della persona di cui agli artt. 2, 3, 32 Cost. e art. 8 CEDU (così anche Cass., n° 15138/15, che sul punto richiama Corte Cost. n° 161/1985) e che nel suo 30° considerando la direttiva 2011/95/UE (recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta) ha espressamente incluso tra gli aspetti connessi al sesso.

Va poi tenuto presente (i) che il dictum della Corte di Giustizia costituisce una regola iuris applicabile dal giudice nazionale in ogni stato e grado del giudizio (v. Cass., n° 17994/15; Cass., n° 1917/12; Cass., n° 4466/05); (ii) che l’interpretazione del diritto comunitario, adottata dalla Corte di Giustizia, ha efficacia ultra partes, sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali, sia emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità (v. Cass., n° 22577/12); e che (iii) nell’interpretare la normativa di recepimento di una direttiva UE, il giudice nazionale deve prendere in considerazione tutte le norme del diritto interno e utilizzare tutti i metodi a esso riconosciuti per addivenire a un risultato conforme a quello voluto dall’ordinamento comunitario.

Pertanto, una lettura della direttiva 2004/113/CE coerente con l’evoluzione normativa e giurisprudenziale comunitaria (che ha progressivamente inteso il principio di non discriminazione da regola strumentale all’osservanza del diritto di libera circolazione a diritto fondamentale della persona) e un’interpretazione costituzionalmente orientata del D.Lgs. n° 196/2007 che l’ha recepita (avuto riguardo ai principi affermati negli artt. 2 e 3 Cost. nei termini sopra indicati, con riferimento ai quali non appare giustificabile l’esclusione, dal novero delle discriminazioni fondate sul sesso, di quelle riguardanti l’identità di genere, profilandosi sul punto la necessità di un trattamento omogeneo da garantire con il controllo di ragionevolezza) inducono a ravvisare una discriminazione fondata sul sesso (da intendersi non soltanto nei suoi elementi strettamente biologici, ma anche in quelli psicologici e giuridico-sociali) anche in quella che ha origine nelle questioni riguardanti il genere e che, quindi, possano beneficiare della tutela assicurata dalla citata normativa, oltre che le persone discriminate in ragione dell’aver conseguito la rettificazione del sesso anagrafico, anche quelle che lo sono per aver iniziato la transizione diretta all’acquisizione di una nuova identità di genere e quelle che, pur sentendo di non appartenere al sesso biologico loro assegnato alla nascita, abbiano costruito una diversa identità di genere, limitandosi ad adeguare in modo significativo l’aspetto corporeo e a presentarsi nelle relazioni sociali come appartenente al sesso percepito, senza, quindi, modificare i caratteri sessuali primari, tanto più ove si consideri che proprio nella fase di transizione, nonché nei casi in cui l’incongruenza tra la percezione interiore e il dato biologico non viene ricondotta, con il cambiamento di sesso, a uno dei due termini della dualità uomo/donna, che è maggiore l’esposizione a disapprovazione sociale e, quindi, più elevata è la probabilità di trattamenti sfavorevoli nelle relazioni con i terzi, ivi compreso, per quanto qui rileva, l’accesso a beni e servizi (sul punto v. le conclusioni rassegnate nella menzionata causa C-13/94 P.c. S. e Cornwall County Council dall’Avvocato generale, il quale nella circostanza ebbe ad affermare che “è necessario superare la tradizionale classificazione e riconoscere che, in aggiunta alla dicotomia uomo/donna, esiste uno spettro di caratteristiche, ruoli e comportamenti condivisi tra uomini e donne, cosicché il sesso stesso dovrebbe essere piuttosto concepito come un continuum. Da questo punto di vista è chiaro che sarebbe ingiusto continuare a trattare come illegittimi solamente gli atti di discriminazione fondati sul sesso che sono riferiti agli uomini e donne nel significato tradizionale attribuito a questi termini e rifiutare nel contempo di proteggere coloro che sono trattati in maniera svantaggiosa proprio in ragione del loro sesso e/o della loro identità sessuale”).

Del resto, se l’identità di genere si riferisce all’intima e profonda percezione che ogni persona ha del sesso e di sé come appartenente a un certo genere, una disparità di trattamento che ha origine in tale percezione e nelle sue manifestazioni esteriori per forza di cose si traduce in una discriminazione fondata sul sesso.

Alla luce dei rilievi svolti non vi è, dunque, ragione di procedere al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE ex art. 267 TFUE di cui al verbale di udienza dd. 17.5.2018.

Per quanto poi attiene all’effettiva riferibilità dell’azionata tutela antidiscriminatoria alla condizione soggettiva di parte ricorrente, devesi rilevare che quest’ultima non si è limitata a dedurre il proprio essere transgender, ossia persona di sesso biologico maschile, ma che sente di appartenere al genere femminile, ma ha altresì dimostrato un’effettiva esteriorizzazione della percepita dimensione identitaria.

Risulta per tabulas che a metà settembre 2016 XXXXXXX ebbe a inviare per posta elettronica alla YYYYYYYY copia della sua nuova carta d’identità recante una fotografia che, diversamente da quella allegata al documento d’identità trasmesso a controparte a metà agosto, ne raffigurava sembianze femminili, e che nella documentata corrispondenza intrattenuta ante causam, per il tramite del proprio legale, con XXXXXXX, la YYYYYYYY ne ha sempre declinato al femminile la persona (le allegate missive risultano inviate, fra l’altro, alla “gentile signora dott.ssa XXXXXXX XXXXXXX”), ciò di per sé attestando l’assunzione, da parte ricorrente, di un’immagine corrispondente a quella del sesso di appartenenza nell’ambito delle relazioni sociali.

Inoltre nel certificato dd. 16.1.2016 a firma di un medico psichiatra in servizio alla ASL 3 di Genova (la cui produzione in prima udienza – peraltro dipesa dalla inattesa, perché contrastante con la detta corrispondenza, contestazione svolta da YYYYYYYY nel suo primo scritto difensivo in ordine alla qualità di “persona transgender” di controparte – va ritenuta tempestiva in difetto di specifiche preclusioni processuali [v. Cass., n° 25547/15] e del cui contenuto non vi è ragione di dubitare, stante la provenienza da struttura del servizio pubblico nazionale, oltretutto in epoca anteriore alla vicenda oggetto di causa, ciò significando che non ne è stato chiesto e conseguito il rilascio in funzione del presente giudizio) si attesta che XXXXXXX “a circa 7/8 anni si sentiva si identificava come una femmina, affermando una difficoltà nella percezione del proprio corpo” e che presenta “disturbo d’identità di genere” in difetto di “aspetti psicopatologici significativi o tali da controindicare l’inizio del trattamento ormonale”, il che, valutato in uno al “referto specialistico ambulatoriale” dd. 29.11.2016, ove viene fatto riferimento a un “trattamento ormonale” per disforia di genere, induce a ritenere che parte ricorrente abbia da tempo iniziato un percorso medico-psicologico funzionale al ricongiungimento tra ‘soma e psiche’, il cui momento conclusivo “è individuale e certamente non standardizzabile attenendo alla sfera più esclusiva della personalità” (così la già citata Cass., n° 15138/15), e che comunque già all’epoca dei fatti le fosse effettivamente riferibile quella condizione soggettiva che, secondo la prospettazione esposta nell’atto introduttivo, avrebbe originato il denunciato trattamento discriminatorio.

b la ripartizione dell’onere probatorio

Per le ragioni esposte nel caso di specie sono, dunque, applicabili le disposizioni di cui al D.lgs. n° 198/2006, ivi compreso l’art. 55 sexies, che recita “quando il ricorrente, anche nei casi di cui all’articolo 55-septies, deduce in giudizio elementi di fatto idonei a presumere la violazione del divieto di cui all’articolo 55-ter, spetta al convenuto l’onere di provare che non vi è stata la violazione del medesimo divieto”; di analogo tenore è il 4° co. dell’art. 28 (“delle controversie in materia di discriminazione”), Decreto Legislativo 1° settembre 2011, n° 150, ove si stabilisce che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione”.

Tali disposizioni risultano così formulate in ragione di quanto riportato nel “considerando” n° 22 della direttiva 2004/113/CE (che recita “le norme in materia di onere della prova dovrebbero essere adeguate quando vi sia una presunzione di discriminazione e per l’effettiva applicazione del principio della parità di trattamento; l’onere della prova dovrebbe essere posto a carico della parte convenuta nel caso in cui siffatta discriminazione sia dimostrata”) e del contenuto dell’art. 9, par. 1, della medesima direttiva, per effetto del quale “gli Stati membri adottano le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché le persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento”.

Le citate disposizioni interne vanno, dunque, interpretate in termini tali da assicurare un’effettiva agevolazione probatoria al soggetto che denuncia una condotta discriminatoria.

Al riguardo nella giurisprudenza di legittimità (v. Cass., n° 14206/13) si è ritenuto, in ordine ad altra analoga norma (v. art. 40 D.lgs. n° 198/06 “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’art. 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246”), che il preteso discriminato beneficia di un “alleggerimento del carico probatorio”, nel senso che lo stesso è tenuto ad allegare elementi di fatto da cui possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, ciò solo comportando per la parte convenuta l’onere di dimostrarne l’insussistenza.

Considerato poi che sul punto in questione talune disposizioni di testi normativi che recepiscono direttive comunitarie contro le discriminazioni si riferiscono alle presunzioni di cui all’art. 2729 c.c. (v. art. 4, D.Lgs. n° 215/03 e art. 4, D.Lgs. n° 216/03); che per effetto dell’art. 40 D.Lgs. n° 198/06 l’onere del convenuto di provare l’insussistenza della discriminazione è ravvisabile “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto…idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori”; che, venendo in rilievo direttive comunitarie con contenuto precettivo analogo e medesima ratio, è opportuno interpretare le varie disposizioni in modo da individuare un’uniforme disciplina della ripartizione dell’onere probatorio, appare pienamente condivisibile, avuto riguardo alla finalità del legislatore comunitario di garantire all’asserito discriminato un’effettiva agevolazione probatoria, l’impostazione interpretativa adottata da recente giurisprudenza di merito (Corte Appello Trento n° 14 dd. 23.2.2017, fondatamente richiamata e allegata da parte ricorrente), secondo cui “l’idoneità dei fatti allegati a fondare la presunzione di discriminazione è dunque normativamente individuata nella ‘precisione’ e nella ‘concordanza’ delle circostanze, senza che sia necessaria la ‘gravità’ ex art. 2729 c.c.”; l’inversione dell’onere si colloca, pertanto, in un punto del ragionamento presuntivo “anteriore” rispetto alla completa realizzazione di tutto l’iter imposto dalla citata disposizione codicistica, giacché, diversamente opinando, “verrebbe in ogni caso addossata a chi agisce per la tutela la prova piena del fatto discriminatorio, ancorché raggiunta per via presuntiva”; gli elementi di fatto dedotti dal preteso discriminato “devono quindi essere precisi e concordanti e avere un significato intrinseco che autorizzi a ritenere plausibile la discriminazione”, non risultando, invece, necessario che tali fatti esauriscano “ogni possibile significato e siano incompatibili con una diversa conclusione”; di conseguenza, “il possibile diverso significato dei fatti allegati (e provati se contestati) deve essere dimostrato dal soggetto indicato quale autore della discriminazione”, restando a carico di quest’ultimo l’onere di “dimostrare la presenza di altre circostanze (anteriori, concomitanti ecc.), che tolgono, neutralizzano, impediscono di attribuire ai fatti allegati il significato che viene ad essi ascritto e che è compatibile con il dato di esperienza. Se quest’onere non viene assolto, l’atto discriminatorio va ritenuto provato benché gli elementi di fatto allegati non integrino una prova piena ma lascino un margine di incertezza e quindi siano suscettibili di essere diversamente interpretati”.

c i rapporti intercorsi tra le parti

I fatti allegati in ricorso e documentati nei relativi allegati appaiono effettivamente rappresentativi di una connotazione discriminatoria della condotta tenuta da YYYYYYYY nell’ambito delle trattative intercorse con parte ricorrente tra l’agosto e il settembre 2016 in vista della conclusione di un contratto di locazione relativo alla stanza D.3 dell’immobile sito in Trento, via VVVVVV n° 39 di proprietà della convenuta.

Come già esposto nell’iniziale parte narrativa, XXXXXXX ha dedotto di aver contattato, a metà agosto 2016, l’agenzia CCCCCCC, in persona di PPPPPPP PPPPPPP, perché interessata, unitamente all’amica WWWWWW, alla conduzione in locazione del detto alloggio; di avere nella circostanza fatto presente di essere sviluppatrice di software e di aver espressamente chiesto se ciò impediva la stipulazione del contratto alla PPPPPPP; di esserle stato assicurato dalla PPPPPPP, dopo consultazione con la proprietà, che la mancanza dello status di studentessa non era condizione ostativa alla conclusione dell’affare; di aver successivamente seguito le istruzioni per bloccare la stanza, provvedendo alla compilazione, alla sottoscrizione e all’invio di un modulo denominato “preliminare”, allegandovi sia la prova documentale del pagamento dell’importo € 1.042,00 alla YYYYYYYY a titolo di caparra e dell’importo di € 402,60 alla CCCCCCC come “costi una tantum”, sia (su indicazione della PPPPPPP) la visura camerale relativa alla propria società, il tutto dopo aver nuovamente ribadito di non essere studentessa; di aver inviato il 16 settembre alla YYYYYYYY copia della carta d’identità rilasciatale qualche giorno prima, cui era allegata una foto che la ritraeva con apparenze femminili, a differenza di quella riportata nel documento trasmesso in precedenza alla detta società, ove era raffigurata con sembianze maschili; di aver ricevuto dalla YYYYYYYY nella stessa giornata il contratto di locazione con i propri dati, oltre a varia documentazione accessoria; di essere stata informata, dieci giorni dopo, quindi il 26 settembre, che la consegna dell’alloggio sarebbe stata effettuata il 1° ottobre; di aver ricevuto il 29 settembre una telefonata dalla PPPPPPP, da cui nella circostanza apprendeva che in YYYYYYYY aveva suscitato perplessità il fatto che le due foto allegate ai detti documenti d’identità raffigurassero “persone diverse”; di aver allora reso noto il proprio status di persona transgender alla PPPPPPP, la quale le aveva fatto presente che alla YYYYYYYY tendevano a essere selettivi e che FFFFFFF, responsabile commerciale della società, era persona “all’antica” e temeva un uso improprio del locale, per poi aggiungere che il predetto aveva altresì rilevato l’assenza di iscrizione universitaria; di aver il giorno stesso incontrato il FFFFFFF, il quale nell’occasione aveva fatto esclusivo riferimento alla mancanza della detta iscrizione, chiedendo se fosse possibile effettuarla; di non aver poi conseguito la materiale disponibilità dell’alloggio soltanto in ragione della propria condizione di persona trans, e non per l’assenza di iscrizione universitaria.

Tale prospettazione – secondo la quale, quindi, YYYYYYYY si sarebbe determinata a non stipulare il contratto di locazione in ragione della detta condizione soggettiva di XXXXXXX, il che, risolvendosi in un trattamento di sfavore rispetto a quello che sarebbe stato riservato a persona non portatrice di contrasto tra l’identità di genere e il sesso cromosomico, è qualificabile in termini discriminazione diretta fondata sul sesso per le ragioni sopra esposte – trova conforto nel documentato contenuto di alcuni messaggi whatsapp intercorsi nell’agosto e nel settembre 2016 tra XXXXXXX e PPPPPPP PPPPPPP, sia in ordine all’assunto secondo cui sino al 29 settembre l’iscrizione universitaria non era stata ritenuta essenziale ai fini della stipulazione del contratto di locazione, sia in relazione al fatto che a fine settembre la condizione di transgender di XXXXXXX è stata oggetto di discussione tra la stessa parte ricorrente e la PPPPPPP, nonché tra quest’ultima e FFFFFFF, responsabile commerciale di YYYYYYYY.

Con riguardo alla prima questione va tenuto presente che:

  • nel rispondere a XXXXXXX, che alle ore 16,09 del 16 agosto, in relazione alle istruzioni da seguire per la locazione dell’alloggio oggetto di causa, chiedeva “…Se mi conferma che le stanze sono ancora libere e che non è un

problema riguardo all’iscrizione all’università, proseguiamo col pagamento”, la PPPPPPP rispondeva “certo! Procedi pure. Segui le indicazioni nel preliminare!!” (v. doc. n° 5 di parte ricorrente);

  • a fronte della successiva domanda di XXXXXXX “iscrizione all’università quindi non la allego ?”, la PPPPPPP rispondeva “ Mettici un contratto di lavoro se lo hai”, per poi rispondere “ok” a XXXXXXX che scriveva “ho una SRL semplificata. Allego la visura ok ?” (v. doc. n° 5 di parte ricorrente);
  • alle ore 7,45 del 30/9 XXXXXXX chiedeva “e riguardo alla loro risposta quando avevi inoltrato la mia domanda se ci fossero problemi per via della mia non iscrizione ?”; alle ore 8,16 PPPPPPP rispondeva “all’inizio non avevano detto nulla del fatto che non è arrivata la tua iscrizione ma la visura, ieri sera non mi hanno detto più nulla ma ho pensato cosa potrebbero dire se ti iscrivi solo a un corso singolo…direbbero che è fatto apposta e che serve per l’iscrizione x per il tempo del contratto…” (v. doc. n° 5 di parte ricorrente);
  • la conversazione proseguiva poi sull’opportunità di procedere a un’iscrizione a singoli corsi universitari, di cui si valutavano fattibilità e costi, ciò significando che sino ad allora nei contatti XXXXXXX/PPPPPPP la detta iscrizione non era stata ritenuta condizione imprescindibile per acquisire la disponibilità dell’alloggio (v. doc. n° 23 di parte ricorrente);
  • nel messaggio delle ore 15,45 del 30/9 PPPPPPP, con riguardo alla possibilità che XXXXXXX optasse per una diversa soluzione abitativa prospettata da YYYYYYYY in alternativa all’immobile oggetto di causa, asseriva “pretendi che faccia un prezzo più basso di quello che propone, visto che è lui [FFFFFFF, n.e.] che cambia le carte in tavola”) (v. doc. n° 22 di parte ricorrente), con ciò evidentemente alludendo a una considerazione –  imprevista e differente rispetto a quella precedente – ascritta da YYYYYYYY all’iscrizione universitaria, essendo incontroverso che la mancanza di tale iscrizione è stata l’unica condizione ostativa alla stipulazione del contratto espressamente dedotta da parte convenuta, di talché “il cambio di carte in tavola” menzionato dalla PPPPPPP non può che essere consistito nella richiesta della detta iscrizione, ritenuta superflua dalla società convenuta sino al 29 settembre;
  • nello stesso depone il messaggio delle ore 20,40 del 29/9 (“quindi se trovi un modo di dichiararti studente loro non hanno più carte da giocare”), in quanto sembra sottintendere una contrarietà di YYYYYYYY alla conclusione dell’affare per un motivo ulteriore e diverso da quello della mancanza dell’iscrizione universitaria, ma non spendibile apertis verbis, ragion per cui appare attestare la natura sostanzialmente cavillosa della rilevata lacuna.

Nel corso della sua seconda testimonianza del 17.5.2018 la PPPPPPP non ha indicato validi e convincenti elementi contrari ai detti rilievi, atteso che, in ordine ai citati messaggi,  si è limitata ad affermare “non ricordo cosa intendevo dire”, con ciò rendendo una dichiarazione che appare assai poco credibile e, quindi, reticente, ove solo si considerino le particolari modalità di svolgimento dell’intera vicenda, le conseguenze che ne sono derivate e anche il suo diretto coinvolgimento.

Il tenore degli acquisiti messaggi (in nessuno dei quali la PPPPPPP ha fatto presente a parte ricorrente di averla sin dall’inizio resa edotta della necessità dell’iscrizione universitaria e che, quindi, non aveva alcuna ragione di dolersi della contrarietà di YYYYYYYY alla formalizzazione dell’accordo in difetto della detta iscrizione) va valutato in uno alla condotta della società convenuta, la quale ebbe a incassare e a trattenere la somma di € 1.042,00 versatale da XXXXXXX quale “caparra affitto appartamento TN_VNN39_D3-preliminare 3000” (con ciò consentendo a parte ricorrente di assumere l’impegno “a firmare il contratto di locazione”, secondo quanto riportato nel modulo cd. “preliminare”) nella piena consapevolezza che, al momento dell’espletamento dei veri incombenti indicati dalla PPPPPPP, XXXXXXX difettava dello status di studente (la circostanza è incontroversa), tant’è che in luogo della richiesta certificazione d’iscrizione universitaria, aveva allegato una visura camerale che, documentandone la veste di socio e amministratore unico di srl costituita il 23.1.2013, dunque in epoca successiva al rilascio della carta d’identità, parimenti allegata, ne attestava la qualità di soggetto dedito ad attività lavorativa da oltre tre anni, con conseguente irrilevanza, ai fini per cui si procede, della veste di studente riportata nel detto documento d’identità risalente al 2012.

Il contenuto di alcuni messaggi whatsapp documentato in atti induce altresì a ritenere che prima dell’incontro del 29 settembre era stato realmente oggetto di discussione il fatto che nella fotografia allegata alla carta d’identità inviata alla YYYYYYYY a metà agosto XXXXXXX aveva un aspetto maschile, mentre nella fotografia della carta d’identità trasmessa alla convenuta dopo circa un mese appariva senza barba e con un’acconciatura di capelli decisamente femminile.

Ciò lo si desume in primo luogo dalla conversazione telematica intercorsa tra XXXXXXX e PPPPPPP dalle ore 7,46 e alle ore 8,25 del 30 settembre.

A fronte delle domande di XXXXXXX (“riguardo la ‘foto e riguardo l’attività ‘impropria degli spazi/il decoro cos’aveva detto?”; “e riguardo la loro risposta quando avevi inoltrato la mia domanda se ci fossero problemi per via della mia non-iscrizione”), la PPPPPPP affermava “all’inizio non avevano detto nulla del fatto che non è arrivata la tua iscrizione ma la visura”, con ciò rispondendo, quindi, in ordine all’iscrizione; subito dopo aggiungeva, nello stesso messaggio, “ieri sera non mi hanno detto più nulla ma ho pensato cosa potrebbero dire se ti iscrivi solo a un corso singolo…direbbero che è fatto apposta e che serve l’iscrizione x per il tempo del contratto”, intendendo verosimilmente fare riferimento con il primo periodo (“ieri sera non mi hanno detto più nulla”) a una questione (ulteriore e diversa da quella relativa all’iscrizione) non dibattuta la sera prima, ma evidentemente discussa in precedenza, il cui oggetto appare identificabile, sia pure non in termini del tutto chiari, nella “foto” menzionata da XXXXXXX, visto che questa costituiva l’unico ulteriore oggetto dell’altra domanda che era stata posta alla teste.

La scarsa chiarezza della risposta spiega l’immediata ripetizione della domanda sulla “foto” da parte di XXXXXXX (“e sul fatto che non ero la stessa persona della carta d’identità’?”), a cui la PPPPPPP risponde “non hanno ribadito, solo che non sei più studente”.

Stante il significato del verbo “ribadire” e la virgola che lo segue a separarlo dalle parole successive, la teste intese verosimilmente confermare quanto già detto qualche minuto prima, ossia che la sera precedente non si era più parlato della “foto” e che, quindi, il personale YYYYYYYY (da individuare nel responsabile commerciale FFFFFFF che curava la pratica) nulla aveva “ribadito”, ossia riaffermato, sul punto; il che porta a credere che della questione si era, invece, parlato in precedenza, tant’è che, a fronte del riferimento da parte di XXXXXXX alla “foto” (di tutta evidenza individuabile in quella allegata al documento d’identità trasmesso a metà settembre, non ravvisandosi elementi di fatto a sostegno di diversa e altrettanto ragionevole interpretazione), la PPPPPPP non manifestò alcuna sorpresa, mostrando di aver ben compreso di quale foto si trattasse, a conferma, quindi, che ella ne aveva già discusso sia con XXXXXXX, sia (ancora prima) con il FFFFFFF (nella cui materiale disponibilità erano i due documenti di identità inviati da parte ricorrente).

Di conseguenza, va ritenuta reticente la PPPPPPP allorché, nel deporre all’udienza del 17 maggio 2018, ha dichiarato “non ricordo invece a cosa intese fare riferimento XXXXXXX  XXXXXXX con la domanda sulla foto”; dopo una breve sospensione dell’incombente istruttorio disposta in ragione del disagio emotivo palesato in quel frangente e attestato in verbale, la teste, con riguardo al proprio messaggio in cui ha scritto “non hanno ribadito, solo che non sei più studente”, ha affermato “secondo me è un errore, forse intendevo scrivere ‘no, hanno ribadito solo che non sei più studente’; a leggerlo oggi mi viene da dire così, non so all’epoca cosa ho voluto dire”, così dandone un’interpretazione che, per sua stessa ammissione, non è fondata su uno specifico attuale ricordo del fatto e che presuppone il compimento di errori ortografici, sintattici e di punteggiatura.

Parimenti di assai dubbia veridicità risulta la deposizione della PPPPPPP nella parte in cui ha dichiarato che la domanda di XXXXXXX relativa alla “attività impropria degli spazi” riguardò “il fatto che per YYYYYYYY non andava bene che dell’immobile potesse essere fatto un uso promiscuo, come abitazione, come ufficio”, avendo con ciò la teste fatto riferimento a una destinazione dell’alloggio per ufficio che non risulta essere mai stata ipotizzata da XXXXXXX, né censurata da YYYYYYYY, di talché è plausibile collegare la preoccupazione della società convenuta per l’“uso” dell’immobile, implicitamente confermata dalla PPPPPPP, alla condizione soggettiva di parte ricorrente, verosimilmente venuta in rilievo allorché in YYYYYYYY fu notata la differenza fra la foto della carta d’identità inviata a metà agosto e quella allegata alla carta d’identità trasmessa a metà settembre.

In tal senso depongono, oltre ai citati messaggi della mattina del 30 settembre, altri tre messaggi inviati dalla PPPPPPP a parte ricorrente il pomeriggio dello stesso giorno – quello delle ore 15,39 (“Andrea, non aver timore, e pretendi rispetto!”); quello di due minuti dopo (“Non rispondere se ti fa domande personali, rimettilo al suo posto”); e quello delle ore 15,50 (“E poi però se lo prendi ricordati che io ho garantito x voi…gli ho detto che con i vostri comportamenti responsabili sarete voi stesse a dimostrare loro quanto si stanno sbagliando”) – atteso che, letti anche in relazione alla questione “foto”, appaiono tutti allusivi, in difetto di elementi di segno contrario, a modi di essere e di agire ragionevolmente riferibili, nelle intenzioni della mittente, al fatto che in precedenza fosse stata presa in considerazione la condizione di transgender di XXXXXXX, desumibile dal confronto fra le due fotografie allegate ai due documenti d’identità trasmessi a YYYYYYYY.

Tale collegamento logico, con riguardo al messaggio delle ore 15,41, è stato, di fatto, confermato dalla PPPPPPP nel corso della deposizione del 28 settembre 2017, sia pure in relazione non già a quanto in precedenza espostole sul punto dal FFFFFFF (nella circostanza la PPPPPPP ha, infatti, sostenuto “su tale condizione soggettiva [quella di transgender, n.e.] di XXXXXXX il FFFFFFF non mi ha mai detto nulla”; e ciò ha ribadito anche nella deposizione del 17 maggio 2018), ma per quanto riferitole dalla stessa parte ricorrente, avendo la teste affermato di averlo scritto “perché XXXXXXX mi aveva fatto credere di essersi trovata, nella vicenda oggetto di causa, in una situazione di svantaggio solo a causa della sua condizione personale di transgender”; affermazione, questa, che però appare poco credibile, ove si consideri che i contatti con il FFFFFFF che hanno poi portato all’incontro a tre (FFFFFFF/PPPPPPP/XXXXXXX) del 29/9 sono stati tenuti dalla PPPPPPP (la circostanza è incontroversa), la quale, di conseguenza, doveva essere edotta delle reali ragioni impeditive della consegna dell’alloggio per YYYYYYYY e, quindi, era senz’altro nelle condizioni di confutare la detta convinzione di XXXXXXX, ove effettivamente infondata; ciò nondimeno nessun messaggio della PPPPPPP, fra quelli documentati in atti, appare diretto a persuadere parte ricorrente dell’insussistenza di qualsivoglia connotazione discriminatoria nella determinazione di YYYYYYYY, in persona del suo responsabile commerciale FFFFFFF, di non addivenire alla conclusione dell’affare in difetto di iscrizione universitaria.

Parimenti poco credibile appare la PPPPPPP quando ha spiegato il citato messaggio delle ore 15,50, affermando che intese riferirsi “al fatto che FFFFFFF aveva detto che non erano affidabili [XXXXXXX e l’amica WWWWWW, n.e.], perché dicevano una cosa e ne facevano un’altra con riferimento all’iscrizione universitaria”, visto che sotto questo profilo alcuna criticità è mai emersa in ordine alla WWWWWW, né consta che parte ricorrente abbia mai garantito la sua iscrizione universitaria; di talché, tenuto conto dei menzionati messaggi della mattinata del 30/9 relativi alla foto, appare molto più ragionevole ritenere che la “garanzia” della PPPPPPP si riferisse ai timori manifestati dal FFFFFFF in ordine alle modalità d’utilizzazione dell’immobile, probabilmente connessi a quei ricorrenti pregiudizi sociali nei confronti degli individui che non si conformano alle tradizionali norme del sesso e del genere.

In sostanza, una valutazione delle menzionate risultanze istruttorie in coordinazione tra loro induce a ritenere che la condizione di transgender di XXXXXXX sia stata oggetto di discussione tra FFFFFFF e PPPPPPP e che, quindi, sia di dubbia veridicità la deposizione di quest’ultima laddove ha affermato “su tale condizione personale di XXXXXXX il FFFFFFF non mi ha mai detto nulla”, di talché, avuto riguardo anche alle altre incongruenze sopra evidenziate, vi è ragione di trasmettere gli atti al Pubblico Ministero, che provvederà a valutare se la testimonianza de qua sia riconducibile nel campo applicativo dell’art. 372 c.p.c..

Considerato poi che i contatti preparatori dell’incontro del 29/9 sono stati tenuti dalla PPPPPPP con il FFFFFFF (la circostanza è incontroversa); che dalle menzionate risultanze documentali può desumersi che nel corso di quei contatti fu oggetto di discussione, in relazione alla programmata stipulazione del contratto di locazione, il fatto che nelle fotografie allegate alle due diverse carte d’identità inviate a YYYYYYYY parte ricorrente fosse raffigurata con sembianze maschili in quella più risalente e con apparenze femminili in quella più recente; che, nel deporre in udienza, il FFFFFFF ha dichiarato “avevo notato che ai due documenti di identità erano allegate due foto diverse, ma non avevo dato alcun peso al fatto che in una XXXXXXX avesse i capelli corti e nell’altra i capelli lunghi”, con ciò implicitamente negando che sia stato lui a innescare la successiva discussione sul punto in questione con la PPPPPPP, come, invece, sembra desumersi da una complessiva valutazione delle menzionate risultanze documentali, si impone la trasmissione, all’organo inquirente per le determinazioni di competenza, anche del verbale della deposizione resa dal predetto teste.

Per tutto quanto esposto può, dunque, ritenersi che, come richiesto dall’art. 28 D.lgs. n° 150/11 e dall’art. 55 sexies del D.lgs. n° 198/06, XXXXXXX ha dedotto e provato elementi di fatto da cui desumere che la mancata sua iscrizione universitaria, essendo nota ab initio a YYYYYYYY e non ritenuta da questa ostativa alla conclusione dell’affare per tutto il corso delle trattative, sia stata dedotta a fine settembre solo pretestuosamente quale condizione impeditiva della consegna dell’alloggio e che, in realtà, il contratto di locazione non sia stato stipulato per la propria condizione di transgender, con conseguente violazione del divieto di discriminazione di cui all’art. 55 ter del citato D.Lgs. n° 198/06.

Di conseguenza, spettava alla società convenuta provare l’insussistenza della detta violazione.

Tale onere probatorio non appare adeguatamente assolto.

Devesi in primo luogo rilevare che a sostegno della prospettazione svolta da parte convenuta in comparsa di costituzione non sovvengono le deposizioni dei testi FFFFFFF e PPPPPPP, sia perché la ritenuta dubbia veridicità delle dichiarazioni da loro rese in ordine all’effettiva rilevanza attribuita nel corso delle trattative alle fotografie di XXXXXXX allegate alle due carte d’identità ne inficia irrimediabilmente la credibilità soggettiva anche in ordine  alle altre circostanze di fatto (e in particolare laddove l’uno ha riferito di aver fatto presente alla PPPPPPP a metà agosto che “l’iscrizione era necessaria solo al momento della sottoscrizione del contratto e che quindi in quel momento la mancanza non impediva la prosecuzione della trattativa” e che “la successiva persistente mancanza di iscrizione non avrebbe però consentito la stipulazione del contratto, in quanto si trattava di alloggi riservati soltanto a studenti”; e nella parte in cui l’altra ha dichiarato di aver detto a XXXXXXX “che si poteva andare avanti nella trattativa se si fosse iscritto all’università”, affermazione che peraltro contrasta, come sopra evidenziato, con i documentati messaggi whatsapp), sia perché la loro intrinseca attendibilità è oltretutto significativamente minata dal comune diretto coinvolgimento nella vicenda oggetto di causa, ove si consideri (i) che, stando alla prospettazione svolta in ricorso, fu proprio il FFFFFFF a esprimere “perplessità” alla PPPPPPP in ordine alla condizione soggettiva di XXXXXXX desumibile dalle dette foto (assunto che sembra confermato dagli elementi probatori sopra esaminati), il che di per sé gli attribuiva un interesse che avrebbe potuto legittimarne la partecipazione al presente giudizio quale eventuale ulteriore destinatario dell’azionata pretesa risarcitoria, oltre che renderlo comunque passibile di eventuali azioni di regresso o anche soltanto di provvedimenti disciplinari da parte di YYYYYYYY; (ii) che parimenti la PPPPPPP appare tutt’altro che disinteressata all’esito del procedimento, potenzialmente foriero di ripercussioni negative sul suo rapporto professionale con YYYYYYYY, potendo esserle imputata un’imperita e negligente gestione della trattativa contrattuale oggetto di causa.

Va poi considerato, da un lato, che, come fondatamente eccepito dalla difesa di parte ricorrente, lo status di studente universitario del conduttore non era elemento essenziale del contratto di locazione, né sul piano soggettivo, non risultando espressamente menzionato nel regolamento negoziale tipo predisposto da YYYYYYYY, né sul piano oggettivo, stante l’espresso riferimento ivi contenuto al 1°, e non al 2° co., dell’art. 5 (“contratti di natura transitoria”), legge n° 431/98; e dall’altro che, diversamente da quanto esposto dalla YYYYYYYY sul proprio sito (ove l’utenza era limitata ai soli “studenti”), le unità immobiliari ubicate nel fabbricato di via VVVVVV denominato “Residenza Universitaria 2.0” erano destinate, secondo l’annuncio pubblicitario predisposto dalla PPPPPPP, ma indirettamente riferibile anche a YYYYYYYY (in quanto quest’ultima, che si avvaleva dell’operato dell’agenzia CCCCCCC per il reperimento di potenziali conduttori, era a conoscenza del detto annuncio, come si desume dalla deposizione della teste GGGGGG, e, per quanto consta, non ebbe mai ad attivarsi per conseguirne una modifica nella parte relativa all’indicazione della “utenza”, con ciò, di fatto, condividendone l’ampliamento effettuato dalla detta agenzia), anche a “dottorandi” e “ricercatori”, locuzione, quest’ultima, non accompagnata dall’aggettivo “universitari”, sicché idonea a indicare un’ampia categoria a cui, poteva essere ricondotta anche la figura professionale di XXXXXXX (“sviluppatore di software” e titolare di impresa artigiana, iscritta al registro imprese “nell’apposita sezione speciale in qualità di start-up innovativa” e dedita, fra l’altro, a “gestione processi di informatizzazione e innovazione delle tecniche di gestione aziendale”, stando all’oggetto sociale riportato nell’allegata visura camerale in disponibilità di YYYYYYYY sin dalla metà di agosto 2016) in base a un’interpretazione estensiva della nozione di ricercatori riportata nella “raccomandazione della Commissione dell’11 marzo 2005 riguardante la Carta europea dei ricercatori e un codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori”, ove sono definiti come “professionisti impegnati nella concezione o nella creazione di nuove conoscenze, prodotti, processi, metodi e sistemi nuovi e nella gestione dei progetti interessati”.

Non appare poi ascrivibile decisivo rilievo contrario alla prospettazione svolta in ricorso al fatto che nell’allegato testo contrattuale fosse fatto riferimento a un uso dell’immobile da parte del conduttore “per motivi di studio”, sia perché nulla avrebbe impedito di modificare tale causale dello schema contrattuale tipo all’atto della stipulazione per adeguarlo all’effettiva situazione personale di parte ricorrente; sia perché l’attività di quest’ultima poteva effettivamente anche rientrare in una ampia nozione di studio e ricerca e, quindi, essere ugualmente valorizzata, con il supporto di documentazione in grado di attestarne le modalità di svolgimento in un determinato arco temporale, quale causa giustificativa di un uso transitorio dell’immobile; sia comunque perché YYYYYYYY non aveva ragione di credere che XXXXXXX fosse “studente”, visto che già ad agosto ne aveva ricevuto una visura camerale che ne attestava lo svolgimento di attività lavorativa da oltre tre anni (quindi in epoca successiva al rilascio della carta d’identità risalente al 2012, ove era fatto riferimento alla detta veste), e non anche certificazione idonea a documentarne l’iscrizione universitaria (che, peraltro, secondo le “istruzioni per bloccare appartamento” riportate nel modulo predisposto dalla PPPPPPP, doveva essere trasmessa, unitamente ad altra documentazione, “entro due giorni” dal versamento degli importi richiesti).

Avendo, ciò nonostante, YYYYYYYY incassato e trattenuto la caparra – il cui versamento impegnava il cliente a stipulare il contratto di locazione, secondo quanto riportato nel detto modulo, ove si precisava altresì che, in caso di diversa determinazione, la somma non sarebbe stata restituita, di talché dalla sottoscrizione del modulo derivavano effetti giuridici anche per YYYYYYYY, nella misura in cui le consentiva di trattenere l’importo nell’eventualità in cui il potenziale conduttore non avesse tenuto fede all’-, inviato prima il contratto tipo, poi quello personalizzato con i dati di parte ricorrente, e soprattutto garantito l’“effetto prenotativo” dell’invio del modulo e del pagamento degli importi richiesti, nel senso che l’alloggio venne effettivamente riservato a XXXXXXX e all’amica WWWWWW, tant’è che a fine settembre vennero anche indicati i tempi della relativa consegna, il tutto senza aver ricevuto medio tempore alcuna assicurazione che prima della stipulazione del contratto sarebbe sopravvenuta l’iscrizione universitaria, vi è ragione di ritenere che la società convenuta ebbe, di fatto, a considerare non decisiva tale iscrizione; come peraltro affermato in epoca non sospetta dalla PPPPPPP nei messaggi sopra menzionati del pomeriggio del 16/8 (in cui spiegava a XXXXXXX che non fosse necessaria l’iscrizione universitaria, tant’è che la sollecitava prima ad allegare “un contratto di lavoro” e poi la visura camerale della “SRL semplificata” di cui parte ricorrente era socia), di quello delle ore 8,16 del 30/9 (“all’inizio non avevano detto nulla del fatto che non è arrivata la tua iscrizione ma la visura…”, il che contrasta con la versione esposta in udienza, secondo cui “sin dall’inizio FFFFFFF aveva detto che fosse necessaria l’iscrizione al momento della stipulazione del contratto”), e di quello delle ore 15,45 del 30/9 (“pretendi che faccia un prezzo più basso di quello che propone, visto che è lui [FFFFFFF, n.e.] che cambia le carte in tavola”), tutti allusivi a un’intesa per la successiva formalizzazione del contratto di locazione indipendentemente dall’iscrizione universitaria.

Il che peraltro appare coerente con la condotta tenuta dalla società convenuta in vista della locazione degli altri alloggi del fabbricato sito in via VVVVVV.

Infatti, per quanto emerso in corso di causa, svariati conduttori (***************************************) hanno documentato la loro iscrizione universitaria soltanto nell’anno 2017 e oltretutto su espressa richiesta inviata da YYYYYYYY dopo la notificazione del ricorso introduttivo, ciò significando che all’epoca della sottoscrizione dei detti contratti e nei mesi immediatamente successivi la società convenuta non aveva acquisito alcuna prova documentale della loro iscrizione all’università, né (una volta ritenuta inattendibile la deposizione del teste FFFFFFF) risulta provato aliunde che la sussistenza di tale requisito fosse accertata in altro modo prima della formalizzazione dell’accordo negoziale.

A riprova che l’iscrizione universitaria del conduttore non era condizione imprescindibile per la locazione dell’unità abitativa e che prima della sottoscrizione del regolamento negoziale la società convenuta non effettuava specifici accertamenti sul punto sovviene la documentazione in atti relativa a tale BBBBB che, sollecitata, come gli altri conduttori, con mail del febbraio 2017 dal personale YYYYYYYY, a documentare la detta iscrizione, rispose di frequentare ancora l’istituto di scuola media superiore, della qual cosa evidentemente YYYYYYYY non era edotta.

Di conseguenza non può dirsi dimostrato che l’occupazione dei detti alloggi da parte di soli studenti, attestata dalla teste GGGGGG, sia stata il risultato di un’effettiva e accurata verifica da parte della società convenuta in ordine all’avvenuta iscrizione universitaria, il che ridimensiona la valenza probatoria del dato in questione, non apparendo ascrivibile sul punto decisivo rilievo neppure alle mail allegate da parte convenuta al fine di dimostrare il rigetto delle richieste di locazione proveniente da tre soggetti non studenti, ove si consideri che nulla consta in ordine alla risposta di YYYYYYYY alle richieste di informazioni prodotte come doc. nn. 14 e 15, che, quindi sono sostanzialmente neutre, e che appare parimenti poco significativo il diniego opposto a tale Carmela, trattandosi di pensionata necessitante di alloggio per motivi familiari, dunque di soggetto non riconducibile all’utenza menzionata negli annunci pubblicitari dedotti in atti.

In definitiva, considerato che al 29 settembre la veste di persona dedita ad attività lavorativa di XXXXXXX non costituiva circostanza nuova e diversa rispetto alla situazione di fatto palesata a metà agosto, quando YYYYYYYY, pur sapendo, in ragione della visura camerale che le era stata trasmessa, che parte ricorrente aveva un’occupazione lavorativa e non era iscritta all’università (tale consapevolezza la si desume anche dalla deposizione del FFFFFFF), consentì l’espletamento delle operazioni necessarie per “bloccare” l’alloggio (senza aver, per quanto consta, né ricevuto alcuna rassicurazione che l’iscrizione sarebbe stata effettuata prima della consegna dell’unità abitativa, né rimarcato la necessità dell’incombente in questione ai fini della stipulazione del contratto) e che, invece, il quid novi venuto in rilievo a fine settembre, allorché YYYYYYYY ritenne che in difetto di iscrizione universitaria non si potesse procedere alla conclusione del contratto, è rappresentato unicamente dalla conoscenza della condizione soggettiva di transgender di XXXXXXX, che, quindi, in via presuntiva assurge a unico elemento effettivamente ostativo per YYYYYYYY alla locazione dell’alloggio, può ritenersi, alle luce dei rilievi sopra svolti, che la società convenuta, gravata dall’onere di provare l’insussistenza della denunciata discriminazione per le ragioni innanzi esposte, non abbia adeguatamente dimostrato che in una situazione analoga, ovvero a un paio di giorni dalla pattuita consegna del locale e dopo una trattativa nel corso della quale la detta iscrizione non era stata ritenuta essenziale, la stessa decisione sarebbe stata assunta anche nei confronti di persona non transgender, con profilo professionale simile a quello del XXXXXXX, non del tutto incompatibile con la tipologia di utenti (come sopra  individuata) cui era destinato l’alloggio in questione; il che consente di ritenere integrata una discriminazione diretta riconducibile nel campo applicativo dell’art. 55 bis, 1° co., D.Lgs. n° 198/06, che la ravvisa “quando, a causa del suo sesso, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe stata trattata un’altra persona in una situazione analoga”.

Nel richiedere espressamente soltanto nella fase finale della trattativa l’iscrizione universitaria di controparte, non ritenuta decisiva sino a quel momento, deducendone, quindi, la mancanza in termini di condizione ostativa alla stipulazione del contratto, con la conseguenza di porre parte ricorrente nella necessità di effettuare la detta iscrizione per la formalizzazione dell’accordo locatizio e, quindi, di prendere in breve termine una decisione che verteva su questione rilevante (quale senz’altro è, anche sul piano economico, la prosecuzione degli studi dopo il conseguimento di una laurea triennale e in concomitanza con lo svolgimento di attività lavorativa) e che XXXXXXX non aveva programmato di assumere in quel momento, YYYYYYYY ha, di fatto, frapposto un ostacolo all’accesso al bene-abitazione alla controparte, con ciò tenendo una condotta che, per quanto detto, appare in rapporto causale con la condizione soggettiva di transgender di XXXXXXX, senza che siano ravvisabili adeguati elementi di prova da cui desumere che, in presenza delle medesime circostanze, analogo contegno sarebbe stato tenuto anche nei confronti di persona priva della detta condizione.

Appare, dunque, fondato, in difetto di idonea prova contraria, addivenire alla conclusione che l’assenza di iscrizione universitaria sia stata solo pretestuosamente indicata quale causa giustificativa del diniego opposto alla conclusione dell’affare e che, non essendosi in precedenza considerata la detta iscrizione come condicio sine qua non per la consegna dell’alloggio, non sia valorizzabile a sostegno della prospettazione di parte convenuta la disponibilità della stessa a stipulare il contratto di locazione ove fosse sopravvenuto il detto requisito mancante nel termine all’uopo assegnato a controparte.

Per tutto quanto detto si deve accertare e dichiarare, in ragione della disposizione normativa da ultimo citata, la natura discriminatoria della condotta tenuta da YYYYYYYY in danno di XXXXXXX nel corso delle trattative dirette alla locazione a uso abitativo di locale all’interno dell’immobile sito in Trento, via VVVVVV n° 39.

d.la quantificazione del danno

Il 5° co., dell’art. 28, D.lgs. n° 150/11 dispone che con l’ordinanza che definisce il giudizio, il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale.

Il 27° “considerando” della direttiva 2004/113/CE recita “Gli stati membri dovrebbero prevedere sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive applicabili in caso di violazione degli obblighi risultanti dalla presente direttiva”.

La condotta tenuta da YYYYYYYY ha senz’altro arrecato un pregiudizio non patrimoniale alla parte ricorrente, avendone leso il diritto alla parità di trattamento nell’accesso a un bene essenziale, qual è l’abitazione,

Avuto riguardo, quindi, alla rilevanza di tale bene, diretto a soddisfare una primaria esigenza di vita, all’apprezzabile efficienza lesiva della dignità personale ascrivibile alla ritenuta condotta discriminatoria, alla valenza dissuasiva attribuibile all’importo risarcitorio in ragione di quanto previsto dalla direttiva comunitaria di riferimento, stimasi equo quantificare all’attualità nella misura omnicomprensiva di € 10.000,00 la somma dovuta da YYYYYYYY a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.

  1. Sulle domande sub E ed F

Tenuto conto che la denunciata condotta illecita ha cessato i suoi effetti e che non ne risultano reiterazioni e considerate le concrete modalità di svolgimento della vicenda, si ritiene che non sussistano le condizioni per l’adozione degli ulteriori provvedimenti sanzionatori richiesti da parte ricorrente ai punti E ed F delle conclusioni rassegnate nell’atto introduttivo.

4.Sulla domanda subordinata sub G

Non consta, infine, che la condotta tenuta da YYYYYYYY nel corso delle trattative contrattuali, seppure non conforme al disposto dell’art. 1337 c.c. (apparendo ingiustificato per quanto esposto il rifiuto di sottoscrivere il contratto di locazione, sulla cui stipulazione parte ricorrente aveva, invece, riposto un affidamento, da ritenere ragionevole alla luce degli acquisiti elementi probatori), abbia arrecato a XXXXXXX un danno non patrimoniale ulteriore e diverso da quello sopra liquidato; e neppure vi è prova di un danno patrimoniale, in relazione al quale valgono le argomentazioni svolte per le domande sub A e C.

La pretesa risarcitoria sub G va, dunque, rigettata.

  1. Le spese di lite

La novità dell’esaminata questione di diritto, l’oggettiva controvertibilità delle acquisite risultanze istruttorie e l’accoglimento soltanto parziale delle domande di parte ricorrente sono valorizzabili ai fini di una parziale compensazione delle spese di lite, in misura che appare congruo quantificare in ½; la parte restante, liquidata come da dispositivo in base ai valori medi previsti dal DM n° 55/14 per le cause di valore indeterminabile (tale essendo quella introdotta con domanda di accertamento della sussistenza di condotta discriminatoria), segue la soccombenza e, pertanto, deve gravare sulla società convenuta.

P.Q.M.

Il Tribunale, in composizione monocratica, disattesa ogni diversa domanda, istanza, deduzione ed eccezione, così provvede:

  • accerta e dichiara la natura discriminatoria della condotta tenuta da YYYYYYYY in danno di XXXXXXX nel corso delle trattative dirette alla locazione a uso abitativo di locale all’interno dell’immobile sito in Trento, via VVVVVV n° 39;
  • per l’effetto condanna YYYYYYYY a pagare, a titolo di risarcimento del danno, a XXXXXXX la somma di € 10.000,00;
  • rigetta le altre domande di parte ricorrente;
  • compensa in misura di ½ le spese di lite e condanna YYYYYYYY a rifondere a XXXXXXX la parte restante, che liquida in € 3.627,00 per compenso, € 143,00 per esborsi, oltre rimborso spese forfettarie del 15%, Iva e Cpa come per legge;
  • dispone che copie dei verbali delle udienze del 28.9.2017 e del 17.5.2018, nelle parti relative alle deposizioni rese dai testi PPPPPPP PPPPPPP e FFFFFFF, siano trasmesse, a cura della cancelleria, al Pubblico Ministero in sede per le determinazioni di competenza.

Si dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, anche indiretti, di parte ricorrente (art. 52 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196). Si comunichi.

Così deciso in Trento in data 31.7.2018

Il giudice dr. G. Barbato