Maria Vittoria Ballestrero – Discriminazione, ritorsione, motivo illecito. Distinguendo (S. Cerbone, 17-18 ottobre 2015).

 

  1. Scimmiottando il titolo di un noto libro di Guastini[1], ho messo “distinguendo” nel titolo di questo mio breve intervento. L’intenzione è infatti quella di tenere distinte nozioni che – a mio parere – richiedono di essere distinte.

Punto di partenza è la nozione di discriminazione, che do in buona misura per scontata, limitandomi ai pochi cenni indispensabili ad affrontare i problemi nei quali attualmente emerge con maggiore evidenza l’esigenza di distinguere. Sono gli stessi problemi dei quali si occuperà la collega Carinci; ma questo è inevitabile, perché parlare di discriminazione oggi significa parlare soprattutto di licenziamenti. La questione della discriminazione, e della sua nozione, rimasta per lungo tempo sulla carta degli studi dei giuslavoristi (perlopiù delle giuslavoriste), è entrata infatti di prepotenza nelle aule di giustizia (e perciò nelle motivazioni delle sentenze) solo dopo che il legislatore si è dedicato, con sempre maggiore impegno, all’opera di smantellamento dell’art. 18 st. lav.

L’accesso all’area residuale della nullità del licenziamento e della reintegrazione nel posto di lavoro passa ormai essenzialmente per la porta stretta della discriminazione e per quella, ancora più stretta, del motivo illecito (e in particolare di quel motivo che i giudici chiamano “ritorsivo”). Una porta che il lavoratore licenziato prova a varcare, nella speranza di vedersi tutelato davvero (e non solo “compensato” – si fa per dire – con una indennità, ridotta al prevedibile costo “basso e fisso” del licenziamento ingiustificato). Uscendone spesso sconfitto.

La frequenza delle sconfitte, ma anche l’incerta argomentazione delle decisioni favorevoli al lavoratore ricorrente (su cui tornerò oltre), mi hanno indotto a provare a distinguere tra discriminazione e altre cause di nullità del licenziamento, convinta come sono che la confusione concettuale non contribuisca a rendere solida e consistente l’area superstite della reintegrazione; un’area come è noto rimodellata dall’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 (ma limitatamente agli assunti con contratto a tutele crescenti). Per brevità, ma anche perché si è fatta ancora più pressante l’esigenza di consolidare l’agibilità dell’area “protetta”, mi occuperò solo della formulazione contenuta nel d.lgs. n. 23/2015, trascurando di prendere in considerazione la riscrittura dell’art. 18, comma 1, st. lav., ad opera della legge n. 92/2015 (riforma “Fornero”), se non per segnalare le differenze significative ai fini della breve riflessione che intendo proporvi.

  1. Senza pretesa di dire cose originali, o almeno diverse da quelle che ho già avuto ripetute occasioni di scrivere e di dire, parto da alcune puntualizzazioni preliminari. La prima delle quali attiene alla nozione di discriminazione.

Per “discriminazione” si intende non ogni differenza di trattamento, ma un trattamento diverso e deteriore, rispetto al trattamento di altri appartenenti alla stessa classe di persone, basato su di un fattore di discriminazione. Come l’egua­glianza, anche la discriminazione, che dell’eguaglianza costituisce la violazione (possiamo perciò definirla diseguaglianza antigiuridica), è un concetto di relazione, e come tale si basa su di un giudizio comparativo: su ciò sia le fonti sia del diritto dell’UE (nella lettera e nell’interpretazione fornita dalla CGE), sia le fonti del diritto interno, sono inequivoche.

Come è noto, la nozione di discriminazione si articola nelle due distinte sub-nozioni di discriminazione diretta e discriminazione indiretta. Non tornerò qui su di esse, rinviando a quanto ho avuto più di un’occasione di scrivere in proposito. Ricordo solo che queste nozioni sono formulate da diverse fonti, e presentano molte analogie e qualche differenza a seconda che si riferiscano ai diversi fattori di discriminazione attualmente elencati dalle Direttive 2000/43, 20078/78, 2006/54 e nel diritto interno dai d.lgs. nn. 215 e 216 del 2003 e successive modifiche, e dal d.lgs. 198/2006 e successive modifiche. Si tratta del fattore “genere”, il primo in ordine di tempo ad essere considerato e fatto oggetto di una disciplina separata da quella di altri fattori più recentemente presi in considerazione dal diritto: la razza e l’etnia (fattori previsti anche dal T.U. sull’immigrazione: d.lgs. n. 286/1998 e successive modifiche), le opinioni politiche, la affiliazione e/o l’attività sindacale, la religione, le convinzioni personali, l’handicap (e la disabilità, spesso intesi come sinonimi), l’età, l’orientamento sessuale.

Trascurando qui di soffermarmi sulle differenze, e guardando invece a quanto le definizioni hanno in comune, mi pare opportuno sottolineare che il nucleo teorico “forte” della definizione della discriminazione diretta, così come della distinta definizione della discriminazione indiretta, è costituito dalla nozione oggettiva di discriminazione (by effects: in base agli effetti, cioè, e non all’intenzione dell’agente). Per il diritto, infatti, discriminazione è l’effetto pregiudizievole prodotto da un trattamento meno favorevole rispetto a quello di un lavoratore di diverso sesso, razza, lingua ecc. in situazione comparabile: non qualunque differenza di trattamento costituisce discriminazione, ma costituisce discriminazione una disparità di trattamento, basata sulla diretta considerazione di un fattore identitario che il diritto vieta di prendere in considerazione. Costituisce altresì discriminazione (ma questa volta indiretta) l’effetto di disparità di trattamento prodotto da una misura neutra perché, essendo appunto neutra, omette di prendere in considerazione il fattore di diversità e di commisurare il trattamento alla diversità, evitando così l’effetto discriminatorio. La nozione di discriminazione indiretta (derivata dalla teoria del disparate impact) rappresenta la porta di accesso al diritto diseguale e appare perciò strettamente collegata al principio di eguaglianza in senso sostanziale (o di parificazione). Ma su questo non ho qui il tempo di dilungarmi.

  1. Malgrado non ignori gli argomenti della dottrina che qualifica la discriminazione in termini di lesione di diritti fondamentali della persona (dignità e libertà in primo luogo), resto dell’idea, per le ragioni brevemente richiamate sopra, che la nozione di discriminazione sia una nozione comparativa [2].

Ciò detto, occorre tenere presente che nel campo di applicazione del diritto antidiscriminatorio non rientrano solo le discriminazioni in senso stretto. Come è noto, l’area di applicazione del diritto antidiscriminatorio si allarga attualmente fino a ricomprendere una serie di fattispecie di “effetti pregiudizievoli” che, pur non derivando da trattamenti comparativamente meno favorevoli, sono tuttavia riconducibili ad un fattore di discriminazione, e sono perciò attratte dal legislatore nell’area della discriminazione e del suo regime giuridico.

Il caso più rilevante è quello delle molestie (e delle molestie sessuali); la definizione contempla sia una nozione tipicamente “soggettiva”, volta a perseguire il comportamento «avente lo scopo di» ledere la dignità della persona, sia una nozione “oggettiva”, espressa in termini di impatto («effetto») di un comportamento oggettivamente indesiderato. La molestia non richiede comparazioni: molestia è infatti ogni comportamento che abbia lo scopo o l’effetto di violare la dignità della persona, che può risultare offesa anche dalle molestie c.d. ambientali.

È assimilato alla discriminazione l’ordine di discriminare; sono assimilati alla discriminazione (di genere) i casi previsti dall’art. 26 d.lgs. n. 198/2006 (molestie di genere e molestie sessuali) al comma 2-bis [3]: si tratta della cosiddetta “vittimizzazione”, repressa anch’essa con gli strumenti del diritto antidiscriminatorio. L’art. 26, comma 3, considera inoltre discriminatori «quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad un’azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne».

Sono tutte fattispecie “considerate” come discriminazioni, nel senso che sono equiparate alla discriminazione per quanto concerne, in particolare, l’applicazione del regime probatorio agevolato presente nell’ordinamento comunitario e nell’ordinamento nazionale; anche ad esse deve inoltre applicarsi il principio della effettiva deterrenza dell’apparato sanzionatorio.

  1. Al di là della definizione della nozione di discriminazione, e del suo ampliamento mediante “assimilazione”, una distinta questione – divenuta centrale anche a causa degli orientamenti non univoci emersi in giurisprudenza – è se l’elenco dei fattori di discriminazione rinvenibile nelle fonti alle quali il legislatore fa rinvio (è il caso, per quanto riguarda i licenziamenti discriminatori del rinvio all’art. 15 st. lav.) sia un elenco tassativo o solo esemplificativo.

Certamente questo interrogativo aveva maggior peso in passato, quando l’elenco dei fattori di discriminazione era assai più breve di quanto non lo sia attualmente, dopo la riforma che ha inserito nell’ultimo comma dell’art. 15 st. lav. una lunga serie di fattori; lunga ma non esaustiva, se confrontata con l’elenco dei fattori contenuto nell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (detta Carta di Nizza), dove compaiono, accanto ai fattori già menzionati: le caratteristiche genetiche, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita. Tutti fattori che, a guardar bene, potrebbero essere ricompresi nelle “condizioni personali e sociali” di cui all’art. 3, comma 1, Cost. [4].

Il richiamo all’art. 21 della Carta di Nizza merita una breve digressione. Stante l’attribuzione alla Carta dello stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6.1 TUE), si potrebbe ritenere che i fattori di discriminazione elencati nell’art. 21, entrino a far parte dell’ordinamento interno degli Stati membri, con effetto diretto orizzontale, e senza che a tal fine sia necessaria l’interposizione del diritto derivato (di una o più Direttive, nella specie) [5].  Ma si tratta di un’ipotesi quanto meno dubbia, se si pone la dovuta attenzione all’art. 51 della Carta, a norma del quale: (comma 1) le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione; (comma 2) la Carta «non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati». La forza vincolante della Carta non fa dunque venir meno i limiti entro i quali è costretta la rivendicazione del diritto a non essere discriminati da parte dei cittadini dell’UE. Si tratta per l’appunto dei limiti ribaditi dall’art. 51 della Carta (la fattispecie deve rientrare nella sfera di applicazione del diritto dell’UE): limiti segnati, per quanto riguarda i fattori di discriminazione, dall’art. 19.1 TFUE (ex art. 13 TCE), che delimita la competenza del Consiglio ad intervenire entro l’ambito dei soli fattori elencati in tale articolo. Su tali fattori sono basate, oltre alle Direttive sulla parità di genere (ora confluite nella Direttiva 2006/54 Refusion), le Direttive 2000/43, 2000/78: dunque il legislatore europeo si è “interposto”, ed è questa normativa interposta la “sfera di applicazione del diritto dell’UE” in cui deve rientrare la fattispecie controversa.

Chiusa la parentesi, torniamo all’elenco dei fattori di discriminazione. Per quanto l’elenco sia lungo e sia, almeno in prospettiva (ottimistica), suscettibile di ulteriore allungamento, porsi l’interrogativo circa il suo carattere tassativo o esemplificativo non è fare esercizio retorico, perché dalla risposta dipende la possibilità di qualificare un determinato atto, patto o comportamento come discriminatorio, con le conseguenze che ne derivano. La CGE, nella interpretazione delle fonti dell’UE in materia, ha fino ad ora risposto all’interrogativo nel senso della tassatività (sentenza 11 luglio 2006, C-13/05, Chacón Navas). D’altra parte, come le fonti UE, anche le fonti del diritto interno (mi riferisco qui specialmente all’art. 15 st. lav., come modificato a seguito della trasposizione delle anzidette Direttive) non forniscono appigli testuali per leggere come meramente esemplificativo l’elenco dei fattori in esse contenuto, che sono quelli previsti dall’art. 19.1 TFUE e diritto dal diritto derivato dell’UE.

  1. Per le ragioni che ho detto nelle prime battute di questo intervento, la questione della qualificazione in termini di discriminazione è particolarmente importante quando sia in gioco un licenziamento. Proprio nel caso del licenziamento, il legislatore ha utilizzato la tecnica del rinvio alle fonti nelle quali compare un elenco di fattori di stretta derivazione comunitaria non interpretabile come esemplificativo; almeno per quanto riguarda il licenziamento (ma a mio avviso non solo) la tecnica del rinvio di per sé non avvalora il carattere tassativo dell’elenco dei fattori di discriminazione, ma certo vuole dire che è discriminatorio solo il licenziamento riconducibile ad uno dei fattori elencati.

Il rinvio di cui ho appena detto è diversamente articolato: ai sensi dell’art 3, legge n. 108/1990 (cui rinvia l’art. 18, comma 1, st. lav.), è nullo, indipendentemente dalla motivazione addotta, il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’art. 4, legge n. 604/1966[6] e dell’art. 15 St. lav. (già modificato dall’art. 13, legge n. 903/1977, e ulteriormente modificato dall’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 216/2003). Molto più sbrigativo il rinvio contenuto nell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, limitato al solo art. 15 st. lav. Il rinvio serve a collegare la nozione di licenziamento discriminatorio con i fattori elencati nelle norme citate; ma omette di considerare che il diritto positivo conosce altri fattori di discriminazione, non presenti in quell’elenco. Posto che per giurisprudenza consolidata della Cassazione – largamente condivisa in dottrina – il nostro ordinamento non conosce un principio generale di parità di trattamento, l’ordinamento conosce invece una serie di regole, intitolate per lo più (ma ora non più nel part-time) “divieto di discriminazione”, che impongono la parità di trattamento: queste regole riguardano, tra l’altro, il part-time, il contratto a termine, il lavoro intermittente [7]. Fatto oggetto di un divieto di discriminazione, il lavoro flessibile o precario diviene così un “fattore di discriminazione” (diretta o indiretta) espressamente previsto.

In conclusione di queste prime osservazioni di carattere generale: il campo della discriminazione, come si vede, è molto ampio, anche se si condivide – e io condivido – l’opinione che ritiene tassativo l’elenco dei fattori di discriminazione. Ma il campo potrebbe utilmente allargarsi (evitando così le conseguenze negative di cui dirò meglio parlando dei licenziamenti c.d. ritorsivi) se si approfondisse la riflessione sui fattori “a largo spettro”. Penso alla discriminazione sulla base delle convinzioni personali (fattore che può essere interpretato alla  luce della formulazione “opinioni di qualsiasi natura” di cui all’art. 21 della Carta di Nizza), sotto il cui ombrello potrebbe essere ricondotta oltre alla discriminazione sindacale (come è già avvenuto nel caso delle assunzioni discriminatorie alla Fiat) anche il trattamento sfavorevole del lavoratore “scomodo”, che dissente, protesta, o rifiuta di rinunciare all’azione in giudizio [8]: il lavoratore che manifesta cioè convinzioni personali sgradite o non “consonanti” con quelle del datore di lavoro.

  1. Vengo ora, per qualche considerazione finale, ai licenziamenti, che come ho detto, sono divenuti il terreno di elezione per verificare la “tenuta” delle nozioni ricapitolate sin qui.

Non mi addentro nei molti problemi sollevati dalla formulazione dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 (immagino ne parlerà più ampiamente Maria Teresa Carinci), e mi limito – come dice il titolo del mio intervento – a tracciare qualche distinzione tra le diverse fattispecie.

Preliminarmente mi pare tuttavia utile un chiarimento. Nella giurisprudenza formatasi nell’applicazione dell’art. 18, comma 1, come riformulato dalla legge Fornero, compare spesso la confusione tra “licenziamento discriminatorio” e licenziamento “per motivo discriminatorio”, usate come sinonime. Ma sinonime queste espressioni non sono, e parlare di “motivo” discriminatorio porta fuori dalla strada maestra della nozione oggettiva di discriminazione, ingenerando quella confusione tra discriminazione e motivo illecito unico e determinante di cui la giurisprudenza ci fornisce una pluralità di esempi.

Per restare coerenti alla nozione oggettiva di discriminazione, l’espressione (riassuntiva) “licenziamento discriminatorio” deve essere intesa nel senso che costituisce discriminazione (con quel che ne consegue sul piano sostanziale e processuale) il licenziamento che, indipendentemente dalla motivazione addotta, sia riconducibile in via diretta o indiretta ad un fattore di discriminazione (il sesso, la razza, l’etnia, le opinioni politiche, le convinzioni personali, ecc.); in altri termini, il licenziamento è in sé l’effetto pregiudizievole (perdita del posto di lavoro) del «trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga».

I licenziamenti discriminatori sono nulli (e danno luogo alla tutela reale piena), ma non sono i soli licenziamenti colpiti da nullità, talora espressamente e talora no: cause di nullità del licenziamento derivano dalla estensione agli atti unilaterali (art. 1324 cod. civ.) delle cause di nullità del contratto: nullità determinata da motivo illecito (unico e determinante: art. 1345 cod. civ.); da frode alla legge (art. 1344 cod. civ.). Diversamente da quanto previsto dall’art. 18, comma 1, st. lav. (come riformulato dalla legge Fornero), nel d.lgs. n. 23/2015, art. 2. comma 1, e dunque relativamente ai soli lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, l’applicazione della tutela reale piena è prevista nei casi di nullità del licenziamento «discriminatorio a norma dell’art. 15 St. lav. e successive modifiche, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge». Da tale formulazione emerge l’intento del legislatore di innovare, rispetto alla legge n. 92/2012, su due punti importanti.

a) Per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio il legislatore rinvia all’art. 15 St. lav, e con ciò dunque ai fattori di discriminazione ivi previsti: così facendo, sembra aver voluto escludere le letture “pandiscriminatorie” di ogni licenziamento nullo perché determinato da motivo illecito o da violazione di norma imperativa. Certamente chi ha scritto questo frammento normativo aveva ben presente, ed intendeva contrastare, quella giurisprudenza sul licenziamento c.d. ritorsivo (o di rappresaglia o di natura vendicativa) che, partendo dalla premessa del carattere non tassativo dell’elenco dei fattori discriminazione, qualifica questo licenziamento come discriminatorio [9].

b) Il riferimento ai casi di nullità espressamente previsti dalla legge, insieme all’omesso richiamo all’art. 1345 c.c., sembra voler escludere dal regime della reintegrazione i licenziamenti la cui nullità può essere dichiarata ove sia accertata dal giudice la violazione di una norma imperativa, ovvero siano determinati da motivo illecito, o siano in frode alla legge. Pare tuttavia ragionevole, alla luce di un consolidato orientamento interpretativo, che trova riscontro in giurisprudenza, considerare “espressamente prevista dalla legge” anche la nullità del licenziamento ai sensi degli artt. 1345 e 1344 c.c., per quanto sia frutto della estensione agli atti unilaterali delle cause di nullità del contratto. Se in via interpretativa si considerasse invece non superabile la lettera della legge, resterebbe in ogni caso la nullità del licenziamento: ma il regime sarebbe quello di diritto comune (continuità giuridica del rapporto, ripristino del rapporto e risarcimento dei danni: ma senza l’applicazione delle misure ulteriori di cui allo stesso art. 2, commi 1-3, d.lgs. n. 23/2015). Ma per non allontanarmi dal tema del mio intervento non posso affrontare questa pure importante questione.

Indipendentemente dal problema dell’applicabilità del regime della tutela reale piena, e limitandomi a ciò che qui interessa, la formulazione della disposizione citata rende ancora una volta necessario distinguere tra licenziamento discriminatorio e altre ipotesi di licenziamento nullo, con particolare riguarda alla nullità per motivo illecito.

Premesso che – a mio avviso, e per le ragioni dette sopra – occorre distinguere tra discriminazione e motivo illecito (unico e determinante), un licenziamento discriminatorio può essere anche soggettivamente motivato da ragioni discriminatorie, ovvero essere intimato al solo scopo di discriminare (così prevede anche l’art. 1, d.lgs. n. 198/2006, nel testo modificato dal d.lgs. n. 5/2010). L’oggettività della nozione non esclude la presenza dell’intento discriminatorio; l’oggettività implica soltanto che a fini di qualificazione in termini di discriminazione non è necessario né che sussista, né che sia provato tale intento.

Resta poi da chiedersi perché un motivo di licenziamento sia illecito, o meglio da quale norma imperativa derivi l’illiceità del motivo dalla violazione. Le opinioni in materia sono tutt’altro che univoche. A me pare che si possa ragionevolmente sostenere, sulla scorta della giurisprudenza della Corte costituzionale sull’art. 4, comma 1, Cost., ma anche dell’art. 30 della Carta di Nizza e dell’art. 24 della Carta sociale europea, che costituisca norma inderogabile la non arbitrarietà del licenziamento, nel senso che un “minimo” di giustificazione risponda all’esigenza del rispetto del diritto fondamentale del lavoratore alla dignità (tutelata anche dall’art. 41, comma 2 Cost.) [10]. Non condivido invece l’idea che la totale mancanza di giustificazione possa dar luogo, di per sé, ad una presunzione di discriminazione: il licenziamento arbitrario può essere discriminatorio (e spesso lo è), ma può anche essere illecito senza essere perciò discriminatorio.

  1. Tirando le somme: la confusione tra licenziamento discriminatorio e licenziamento nullo per ragioni che non hanno a che fare con i fattori di discriminazione non dovrebbe avvenire se si tenessero a mente le definizioni legali di discriminazione di cui si è detto e sulle quali non torno. Ove un atto o comportamento sia qualificabile come discriminatorio dovrà applicarsi lo speciale regime dell’onere della prova che grava sul ricorrente: un onere “alleggerito”, che comporta una vera e propria inversione del­l’onere della prova sulla base della verosimiglianza degli elementi di fatto allegati, idonei a fondare la presunzione della discriminazione.

Come ho già segnalato, accade tuttavia che perduri in giurisprudenza una certa confusione tra licenziamenti cosiddetti “ritorsivi” (determinati da ingiusta e arbitraria ritorsione nei confronti di un comportamento legittimo del lavoratore, ma non basati, né direttamente né indirettamente, su uno dei fattori di discriminazione elencati nell’art. 15 st. lav. e nelle altre fonti a tal fine rilevanti) [11] e licenziamenti discriminatori (basati invece su di un fattore di discriminazione), ai quali vengono assimilati, o nei quali vengono talora ricompresi, sulla base dell’ipotesi che l’elenco dei fattori di discriminazione non sia tassativo, e che la nozione di discriminazione non sia una nozione comparativa. Essendo il licenziamento ritorsivo viziato da motivo illecito (unico e determinante), l’assimilazione del licenziamento ritorsivo a quello discriminatorio fa sì che molti giudici (ma non tutti, fortunatamente) continuino a qualificare la discriminazione come atto intenzionale, facendo gravare per intero sul ricorrente l’onere di provare l’intento discriminatorio, che deve pertanto risultare come motivo (illecito) unico e determinante del recesso [12]. Il richiamo all’intento ingenera confusione tra la discriminazione (che è una differenza di trattamento, direttamente o indirettamente riconducibile ad un fattore di discriminazione, pregiudizievole per gli effetti che produce, e non per l’in­ten­to dell’agente) e il motivo illecito (unico e determinante, ai sensi dell’art. 1345 cod. civ.), che deve essere provato dal ricorrente: una fattispecie aperta, nella quale possono rientrare casi disparati, altri e diversi dalla discriminazione[13].

Insomma, animata dalla buona intenzione di allargare la protezione antidiscriminatoria, questa giurisprudenza finisce per restringerla, facendo gravare per intero sul lavoratore l’onere di provare l’intento discriminatorio, anziché consentirgli di avvalersi del più favorevole regime probatorio della discriminazione. Ad orientare diversamente i giudici dovrebbe essere sufficiente una maggiore attenzione al carattere oggettivo della discriminazione, che le consente di emergere anche in presenza di una giustificazione, e indipendentemente da essa, grazie specialmente al particolare regime probatorio.

Restano tuttavia alcune difficoltà di ordine probatorio, perché, nel caso del licenziamento, l’onere della prova della discriminazione viene a combinarsi con l’onere della prova della giustificazione che grava sul datore di lavoro. Salvo il caso patologico del licenziamento completamente privo di motivazione, una giustificazione (soggettiva od oggettiva) è addotta: se la giustificazione è carente o inadeguata, il licenziamento è ingiustificato. Ma, come ho detto prima, questo non significa che sia per ciò stesso discriminatorio. A fini della qualificazione in termini di discriminazione il ricorrente dovrà allegare elementi capaci di convincere prima facie il giudice del fumus della discriminazione (non del­l’in­tento dell’agente, ma del collegamento fattuale del trattamento sfavorevole a lui riservato con un fattore di discriminazione): graverà allora sul datore di lavoro una sorta di onere rafforzato di provare la giustificazione addotta, al fine di esclu­dere positivamente l’assenza di discriminazione.

 

[1] R. Guastini, Distinguendo ancora, Marcial Pons, Madrid, 2013.

[2] Come è noto, gode di un certo credito in dottrina l’opinione che riduce la discriminazione a lesione di diritti fondamentali altri rispetto al­l’eguaglianza (la dignità, la libertà), per quanto alla fine sempre riconducibili al principio di eguaglianza formale come accesso eguale ai diritti fondamentali. Di questa nozione di discriminazione si trova eco nel c.d. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (d.lgs. n. 198/2006), che all’art. 1 propone come obiettivo del divieto di discriminazione l’elimi­na­zione di «ogni distinzione basata sul sesso», che produca una lesione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. L’art. 1 è stato ora riformulato dal d.lgs. n. 5/2010 (attuazione della Direttiva CE 2006/54 Refusion) che amplia la portata del divieto, aggiunge l’obiettivo della parificazione effettiva, e recepisce la metodologia detta mainstreaming.

[3] «Sono, altresì, considerati come discriminazione i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato i comportamenti di cui ai commi 1 e 2 o di esservisi sottomessi»

[4] Allargando ancora la prospettiva, si può fare riferimento ai diritti inviolabili della persona  (art. 2 Cost.); ma a mio parere, trattandosi di discriminazione, è più corretto e calzante il riferimento al principio di eguaglianza.

[5] La questione  del carattere programmatico o immediatamente precettivo dei divieti di discriminazione è emersa  nella nota e largamente discussa  sentenza 19 gennaio 2010, C-555/07, Kücükeveci, nella quale la Corte di Giustizia ha ribadito quanto già affermato nella sentenza 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold, e cioè che il principio generale (divieto di discriminazione in ragione dell’età) non è una norma programmatica, che richieda per essere applicata l’interpositio legislatoris (dunque la normativa di diritto derivato), ma una norma chiara, precisa, incondizionata ed immediatamente precettiva, che conferisce un diritto fondamentale (a non essere discriminati) e produce l’effetto diretto orizzontale (disapplicazione del diritto interno contrario anche nelle controversie tra privati). Insomma – ha affermato la Corte – il principio non opera attraverso la direttiva che lo attua, ma opera autonomamente e direttamente. La Corte ha fatto riferimento al principio generale, ma al momento della decisone quel divieto di discriminazione era sancito dall’art. 21 della Carta, ed era in vigore il Trattato di Lisbona. Due circostanze che assumono certamente rilievo, ma che non sciolgono i dubbi in ordine all’effetto diretto orizzontale dell’art. 21: specie perché, nel caso, il fattore di discriminazione (l’età) era tra quelli espressamente previsti dall’art. 19 TFUE, mentre non era ancora avvenuta la trasposizione nell’ordinamento interno della Direttiva 2000/78. Per una più ampia riflessione sulle due sentenze citate mi permetto di rinviare a quanto ho scritto in Pensionati recalcitranti e discriminazione fondata sull’età, in Lavoro e diritto, 2011, p. 141.

[6] Nullità del licenziamento determinato da ragioni di credo politico, fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali: si tratta dei licenziamenti un tempo qualificati come di rappresaglia o ritorsivi, che l’art. 3, legge n. 108/1990, ora assimila ai licenziamenti discriminatori, basati sui fattori di discriminazione elencati dall’art. 15 St. lav. (affiliazione e attività sindacale, opinioni politiche, religione).

[7] Anche l’infezione da HIV non può costituire motivo di discriminazione, in particolare per l’accesso al lavoro e il mantenimento del posto di lavoro. Su lavoro intermittente e divieto di discriminazione v. App Milano 15 aprile 2014 (riportata in appendice a E. Tarquini, Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giudiziale, Giuffrè, Milano, 2015): ad avviso della Corte, «il mero requisito dell’età non può giustificare l’applicazione di un contratto pacificamente più pregiudizievole, per le condizioni che lo regolano, di un ordinario contratto a tempo determinato e la discriminazione che si determina rispetto a coloro che hanno superato i 25 anni  non trova alcuna ragionevole ed obiettiva giustificazione. Analogamente nessuna ragionevole giustificazione è ravvisabile nel fatto che, per il solo compimento del 25° anno, il contratto debba essere risolto».

[8]  Si veda l’emblematico caso di licenziamento “ritorsivo” deciso da Trib. Modena, 24 ottobre 2014 (est. Vaccari). Nel caso il giudice, dopo aver affermato che il licenziamento ritorsivo (ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore) può essere assimilato al licenziamento discriminatorio, lo qualifica però come licenziamento per motivo illecito unico e determinante, ritenendo nella specie che la “volontà ritorsiva” possa essere provata per presunzioni (conformemente  a quanto affermato dalla Cassazione: Cass. 11 aprile 2013, n. 8846, ha precisato che l’onere della prova che grava sul lavoratore può essere assolto allegando fatti specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia; Cass. 6 giugno 2013, n. 14319, ha precisato che il lavoratore deve fornire elementi idonei ad individuare un rapporto di causalità tra licenziamento e intento di rappresaglia; v. anche  Cass. 6 giugno 2013, n. 14319; 27 febbraio 2012, n. 2958).

[9] Mi riferisco alle sentenze della  Cassazione n. 7046/2011, n. 6282/2011, n. 16925/2011.

[10] A me pare perciò irragionevole la conclusione cui è pervenuto il Tribunale di Roma (4 marzo 2015, in Lavoro nella giurisprudenza, 2015, p. 605, nota di C. Cester) che ha ritenuto non viziato da motivo illecito un licenziamento intimato “al solo fine di trovare un capro espiatorio”, non essendovi, secondo il giudice, violazione di una norma imperativa.

[11] Ma non è il caso del licenziamento per “ritorsione sindacale”, che invece è un licenziamento discriminatorio a tutti gli effetti.

[12] Ciò dipende probabilmente dal fatto che il contenzioso più classico e cospicuo continua ad essere quello relativo ai licenziamenti c.d. “di ritorsione”, fondati su motivi sindacali, che trovava in origine disciplina nel solo art. 4, legge n. 604/1966, quando ancora tale ritorsione non aveva ancora trovato, proprio nell’art. 15 st. lav., la sua più precisa qualificazione in termini di discriminazione (qualificazione nella quale dovevano poi inserirsi gli affinamenti derivanti dallo sviluppo del diritto antidiscriminatorio cosiddetto di “seconda generazione”). Fedele al suo tradizionale orientamento, la S.C. continua a ripetere che per stabilire il carattere “ritorsivo” e quindi la nullità del licenziamento occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio o di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, avvalendosi a tale fine anche di presunzioni gravi, precise e concordanti.

[13] Si veda ad esempio l’ordinanza del Trib. Verona 14 agosto 2015: nella fattispecie il ricorrente (autista di camion addetto a trasporto, carico e scarico, di carni), licenziato a seguito di una serie di infrazioni disciplinari, lamentava l’insussistenza dei fatti contestatigli e inoltre chiedeva al giudice di accertare l’eventuale carattere ritorsivo del licenziamento; il giudice, escussi i testimoni sia di parte attrice che di parte convenuta, si convince del fatto che i comportamenti contestati al lavoratore, anche complessivamente considerati, erano o pienamente leciti o di scarsissima rilevanza e pertanto non giustificavano l’applicazione della sanzione espulsiva; avendo ritenuto il licenziamento ingiustificato, il giudice affronta l’ulteriore questione, chiedendosi se, nel caso, possa “essere ravvisata una illecita finalità ritorsiva da parte dell’azienda”. Fin qui il ragionamento del giudice segue un percorso corretto: a fronte di un licenziamento disciplinare privo di giustificazione (dunque non sorretto da un motivo legittimo), il giudice prende in considerazioni gli elementi di natura “presuntiva e indiziaria” forniti dal ricorrente in ordine alla  natura “ritorsiva” del licenziamento (le sanzioni disciplinari avevano fatto seguito alla iscrizione del ricorrente ad un sindacato, e al suo rifiuto, insieme ad altri iscritti allo stesso sindacato, di sottoscrivere un accordo aziendale). Ma è a questo punto che interviene – a mio giudizio – la confusione. Perché il giudice, anziché imboccare, sulla base di elementi presuntivi ritenuti sufficienti, la strada della qualificazione del licenziamento come discriminatorio (per ragioni sindacali ovvero per ragioni di “convinzioni personali”), qualifica il licenziamento come viziato da motivo illecito determinante; ma poi (disattendendo la consolidata giurisprudenza della Cassazione che fa gravare sul ricorrente l’onere della prova dell’intento ritorsivo) contesta all’azienda convenuta di non aver fornito “convincente prova dell’inesistenza dell’intento ritorsivo”. Insomma, il giudice applica il regime probatorio della discriminazione (che essendo oggettiva, non richiede prova dell’intento, e che si giova di un regime di parziale inversione dell’onere della prova) al licenziamento viziato da motivo illecito unico e determinante. Alla luce dell’art. 18, commi 1 e 2, st. lav., la soluzione (nullità del licenziamento, reintegrazione nel posto di lavoro, risarcimento del danno) è la stessa, sia che il licenziamento sia discriminatorio, sia che sia viziato da motivo illecito (art. 1345 c.c.); ma la confusione sul regime probatorio rende “attaccabile” la decisione in sede di gravame.