Discriminazione handicap, licenziamento per superamento del comporto, Tribunale di Bologna, sentenza del 15 aprile 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI BOLOGNA
SEZIONE LAVORO
Il Giudice unico, nella persona del dott. Carlo Sorgi, ha pronunziato la seguente ordinanza, a scioglimento della riserva formulata all’udienza del 11/4/2014, nel procedimento iscritto al n. 452/2014, promosso da:
XX, rappresentata e difesa per mandato a margine del ricorso introduttivo dall’avvocato GAVAUDAN ANTONELLA, presso il cui studio è pure elettivamente domiciliata VIA SAN FELICE 6 BOLOGNA
RICORRENTE
Contro
A.SPA, rappresentata e difesa per mandato a margine della memoria di costituzione e risposta dall’avvocato BOLDRINI GIOVANNI, presso il cui studio, è pure elettivamente domiciliata VIA GAMBALUNGA N. 102 – PALAZZO PORTA AL MARE 47900 RIMINI
CONVENUTO
Avente ad oggetto: impugnazione licenziamento
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ricorso depositato ex L. n. 92 del 2012 davanti al Giudice del lavoro di Bologna XX , invalida civile al 100% e avviata al lavoro ex L. n. 68 del 1999, chiedeva venisse dichiarata la nullità del proprio licenziamento irrogato dalla società As.p.a. per superamento del periodo di comporto per discriminatorietà relativamente alla sua condizione patologica. Secondo parte ricorrente la società non avrebbe avvisato la propria dipendente del sopraggiungere del termine indicato contrattualmente come comporto anche in considerazione del fatto che lo stesso contratto prevedeva la possibilità di chiedere quattro mesi di aspettativa non retribuita, che non potevano non essere concessi, per superare il periodo di malattia della ricorrente. Inoltre la società non avrebbe comunicato con il licenziamento la distinta dei giorni di malattia realizzando ulteriore carenza in termini di motivazione del licenziamento.
Si costituiva in giudizio la società chiedendo la conferma del licenziamento. Nessuna indicazione specifica imponeva alla società di comunicare l’approssimarsi della scadenza del termine di comporto e nella comunicazione di licenziamento era stato indicato il superamento del comporto come motivo del licenziamento e a richiesta successiva erano stati indicati i giorni di malattia e questi elementi rendevano ineccepibile il licenziamento.
All’udienza del 11/4/2014 all’esito della discussione il Giudice si riservava.
Ritiene questo Giudice, sciogliendo la riserva, che il ricorso possa essere accolto.
I fatti pacificamente ammessi dalle parti sono i seguenti : la ricorrente, dal gennaio 2013 doveva assentarsi dal lavoro per l’insorgere di una neoplasia con necessità di interventi chirurgici e, rientrata al lavoro nel mese di luglio, doveva essere operata di nuovo nell’agosto entrando anche in coma in quel periodo. In data 30/10/2013 riceveva comunicazione di interruzione del rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto ex art. 175 CCNL settore terziario. L’art. 181 del medesimo contratto prevede la possibilità di prolungare di altri 120 giorni il termine e, in caso di patologie gravi e per terapie salvavita, di ulteriore periodo di aspettativa fino alla guarigione clinica e comunque di durata non superiore a ulteriori dodici mesi.
Ritiene questo Giudice che considerando il caso particolare posto alla sua attenzione la società A avrebbe dovuto comportarsi in maniera diversa e consona ai principi civilistici di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c. e ai più generali principi di solidarietà sociale ex art. 2 Costituzione. Infatti anche in assenza di una regola espressa in ordine alla comunicazione relativa all’approssimarsi del termine del comporto tenendo conto della situazione particolarmente delicata e grave della ricorrente, che sia per la sua situazione di handicap che per la gravità della patologia in corso presumibilmente non era in grado di prestare attenzione ai termini del comporto, un comportamento teso alla correttezza ed alla buona fede da parte della società avrebbe dovuto imporre una comunicazione, quantomeno ai familiari della dipendente con i quali erano rimasti in contatto durante la malattia , anche per informare della possibilità di utilizzare la procedura prevista contrattualmente per salvare il posto di lavoro dall’art. 181 ricordato e proprio in considerazione del meccanismo richiamato senza il quale una preventiva comunicazione in un caso grave come il presente poteva risultare inutile. Le regole possono non essere scritte ma ricavarsi dai principi generali e nel nostro ordinamento il principio della solidarietà sociale è richiamato dall’art. 2 della nostra Costituzione e in considerazione delle difficoltà umane della ricorrente non poteva consentire un mero rispetto alla lettera della norma ma imponeva un comportamento positivo atto a preservare alla lavoratrice la possibilità di riprendere la propria attività in caso di una auspicata guarigione.
Si tratta di un comportamento con una oggettiva idoneità a discriminare una lavoratrice in considerazione delle sue condizioni di salute particolarmente gravi e come tale atto a rendere nullo il licenziamento con le conseguenze previste dall’art. 18 comma I L. n. 300 del 1970 come modificato dalla L. n. 92 del 2012. Infatti Il D.Lgs. n. 216 del 2003 (che ha recepito la direttiva comunitaria 2000/78) vieta le discriminazioni e chiarisce che la discriminazione può essere sia diretta (quando una persona viene posta in una situazione meno favorevole di un’altra) che indiretta quando l’adozione di un criterio “apparentemente neutro” finisce per porre alcuni in una posizione di svantaggio rispetto agli altri. La direttiva e il decreto di recepimento hanno superato quindi la nozione soggettiva di discriminazione (non è cioè necessario dimostrare che il datore di lavoro voleva effettivamente nuocere al disabile) per sanzionare tutti i comportamenti che pongono l’invalido in una situazione oggettiva di svantaggio a causa della sua invalidità. Sia il diritto dell’Unione sia la CEDU riconoscono che la discriminazione può derivare non solo dal trattamento diverso di persone che si trovano in una situazione analoga, ma anche da un medesimo trattamento riservato a persone che si trovano in situazioni diverse. In quest’ultimo caso si tratta di discriminazione “indiretta”, in quanto la differenza non risiede tanto nel trattamento, quanto piuttosto negli effetti che esso produce, che sono percepiti in modo diverso da persone con caratteristiche differenti. La Cedu in particolare ha fatto propria questa definizione di discriminazione indiretta in alcune sentenze, affermando che ” una differenza di trattamento può consistere nell’effetto sproporzionatamente pregiudizievole di una politica o di una misura generale che, se pur formulata in termini neutri, produce una discriminazione nei confronti di un determinato gruppo” (Cedu, sentenza 13 novembre 2007, D.H. e a. c. Repubblica ceca GC (n. 57325/00), punto 184; Cedu, sentenza 9 giugno 2009, Opuz c. Turchia (n. 33401/02), punto 183. Cedu, sentenza 20 giugno 2006, Zarb Adami c. Malta (n. 17209/02), punto 80 ). Nel caso in esame il comportamento che poteva considerarsi non scorretto nei confronti di una situazione ordinaria in un contesto tanto complesso, una portatrice di handicap con grave patologia tumorale in atto, determinava una situazione oggettivamente discriminatoria nei confronti di tale soggetto particolare.
Questo Giudice conosce la giurisprudenza della Corte di Cassazione relativa al tema in oggetto :” Non sussiste quindi un principio per il quale il datore di lavoro debba, “di ufficio”, convertire l’assenza per malattia in ferie. Nè, a maggior ragione, esiste un dovere del datore di lavoro di avvertire il lavoratore, assente per lungo tempo, che il periodo di conservazione del posto sta per scadere. Infatti il lavoratore è in grado, anche con l’assistenza del sindacato, di effettuare la somma del giorni di assenza per malattia e di verificare se il periodo di conservazione del posto stia per scadere”. ( Corte di Cass. n.10352/2008, conf. n. 19234/2011 ) ma proprio da tale giurisprudenza trova conforto al proprio orientamento. Infatti se è vero che ordinariamente il lavoratore è in grado di verificare l’approssimarsi della scadenza del periodo di comporto nella situazione in esame per la sua gravità e la condizione derivata di sostanziale ” minorata difesa” il richiamo ai principi di solidarietà sociale imponevano un diverso e più attivo comportamento da parte dell’azienda e tale mancato intervento ha determinato una situazione di discriminazione indiretta.
Conseguentemente deve essere dichiarato nullo il licenziamento in quanto discriminatorio e disposta la reintegra della ricorrente e tutte le conseguenze in termini di tutela reale.
La particolarità del caso e della conseguente decisione determina il Giudice a compensare le spese della fase del giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso e dichiarato nullo il licenziamento opposto condanna la società A SPA a reintegrare XX nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità corrispondete alle retribuzioni dal licenziamento all’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro oltre agli accessori dovuti per legge;
Spese della fase del giudizio compensate
Così deciso in Bologna, il 15 aprile 2014.