Discriminazione per motivi sindacali, Corte D’appello di Venezia, sentenza del 3 luglio 2014

SVOLGIMENTO DEL PROCEDIMENTO

Con ricorso giudiziario – depositato il 20 febbraio 2013 e proposto,  ai sensi dell’articolo 1, comma 48 e seguenti della legge n. 92/2012 ( c.d. Legge Fornero)  avanti il Tribunale di Padova con funzioni di Giudice del Lavoro – come esposto nell’ordinanza emessa al termine della fase sommaria –  “ il sig. S. R., assunto il 27.10.2011 dalla società I. snc con mansioni di panettiere inquadrato in livello A2 del CCNL Federpanificatori, lamentava di essere stato illegittimamente licenziato con lettera datata 18.7.2012 (doc. 8) per giustificato motivo oggettivo “a seguito del negativo andamento dell’attività aziendale”.

Il ricorrente deduceva la nullità/illegittimità del licenziamento per i seguenti motivi:

-perché intimato in ragione dell’affiliazione sindacale in violazione dell’art. 4 L. 604/66, dell’art. 15 L. 300/1970 e dell’art. 3 L. 108/1990;

-perché ritorsivo e basato su motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c.;

-per contrarietà a norme imperative, frode alla legge, ex art. 1344 e 1418 c.c. e per illiceità della causa;

-per abuso di diritto e violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c.;

in subordine, per carenza di giustificato motivo oggettivo.

Chiedeva condannarsi la convenuta a riammetterlo/reintegrarlo in servizio oltre al pagamento delle retribuzioni dovute dal giorno del licenziamento fino al ripristino del rapporto e, in subordine, l’applicazione dell’art. 8 L. 604/66.

Si costituiva in giudizio la resistente I.  snc eccependo in via preliminare l’inammissibilità del ricorso proposto nelle forme di cui all’art. 1 comma 48 L. 92/2012 per insussistenza del requisito dimensionale di cui all’art. 1 comma 47 stessa legge o in subordine disporsi il mutamento nel rito ordinario ex art. 414 e segg. cpc, e nel merito chiedendo il rigetto del ricorso e, in subordine, limitarsi il risarcimento del danno a quanto previsto dall’art. 8 L. 604/1966.

Il ricorrente a sostegno di quanto richiesto deduceva di essersi iscritto al Sindacato (v. tessera doc. 4) in data 4.6.2012 e di avere in pari data inviato la delega al datore di lavoro (v. raccomandata doc. 6); che in data 23.6.2012 la società gli aveva comunicato che dal giorno successivo avrebbe goduto di tre settimane di ferie (pur avendone il lavoratore maturate solo 15); di avere inviato comunicazione a mezzo del sindacato affinché la società rimeditasse la scelta unilaterale di metterlo in ferie, senza ottenere risposta; di essere stato, al rientro delle ferie comandate, licenziato per giustificato motivo oggettivo in realtà inesistente.

Secondo il ricorrente, la sequenza temporale degli eventi costituiva la “prova provata dell’attività sindacale quale ragione unica e determinante il licenziamento impugnato”.

Il Giudice della fase sommaria, senza svolgere attività istruttoria, con ordinanza del 15 luglio 2013, dichiarava illegittimo l’impugnato licenziamento, condannava la resistente I. snc a riassumere il ricorrente entro tre giorni o a corrispondergli un’indennità pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi di legge e rivalutazione monetaria dalla maturazione del credito al saldo, compensava tra le parti in misura del 50% le spese di lite e condannava la società resistente alla rifusione in favore del ricorrente delle spese residue, liquidate in € 1.500,00 per compensi professionali oltre IVA e CPA come per legge.

In motivazione esponeva :

“ che, dal documento estrapolato dal sito web “dovequando” di Poste Italiane (doc. 4 resistente), risulta che la raccomandata 140127216226 (doc. 6 ricorrente) non sia stata “ancora registrata”, né parte ricorrente ha prodotto l’avviso di ricevimento di detta raccomandata, sicché non vi è prova certa che la convenuta abbia avuto contezza dell’iscrizione al sindacato del ricorrente.

In ogni caso, i fatti esposti dal ricorrente di per sé soli, in difetto di ulteriori elementi, non dimostrano sufficientemente  l’esistenza di nesso eziologico tra la decisione aziendale di licenziare il sig. R e l’avvenuta iscrizione di quest’ultimo al sindacato FLAI CGIL.

Per tali motivi, deve escludersi il carattere discriminatorio e ritorsivo (perché determinato da motivo illecito determinante) dell’impugnato recesso.

Con riferimento alla dedotta illegittimità dell’impugnato licenziamento per carenza del giustificato motivo addotto, va preliminarmente rilevato che, in forza di espressa disposizione legislativa (art. 5 L. 604/1966) e come pacificamente riconosciuto da costante giurisprudenza (cfr. ex plurimis Cass. 4.12.2007 n. 25270), sul datore di lavoro grava l’onere di provare la concreta riferibilità del licenziamento ad effettive ragioni di carattere tecnico, produttivo ed organizzativo, nonché l’impossibilità di impiego del dipendente licenziato nell’organizzazione aziendale esistente all’epoca dell’intimato recesso.

Ed infatti, secondo la Suprema Corte “Il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva (art. 3 l. n. 604 del 1966) deve essere valutato dal datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, poiché tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 cost. Al giudice spetta invece il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, attraverso un apprezzamento delle prove che è incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato” ed  “In caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro, ai fini della configurabilità del giustificato motivo oggettivo, grava sul datore di lavoro l’onere della prova relativa all’impossibilità di impiego del dipendente licenziato nell’ambito dell’organizzazione aziendale, con la precisazione che siffatto onere, concernendo un fatto negativo, deve essere assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi, come il fatto che i residui posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero, al tempo del recesso, stabilmente occupati, o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo lasso di tempo non sia stata effettuata alcuna assunzione nella stessa qualifica” (Cassazione n. 16323/2009).

Nella fattispecie in esame, rileva questo G.L. che:

-è pacifico e non contestato che nel febbraio 2012 la convenuta ha acquisito  la rivendita di Santa Croce (circostanza che attesta un incremento nell’attività di impresa);

-la convenuta, dopo la risoluzione del rapporto con il ricorrente, ha assunto n il sig. G U in data 13.9.2012 ed il sig. L Z in data 21 21.9.2012 con inquadramento per entrambi in livello A3 e mansioni di operaio panificatore, mentre nei mesi immediatamente precedenti ha proceduto a varie assunzioni, ed in particolare in data 9.5.2012 all’assunzione di B F con qualifica di operaio A2, la stessa del ricorrente (v. “prospetto dipendenti 2012” prodotto dal resistente sub doc. 2, e allegazione pag. 11 di memoria difensiva).

Sulla scorta della giurisprudenza sopra richiamata, va pertanto dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimato al ricorrente per insussistenza di giustificato motivo oggettivo.

Quanto alle conseguenze dell’illegittimità del licenziamento, va evidenziato che, nell’ambito del presente procedimento sommario, appare sufficientemente provata l’assenza del requisito dimensionale ex art. 18 St. lav., fondata sul documento 1 prodotto dalla resistente (ex adverso non specificamente contestato) e dalla visura camerale di I snc (doc. 1 ricorrente), da cui risulta che la soglia dimensionale della convenuta al momento del licenziamento, ed anche nel corso di tutto il 2012 è sempre stata inferiore ai 15 dipendenti.

Sulla scorta della normativa dettata dalla l. n. 92/2012, non sembra potersi escludere l’emissione dell’ordinanza conclusiva del presente procedimento qualora la domanda sia stata formulata in guisa da comportare la tutela ex art. 18 St. Lav. e quest’ultima venga poi esclusa nel merito per mancanza del requisito dimensionale all’uopo richiesto, atteso che non si tratta di un fatto costitutivo del diritto, bensì meramente impeditivo della chiesta reintegrazione (cfr. Cass., S.U., n. 141/2006), non dovendosi quindi ravvisare necessità di un mutamento del rito in detta ipotesi.

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Con ricorso depositato il 14 agosto 2013 e notificato il successivo 23 settembre la società proponeva opposizione ex art. 1, co. 51, l. n. 92/2012, avverso la citata pronuncia, eccependo :

– la nullità dell’ordinanza, per omissione della discussione orale della causa e compromissione del suo diritto di difesa nella pregressa fase di giudizio, non essendo stata svolta – tra l’altro – alcuna attività istruttoria – con richiesta di regresso alla stessa, nel rispetto dei principi del contraddittorio e del giusto processo (p. 5/6 opposizione I);

–  l’inammissibilità /improponibilità/ improcedibilità/ infondatezza, ex art. 1, co. 48, l. n. 92/2012, del ricorso avversario, essendo stata esclusa la natura discriminatoria / ritorsiva del licenziamento (unico presupposto che avrebbe potuto semmai consentire – in ipotesi – la trattazione del procedimento con il rito speciale di cui alla L.n. 92/2012).

Nel merito, ribadiva la legittimità del licenziamento e la sussistenza del giustificato motivo addotto a suo fondamento e, quanto al presunto incremento di attività di impresa, connesso all’apertura della c.d. rivendita di “Santa Croce” – contrariamente a quanto asserito dal Giudice di prime cure – precisava di aver specificamente contestato la circostanza. Assumeva, inoltre, che tale “rivendita” era in realtà un mero cliente di It (il panificio “…..” di K M, sito in Padova) cui la stessa aveva rifornito i propri prodotti di panificazione, fra il 29 febbraio 2012 ed il 31 agosto 2012, per complessivi – insignificativi, ai fini di causa – €. 6.038,94 (doc. D I) ed, in particolare, nei tre mesi (compreso preavviso) antecedenti il licenziamento (doc. 8 ric..), fra il 30 maggio ed il 30 luglio 2012, per soli €. 910,99 e, nel mese di agosto per €. 73,69.

Osservava poi come dall’acquisizione di un solo cliente non potessero ricavarsi ragioni fondanti la pretesa illegittimità di un recesso per giustificato motivo oggettivo, evidenziando che comunque l’incremento di attività ( non significativo di per sé stesso di un incremento degli utili) era stato talmente irrisorio da rendere la fornitura addirittura anti-economica, con sua cessazione nell’agosto del 2012, di fatto in concomitanza con la risoluzione del rapporto di lavoro del sig. R.

La società opponente quanto alla presunta “pluralità” di assunzioni coeve al recesso (sigg.ri U G, L Z e F B), ribadiva di non aver proceduto ad alcuna assunzione per le mansioni e/o mansioni fungibili con quelle del sig. R, né prima né dopo il recesso di cui è causa, circostanza che comprovava l’insussistenza di posizioni vacanti in azienda per mansioni equivalenti a quelle svolte dal Lavoratore ove quest’ultimo potesse essere utilmente impiegato.

Con memoria difensiva del 29 ottobre 2013, si costituiva in giudizio il sig. R, chiedendo il rigetto dell’opposizione svolta da I e a suo volta censurando l’Ordinanza del 15 luglio 2013, per aver escluso il carattere discriminatorio / ritorsivo del recesso, mediante proposizione di opposizione incidentale tardiva, riqualificata dal Giudice come domanda riconvenzionale, di cui la società opponente alla prima udienza utile e poi con note difensive del 27 dicembre 2013 contestava l’ammissibilità, assumendo non essere estensibile al rito speciale di cui alla L. n. 92/2012 l’ordinaria disciplina in materia di impugnazioni incidentali – artt. 333 – 334 c.p.c…

Nelle note scritte la I insisteva nelle eccezioni di cui al proprio ricorso in opposizione e replicava alle difese del sig. R, nuovamente ribadendo, in sintesi, la legittimità del licenziamento, l’esistenza del giustificato motivo oggettivo, l’insussistenza di un suo obbligo di repechage e l’assenza di assunzioni coeve al licenziamento per mansioni fungibili con quelle svolte dal sig. R.

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Il giudizio di opposizione ex art. 1, co. 51 e ss. L. n. 92/2012, dopo effettuazione del solo interrogatorio libero delle parti, si concludeva con la sentenza n. 36/14 del 24 gennaio 2014 in questa sede reclamata e con la quale il Giudice ( persona fisica diversa dal Giudice della fase sommaria)  preliminarmente rigettava l’eccezione della parte opponente (in questa sede non riproposta) relativa all’asserita nullità dell’ordinanza, per omissione della discussione orale della causa e compromissione del diritto di difesa nella pregressa fase di giudizio, non essendo stata svolta – tra l’altro – alcuna attività istruttoria – con richiesta di regresso alla stessa, nel rispetto dei principi del contraddittorio e del giusto processo.

Rigettava, inoltre, l’eccezione della società opponente,  sollevata alla prima udienza utile e poi con note difensive del 27 dicembre 2013, con la quale la stessa contestava – assumendo non essere estensibile al rito speciale di cui alla L. n. 92/2012 l’ordinaria disciplina in materia di impugnazioni incidentali di cui agli artt. 333 e 334 c.p.c. – l’ammissibilità della domanda avversaria relativa alla riproposizione dalla domanda impugnatoria di licenziamento ritorsivo, qualificata, invece, dal Giudice ammissibile domanda riconvenzionale proposta, dopo fase sommaria, in giudizio ordinario di primo grado.

Nel merito il Giudice di primo grado osservava che le condotte “astrattamente” discriminatorie (imposizione di permessi e ferie) erano cominciate già prima dell’iscrizione al sindacato.

Dall’interrogatorio libero era emerso che il sig. R si occupava di infornare, fare le pulizie e le consegne e che tale ultima mansione era venuta meno perché assegnata ad un apprendista già presente in azienda e che nel contempo si dimetteva il responsabile del laboratorio, che era sostituito da un altro dipendente, con inquadramento inferiore.

Con il trasferimento di sede, la produzione del pane aveva sì subito un allungamento, ma i tempi di lavoro del ricorrente si erano, di fatto, ridotti perché sollevato dal giro di consegne.

Da tali premesse riteneva che era logico concludere che il licenziamento si inseriva in un processo di riorganizzazione della produzione di cui era parte essenziale la riduzione del costo del lavoro.

Il Tribunale aggiungeva che la società convenuta poteva fare a meno della professionalità del sig. R, valutata come “sostituibile a buon prezzo”, anche in ragione del fatto che egli non si occupava dell’impasto, e quindi forniva una collaborazione meno flessibile e meno qualificata del suo collega di lavoro (B e poi B).

Concludeva il capo di sentenza osservando che i tempi del progressivo allontanamento del R, per quanto discutibili nei modi, attestavano l’irrilevanza della sua iscrizione al sindacato.

Infine, dichiarava inammissibile la domanda dell’originario  ricorrente, formulata in via subordinata e tesa ad accertare l’illegittimità del licenziamento per difetto di giustificato motivo oggettivo, non potendo la stessa rientrare fra le ipotesi previste dall’art. 1, co. 48 L. n. 92/2012, per cui è consentita la trattazione con rito speciale.

In particolare, il Giudice rilevava come fra quest’ultima domanda e quella di nullità del licenziamento, svolta in via principale, ai sensi dell’art. 1 co. 47 L. n. 92/2012, per motivo discriminatorio / ritorsivo, non vi fosse identità di elementi costitutivi come richiesto dal succitato co. 47 della stessa Legge.

Compensava le spese per giusti motivi, indicati nella complessità della decisione e della intera vicenda che ha opposto le parti.

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Con ricorso qui depositato il 14 febbraio 2014 il sig. R, per quanto in motivazione esposto e chiedendo accogliersi le conclusioni in epigrafe riportate, proponeva reclamo avverso la sentenza resa in fase di opposizione.

Si è costituita la società reclamata che,  per quanto in motivazione esposto, proponeva eccezioni preliminari, chiedeva il rigetto del reclamo, proponeva reclamo incidentale e concludeva come in epigrafe trascritto.

Dopo esperimento di opportuno tentativo di conciliazione e rinvii concessi per valutare compiutamente emersa possibilità conciliativa (ritenuta opportuna vuoi per controvertibilità delle questioni di causa, vuoi per la loro natura, vuoi per incertezze interpretative derivanti da rito processuale entrato in vigore nell’imminenza dei fatti di causa, vuoi per avvenuto reperimento di nuovo posto di lavoro da parte del ricorrente e differenza economica di non rilevante importo tra le rispettive proposte conciliative dichiarate e verbalizzate), all’udienza del 3 luglio 2014 la controversia è stata discussa e decisa in via non definitiva come da separato dispositivo, letto in udienza, disponendo il prosieguo come da separata ordinanza.

Motivi della decisione

Preliminarmente è da esaminarsi l’eccezione in rito della reclamata con la quale si è eccepito l’inammissibilità del reclamo per mancato rispetto dei requisiti formali di cui all’art. 434 c.p.c. per asserita mancata di osservanza nella formulazione dello stesso al nuovo dettato di tale norma, come modificato dall’art. 54, co. 1, lett. c-bis del c.d. “Decreto Sviluppo” – D.L. n. 83/2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134/2012.

Pur essendo condivisibile che la norma come novellata sia applicabile anche al reclamo proposto ai sensi dell’art. 1, co. 58 e ss. L. n. 92/2012, la cui scarna disciplina non può che essere integrata da quella prevista per l’appello nel processo ordinario del lavoro (art. 433 e ss. c.p.c.), per quanto non diversamente stabilito (considerato anche l’espresso rinvio operato all’art. 327 c.p.c. dal co. 61, art. 1, L. n. 92/2012) e che il gravame introdotto dalla cd. Legge Fornero “denominato reclamo per tributo semantico alla celerità, è nella sostanza un appello”, l’eccezione è infondata nel merito.

La stessa è stata proposta, assumendo che “ Il reclamante, difatti, non ha indicato con inequivocabile nettezza i motivi del proprio dissenso, non ha enucleato specificamente le parti e le singole statuizioni della Sentenza da eliminare, né ha riportato le specifiche modifiche proposte con riferimento a ciascuna di esse, omettendo di individuare il testo di una nuova pronuncia da sostituirsi a quella impugnata. Le richieste formulate nel reclamo avversario contengono peraltro considerazioni ultronee e non pertinenti ai singoli capi di sentenza impugnati e sono connotate da inammissibili valutazioni astratte, e personali, come tali irrilevanti. La complessiva formulazione del reclamo risulta confusa, disordinata e, spesso, non pertinente, con conseguente estrema difficoltà per la Società di comprendere i motivi per cui, a dire del sig. R, la sentenza dovrebbe essere riformata oltre che in quali precisi termini debba essere motivata e con palese ostacolo alle sue possibilità di approntare un’adeguata difesa.

In ordine all’interpretazione della norma come novellata il Collegio, in linea generale ed astratta, ritiene che per dichiarare l’inammissibilità di un appello non possano incidere aspetti meramente formali.

Se è auspicabile che l’atto di appello non contenga prolissi riferimenti alle vicende processuali, se non quando essi siano funzionali alla migliore comprensione dei motivi, e venga articolato seguendo lo schema strutturale delineato dalla novella, non convince (non essendo sufficienti a giustificarla le esigenze connesse alla necessità di valutazione preliminare delle probabilità di accoglimento dell’appello imposte dagli artt. 348-bis e ter, aventi un ambito si applicazione notevolmente più ridotto di quello dell’art.342 c.p.c.) un’interpretazione che conduca a sanzionare con la inammissibilità l’atto di appello che – pur diversamente strutturato e pur appesantito di contenuti ultronei rispetto alla sua funzione – consenta comunque di individuare al suo interno, senza incertezze ed ambiguità, le indicazioni richieste dall’art. 342 c.p.c.. Così come sembra difficilmente sostenibile che, ove la motivazione dell’appello attenga a più parti del provvedimento impugnato e/o contenga censure sia in fatto che in diritto rivolte contro la medesima parte del provvedimento l’inadeguatezza, l’incompletezza o la aspecificità (nel senso che si è tentato di chiarire) di una o di alcune soltanto di tali censure comportino l’inammissibilità totale, piuttosto che parziale, del gravame: in simili ipotesi, il principio di conservazione (che viene comunemente affermato anche in relazione agli atti processuali e che in quest’ambito trova emersione normativa negli artt. 156, comma 3, e 159, comma 2, c.p.c.), dovrebbe impedire la produzione di effetti preclusivi dell’esame nel merito delle censure correttamente formulate (esame che non necessariamente dovrà concludersi con pronuncia di rigetto ove le porzioni di gravame ammissibile attingano parti del provvedimento o questioni dotate di autonomia rispetto a quelle immodificabili per effetto della inammissibilità).

Nel caso concreto, l’eccezione della reclamata (formulata essenzialmente con ampi richiami dottrinari e giurisprudenziali, anche parzialmente condivisibili, ma non pertinenti al caso in esame) come desumibile da integrale riproduzione della memoria di costituzione nella parte relativa specificatamente all’atto del presente procedimento,  è da ritenersi infondata.

Le censure mosse alla formulazione del reclamo sono, infatti, generiche, di stile e/o meramente formali e, l’atto – formato da 55 pagine – pur se prolisso, consente di comprendere le ragioni in fatto e diritto a sostegno dello stesso formulate, senza alcuna lesione e/o compromissione del diritto di difesa, compiutamente esercitato in una memoria di 38 pagine (in corpo e formato più ristretto del gravame) e, sostanzialmente, come desumibile dalla successiva esposizione dei suoi motivi, integralmente rispettoso della novellata norma processuale posta a fondamento dell’eccezione pregiudiziale che è, pertanto, da respingersi.

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Con un primo motivo la parte reclamante, in sintesi, censura la sentenza impugnata per  violazione dell’art. 15 L.n. 300/70, art. 3 L. 108/90, art. 1345 c.c., artt. 1 – 4 D.Lgs. n. 216/03 e art. 28 D.Lgs. n. 150/2011 e sua erroneità nella parte in cui ha trattato congiuntamente motivo discriminatorio e motivo illecito, ha richiesto la consapevolezza dell’intento discriminatorio, ha ritenuto che le condotte discriminatorie fossero da ricondursi ai permessi e alle ferie e che tra queste e il licenziamento impugnato vi fosse una progressione tale da escludere la natura discriminatoria del licenziamento.

In particolare,  ha premesso che sia in fase sommaria, che in sede di opposizione, il ricorrente aveva proposto come autonomi motivi di impugnazione, il carattere discriminatorio e il motivo illecito del licenziamento impugnato, fattispecie che, pur condividendo l’apparato sanzionatorio, anche nel testo dell’art. 18 novellato (applicabile ratione temporis),  sono concettualmente distinte.

Ha esposto, in proposito, che “ Il primo errore che si imputa alla sentenza impugnata è di aver unificato, trattandoli come fossero un solo vizio, i motivi di impugnazione proposti, in via gradata, dal ricorrente – opposto.

L’impostazione, a cascata, importa un’errata interpretazione della normativa intervenuta in materia.

Prima che per motivo illecito, il R chiede l’accertamento della nullità del licenziamento per motivo discriminatorio e per una delle ipotesi – l’affiliazione sindacale – tipizzate dalla legge (art. 3 L. 108/90, art. 15 L. 300/70).

La distinzione non è di poco conto perché l’art. 1345 c.c.:

– è costruito sulla base di elementi soggettivi (il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per motivo illecito) e non su dati oggettivamente verificabili;

– la causa illecita è richiesta quale causa determinate (e perciò unica);

– l’intero onere probatorio è a carico del lavoratore.

La norma, in tutti e tre gli aspetti elencati (che, parallelamente, caratterizzano l’iter motivazionale della sentenza impugnata), non è applicabile al licenziamento che occupa che, al contrario rientra, e a pieno titolo, nel “nuovo” diritto discriminatorio.”

Richiamato il contenuto delle citate disposizioni ritenute violate ha esposto che “tutte hanno un minimo comun denominatore: non è necessario provare alcun elemento intenzionale in capo al datore di lavoro, ma occorre unicamente effettuare un’indagine comparativa e valutare se un determinato soggetto, in virtù della sua condizione o delle sue scelte, sia stato trattato in maniera differente rispetto a quanto sia, sia stato o sarebbe stato trattato un altro soggetto in analoga situazione.

Ora, la sentenza impugnata, è tutta fondata sulla verifica dell’elemento intenzionale in capo al datore di lavoro (che pure è presente, per quanto oltre si dirà), ma che la legge non richiede affatto.”

Ha aggiunto “ che non è la concessione di permessi e ferie a concretare il motivo discriminatorio, ma il licenziamento intervenuto dopo l’iscrizione del R al sindacato e dopo l’intervento della CGIL diretto a far rispettare un obbligo di non poco conto, qual è quello di far lavorare” e ha richiamato a sostegno di tale assunto la sequenza temporale dei fatti, come sin dall’inizio del procedimento esposti.

Censurando l’argomentazione del Tribunale che “I tempi del progressivo allontanamento di R dall’azienda, senz’altro discutibili quanto ai modi, attestano però l’irrilevanza dell’iscrizione sindacale nella decisione del suo licenziamento”, ha evidenziato che  “Di primo acchito si potrebbe sostenere che permessi, ferie e licenziamento hanno, tra loro, una progressione e, dunque, una logica, ma nulla è più lontano dalla realtà.

I permessi servono al dipendente per andare, ad esempio, dal dentista e non c’è azienda, che intenda licenziare, che metta in permesso, a singhiozzo, il dipendente prima di licenziarlo.

Le ferie servono a ricostituire le energie psicofisiche e non hanno alcuna attinenza con il licenziamento.

Tra la messa in ferie (23 giugno) e il licenziamento (18 luglio) sono trascorsi 20 giorni, troppo pochi per maturare l’idea di licenziare.”

Ha assunto che la dimostrazione delle osservazioni sin qui riportate è rinvenibile nelle dichiarazioni rese dal sig. V, l.r. della società, in sede di interrogatorio libero, le quali attestavano che, sia quando il R è stato posto in permesso  sia quando collocato in ferie forzate ed eccedenti le ferie maturate, egli non aveva alcuna intenzione di licenziarlo, avendo indicato ragioni di carattere produttivo (necessità di mettere a punto nuovi sistemi con il responsabile della produzione che li avrebbe trasmessi a R) compatibili con i permessi e con le ferie, ma del tutto inconciliabili con il licenziamento.

Ha esposto, infine e in sintesi, che “ L’uso strumentale dei due istituti, per quanto distorto, poteva avere una sua logica, ma non si pone in “progressione”, come si legge in sentenza, con il licenziamento”, derivante, invece, dalla contestazione dell’utilizzo distorto dei due istituti e dall’iscrizione al sindacato e posto in essere dopo  un lasso di tempo incredibilmente breve dal fatto che lo innesca, con modalità (in tronco e con l’accollo dell’onere della corresponsione della relativa indennità dell’indennità di preavviso) poco in linea con una crisi aziendale, qualificata “incredibile”, per quanto successivamente esposto per sostenere, anche ad altri fini, l’ inesistenza dell’apparente motivazione giustificatrice del recesso.

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La reclamata società in ordine al primo motivo di reclamo sopra riassunto si è difesa, (in sintesi) riportandosi a quanto da essa esposto in primo grado e condiviso nella sentenza reclamata, ribadendo che la lettera del 4 giugno 2012 con comunicazione del R di iscrizione al sindacato – contrariamente ad assunto avversario – non era stata da essa società volutamente non ritirata né conosciuta (perché inviata a sua precedente sede e non alla nuova, regolarmente risultante dal R.E.C. di Padova) , che nel gravame a sostegno dello stesso si erano enunciati “fatti nuovi “, in ogni caso non idonei a provare il carattere discriminatorio del licenziamento, circostanza da provarsi a carico del ricorrente, onerato della relativa prova.

In particolare ha enunciato che “ era stata contattata dal sindacato con la comunicazione del 26 giugno 2012, a firma del sig. G, Segretario Generale della FLAI-CGIL di Padova (doc. 7 ex adv.) e che, solo a quella data, infatti, il sindacato, interpellato dal sig. R, interveniva.

Ma, a quella data, il Lavoratore aveva già usufruito dei permessi e delle ferie, prime condotte “astrattamente” discriminatorie secondo il Giudice dell’opposizione (p. 15 Sentenza – all. I), per cui deve escludersi anche che il licenziamento del Lavoratore possa essere stato determinato dall’intervento del sindacato (come pretenderebbe sostenere Controparte, “raddrizzando il tiro” rispetto all’originaria prospettazione dei fatti di causa, deducendo una circostanza nuova – p. 18 Reclamo – estranea al suo primo Ricorso ex art. 1, co. 48 e ss. L. n. 92/2012 e dunque inammissibile).

Sul punto, peraltro, si confuta la circostanza ex adverso dedotta, secondo cui la necessità di ridurre i costi sarebbe “comparsa” per la Società “inspiegabilmente dopo la protesta sindacale” (p. 22 reclamo).

Come ampiamente esposto nel successivo paragrafo della presente esposizione, infatti, I ha sempre avuto necessità di ridurre i suoi costi, sin dal 2008, a fronte dei gravi dati di bilancio che attestavano il negativo andamento dell’attività aziendale.

Solo nel 2012, la Società ha però dovuto affrontare a viso aperto la crisi economico – finanziaria che l’aveva investita, intraprendendo tutta una serie di iniziative imprenditoriali volte al riassetto della propria organizzazione produttiva (fra cui, in particolare – come meglio in seguito – il trasferimento del proprio laboratorio in una nuova sede di grandemente ridotta capacità produttiva).

Ad ulteriore conferma dell’infondatezza delle accuse di antisindacalità mosse dal Lavoratore (vd. sul punto anche pp. 3-4 e 14 e ss. memoria fase sommaria e pp. 2 e ss. note opposizione), si osservi peraltro che, non appena ricevuta la lettera citata (doc. 7 ex adv.), il sig. V si metteva immediatamente in contatto con il sig. G, di FLAI-CGIL, per illustrargli le ragioni del raggiunto accordo con il lavoratore, rappresentandogli anche il pesante momento di crisi in cui versava I. La circostanza trova peraltro conferma nelle dichiarazioni rese dal sig. V medesimo in sede di interrogatorio libero (ud. 17 gennaio 2014, p. 5 all. I).

La telefonata fu del tutto cordiale nei toni e nei modi (anche considerata la pluriennale esperienza del sig. V in materia di relazioni sindacali e la sua diretta conoscenza dei massimi dirigenti sindacali a tutti i livelli, di cui oltre) ed il sig. G, ricevuti tutti i chiarimenti e le informazioni del caso da parte dell’azienda, non diede più seguito ad alcuna iniziativa, tanto è vero che alla comunicazione del 26 giugno 2012 (doc. 7 ex adv.) non fece più seguito alcuna doglianza di parte sindacale.

Ma, e definitivamente, quel che più rileva e si vuole sottolineare da ultimo, è che se FLAI-CGIL avesse avuto il benché minimo sospetto che un suo iscritto fosse stato licenziato come conseguenza immediata e diretta dell’iscrizione al sindacato e del tentativo di far valere propri giusti diritti, lo avrebbe certamente e con forza rilevato, quantomeno in via stragiudiziale.

Ed, invece, al contrario, e ad ennesima ed incontrovertibile riprova dell’inesistenza a riguardo di qualsivoglia condotta illecita, FLAI-CGIL, né nell’immediatazza dei fatti, né successivamente non ha mai sollevato qualsivoglia doglianza nei confronti di I per pretesi comportamenti antisindacali.

Non solo. Le accuse di antisindacalità e di condotte discriminatorie ex adverso mosse alla Società appaiano addirittura paradossali.

Si ricorda, infatti, che il sig. L V ha svolto per ben 11 anni attività di rappresentante sindacale nazionale di categoria e, in particolare, ha rivestito per 3 anni la carica di Presidente Nazionale di Federpanificatori, per 5 anni di Presidente del Gruppo Giovani Panificatori, per altri 3 anni di Presidente Federpanificatori Veneto e per 5 anni Presidente di Federpanificatori Padova.

Il sig. V, dunque, è persona che ha intrattenuto e intrattiene da anni relazioni sindacali ai massimi livelli nazionali e locali con i dirigenti di FLAI-CGIL, e – tra gli altri – sig. M (Responsabile Nazionale FLAI-CGIL) e il sig. R P (Responsabile regionale FLAI – CGIL) – e sta personalmente oggi trattando l’istituzione dell’Ente Bilaterale della categoria (EBIPAN ed EPIDAN). Tanto brevemente ricordato, le denunce avversarie di antisindacalità appaiono dunque davvero incredibili ed al limite dell’abnorme.

Si contestano, poi, le eccezioni avversarie, secondo cui il Giudice dell’opposizione avrebbe errato nell’aver “trattato congiuntamente motivo discriminatorio e motivo illecito” e nell’aver “richiesto la consapevolezza dell’intento discriminatorio” (pp. 13-14 reclamo).

Quanto al primo dei profili ex adverso eccepiti, si precisa – come già accennato supra – che il Giudice dell’opposizione non ha affatto confuso le due fattispecie richiamate dal sig. R, bensì ha correttamente ritenuto di inquadrare la condotta dallo stesso lamentata nella fattispecie del licenziamento ritorsivo (in quanto, secondo la prospettazione di Controparte, “il licenziamento avrebbe costituito la reazione del datore di lavoro all’iscrizione al sindacato” e, dunque, al legittimo esercizio di un diritto da parte del Lavoratore – p. 14 Sentenza – all. I). Ed è noto il potere qualificatorio attribuito al Giudice che può liberamente qualificare giuridicamente la domanda azionata, sulla base delle circostanze dedotte dalle Parti, a prescindere dal nomen juris eventualmente dalle medesime utilizzato.

In ogni caso, in replica agli assunti avversari, si evidenzia che l’assoluta identità del regime probatorio in ipotesi di licenziamento ritorsivo e strettamente discriminatorio, almeno laddove sia dedotto un motivo sindacale. In entrambi i casi è infatti indispensabile la prova dell’intento discriminatorio, ossia la “volontarietà dell’atto posto in essere. In altre parole, è necessario che il provvedimento datoriale “sia caratterizzato dalla volontà di punire il lavoratore, di colpirlo, di arrecargli pregiudizio in ragione del credo politico o religioso, del sesso, e così viaSoltanto ove sia dimostrato l’intento del datore di lavoro di nuocere ad alcuni lavoratori, a causa del credo politico o religioso, delle condizioni personali, della partecipazione ad attività sindacali e così via, è possibile dichiarare la nullità del provvedimento espulsivo”. In tal senso si è infatti espressa la migliore Dottrina, oltre che la Giurisprudenza maggioritaria, di legittimità e merito (ex multis, Cass. 14 luglio 2005, n. 14816; Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; Cass. 26 maggio 2001, n. 7188; Cass. 1 febbraio 1988, 868; Trib. Alba, 2 novembre 2005).

In particolare – come osservato da alcuni Autori – la Giurisprudenza (richiamando, ex multis, espressamente la citata Cass. 26 maggio 2011, n. 7188), ha in più occasioni sancito la nullità del provvedimento datoriale se adottato “proprio per ragioni di discriminazione sindacale, nel senso che tali ragioni debbono essere quelle che hanno determinato in via esclusiva il datore di lavoro a compiere quell’atto”.

Ciò premesso, rimane allo stato del tutto indimostrato (ed indimostrabile) che il recesso intimato al sig. R abbia sotteso un intento ritorsivo / discriminatorio, esclusivo e determinante il recesso (per tutte, Cass. 22 agosto 2003, n. 12349), il cui onere della prova – nel caso non assolto – ricade interamente su parte avversa.

Manca in sintesi la fattispecie rivendicata sia rispetto all’accezione più rigorosa del concetto di discriminatorietà del licenziamento, per cui rileverebbero unicamente le ipotesi tipiche ai sensi dell’art. 3, L. n. 108/1990 (es: per motivi di sesso, razza, lingua religione etc.), sia nel caso in cui si volesse estendere la definizione tanto da ricomprendervi condotte ritorsive, definite, alla luce dalla giurisprudenza (anche richiamata da Controparte), quale “ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore”, quando “il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante [anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo] e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova” (Cass. 26 marzo 2012 n. 4797).

Invero, per l’accertamento dell’intento ritorsivo del licenziamento non è sufficiente la deduzione dell’appartenenza del lavoratore ad un sindacato o della sua partecipazione, anche se attiva, ad attività sindacali, ma è necessaria la prova della sussistenza di un rapporto di causalità tra tali circostanze e l’asserito intento di rappresaglia (Cass. 14 luglio 2005, n. 14816).

Non vi è in atti alcuna allegazione e prova di tale asserita condotta “legittima” del Lavoratore quale fatto scatenante la ritorsività del licenziamento, non potendo valere né l’asserita iscrizione al sindacato, in quanto, come più volte sottolineato, la Società mai è venuta a conoscenza dell’iscrizione del sig. R alla FLAI-CGIL, né l’intervento del sindacato, per conto del sig. R, per le ragioni già sopra esposte.

Ad ogni modo, anche ove si dovesse ritenere dimostrata l’esistenza di una qualsivoglia condotta legittima del Lavoratore come sopra indicata, ancora mancherebbe la prova del richiesto nesso di causalità con il licenziamento oggi impugnato.

Pertanto, a confutazione delle infondate tesi avversarie (pp. 39 e ss. reclamo), nel caso di specie il reclamante non ha minimamente assolto all’onere della prova sullo stesso incombente, avendo omesso di allegare e dimostrare fatti ed elementi specifici, tali da far giungere ad una “conclusione sicura” in ordine alla presunta ritorsività – discriminatorietà del licenziamento per cui è causa (Trib. Alba, 2 novembre 2005).

Per converso, la Società ha ampiamente dimostrato la legittimità del contestato recesso e la sussistenza del giustificato motivo addotto a suo fondamento (riorganizzazione produttiva dettata da un negativo andamento dell’attività aziendale), con ciò escludendo in radice la configurabilità di qualsivoglia condotta discriminatoria – ritorsività ai danni del sig. R.

Del tutto inconferenti, rispetto alla fattispecie in esame, si appalesano ad ogni modo i richiami di parte avversa alla giurisprudenza e alla normativa comunitaria ed ai provvedimenti legislativi nazionali che contemplano fattispecie e tematiche del tutto distinte (disabilità, immigrazione, pari opportunità …) – da quella del licenziamento per cui è causa, connotato peraltro – ovviamente nella prospettiva avversaria – da una natura ritorsiva e non semplicemente discriminatoria nella sua più ristretta accezione (pp. 15 e ss. reclamo).

*****

Il primo motivo del reclamo, relativo alla domanda proposta dal ricorrente in via principale e con la quale si è prospettata l’accertamento della “ritorsività” ovvero del motivo illecito, come pacifico tra le parti, è disciplinata dall’art 42 comma 1 legge 42 del 2012 (infra, legge Fornero) in base al quale :  Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullita’  del licenziamento perche’ discriminatorio ai sensi dell’articolo 3  della legge 11 maggio 1990, n. 108, …. ovvero   perche’ riconducibile ad altri  casi  di  nullita’  previsti  dalla  legge  o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di  lavoro,  imprenditore  o non imprenditore, la  reintegrazione  del  lavoratore  nel  posto  di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale  che sia il numero dei  dipendenti  occupati  dal  datore  di  lavoro….”, il che determina per tale domanda l’irrilevanza di eccezioni in rito e relative al numero dei dipendenti della reclamata.

In ordine ad un primo contrasto sussistente tra le parti, relativo alla ripartizione dell’onere della prova  dei diversi assunti, è da evidenziarsi che (per l’accoglimento della domanda principale) di nessun rilievo può attribuirsi ad un’eventuale differenziazione, in proposito, tra licenziamento asseritamente discriminatorio ed asseritamente illecito perché antisindacale e/o ritorsivo (questione che potrebbe avere rilevanza ai fini dell’esclusività o meno del motivo posto a fondamento della domanda e sull’onere della prova) atteso che la domanda del ricorrente è stata sempre proposta (in ogni fase del procedimento) per un esame in via prioritaria del motivo d’impugnazione che prospetta l’accertamento della antisindacalità e/o “ritorsività” del recesso, rispetto al quale va esaminato il contrasto.

In proposito è da evidenziarsi che il ricorrente nel ricorso della fase sommaria di primo grado  aveva già evidenziato, tra le varie circostanze in fatto prospettate ai fini dell’accoglimento della domanda principale, anche la pretestuosità del motivo posto a fondamento dell’impugnato recesso costituito dal “negativo andamento dell’attività aziendale” (doc.8 ric.) scrivendo,a tal fine, a pag. 5 dello stesso “l’evidente illogicità e contraddizione nella motivazione del recesso giocano un ruolo decisivo in ordine alla reale natura del licenziamento”.

In ogni caso e, comunque, “l’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’ onere di provare, ai sensi dell’art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l’ onere di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso ( cfr, da ultimo in tal senso Cass. 6501 del 14/03/2013).

In ordine alla legittimità del recesso come motivato, nel caso in esame non sembra essere in discussione tra le parti che la relativa prova spetti al datore di lavoro e, in ogni caso, tale statuizione – in modo condivisibile – deriva dalla giurisprudenza da ultimo richiamata.

Sull’onere della prova incombente al ricorrente, è da evidenziarsi che il licenziamento per ritorsione diretta o indiretta, come da costante giurisprudenza di legittimità, è assimilabile a quello discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del 1970 e 3 della legge n. 108 del 1990 ed entrambi costituiscono l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito ( o di altra persona ad esso legata) e, pertanto, sono accomunati nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo o discriminatorio sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito la prova, anche con presunzioni ( cfr. tra le tante, Cass. 17087 dell’8 agosto 2011 che si può leggere, con nota di commento, anche su Riv. giur.lav. e prev.sociale, 2012, I, 326).

Quanto esposto sulle domande come proposte dal ricorrente in primo grado e sulla giurisprudenza di legittimità che accomuna licenziamento ritorsivo e discriminatorio (nonché quanto qui esposto al successivo alinea) rende irrilevante anche esaminare se la prova del carattere ritorsivo o antisindacale del recesso sia influenzato dai principi comunitari richiamati dal ricorrente  ( esaminati, invece, in sentenza della Corte di Appello di Roma su nota vicenda sindacale FIAT, relativa a mancata assunzione da parte di società di nuova istituzione di 19 lavoratori iscritti a sigla sindacale, che ha avuto ampio risalto anche sulla pubblicistica non specializzata e che è divenuta definitiva in virtù di ritenuta inammissibilità del ricorso in Cassazione per sopravvenuta carenza ad agire, come statuito da Cass.11 marzo 2014, nr. 558).

Nel caso in esame, infatti, come da assunto subordinato del ricorrente, si può ritenere che, in ogni caso, sussista l’elemento intenzionale in capo al datore di lavoro, la cui prova non richiede una diabolica prova del suo elemento soggettivo, ma, come si legge nelle sentenze soprarichiamate di “prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole” o ancora sulla possibile dimostrazione da parte della parte ricorrente, mediante presunzioni semplici utilizzate per delineare un quadro ritenuto sufficientemente certo ( e non “sicuramente”, come affermato in giurisprudenza di merito richiamata dalla difesa della Is. n.c.) della effettiva natura esclusivamente ritorsiva del licenziamento, finalizzata alla dichiarazione della sua nullità, con gli effetti di cui all’art. 18 S.L..

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Passando ad esaminare la fattispecie concreta in esame alla luce di quanto evidenziato in diritto, è da evidenziarsi che i fatti di seguito esposti risultano provati documentalmente o sono pacifici, determinando che ogni ulteriore prova testimoniale formulata e/o reiterata in questa sede è da ritenersi irrilevante e/o superflua.

Il recesso come formalmente motivato non può ritenersi giustificato.

In primo luogo, in proposito, come già accennato, è da tenere presente  che il recesso è stato motivato “a seguito del negativo andamento dell’attività aziendale” e non perché inserito “in un processo di riorganizzazione della produzione”, come sostenuto dalla resistente e ritenuto nel provvedimento impugnato ai fini di valutare la domanda principale qui accolta.

Per quanto esposto dalla parte odierna reclamante su concessione permessi e ferie e risultanze del libero interrogatorio del V, il “negativo andamento dell’attività aziendale” non può coincidere con una crisi risalente nel tempo, ( sin dal 2008) come sostenuto dalla parte reclamata nella parte in premessa della memoria depositata in questa sede e in successivi passaggi di tale atto, ma dovrebbe essere riferibile a situazione  di crisi precipitata e verificatasi nell’ultimo periodo del rapporto, dopo la comunicazione del collocamento del ricorrente in ferie forzate e non maturate.

Pertanto, ed anche per quanto ritenuto nel provvedimento emesso al termine della fase sommaria e sopra riprodotto in svolgimento, può escludersi la legittimità del licenziamento in base alla sua motivazione,il che determina la sussistenza di una delle circostanze dedotte e, in via prioritaria, rilevante ai fini della decisione.

Nell’esame degli indizi e/o circostanze di fatto enunciati dalla reclamante a sostegno del gravame in ordine alla domanda principale, contrariamente  a quanto nella difese della resistente, non può ritenersi che si sono dedotti fatti nuovi o “si è aggiustato il tiro”.

Nel ricorso introduttivo della fase sommaria, infatti, il ricorrente enunciava una sequenza temporale dei fatti  (una prima volta a pag. 1 e 2 e ribaditi a pag.4 e nel presente atto desumibili da quanto riassunto o riprodotto) decorrenti dalla fine di maggio 2012 al recesso del 18 luglio 2012 e, dopo aver sostenuto che l’ingiustificatezza del recesso di per sé determinava il suo carattere discriminatorio, in subordine enunciava (pag. 5 dello stesso) la nullità “perché ritorsivo, come attesta la stretta sequenza temporale degli eventi (assenza di GMO in connessione con l’intervento sindacale).”.

Nella presente fase, pertanto, si può ritenere che, pur senza espressa enunciazione, non si è solo valorizzato più la circostanza della conoscenza dell’iscrizione del R al sindacato come da lettera sindacale del 4 giugno 2012 (doc.6), della quale, pertanto, è superfluo esaminare contrasto tra le parti su ricevimento e/o conoscenza del suo contenuto e sul quale si é dibattuto e/o deciso nelle precedenti fasi del procedimento sull’erroneo presupposto di una limitazione dei fatti dedotti a sostegno della domanda principale solo a tale circostanza.

La sicura conoscenza di  tale iscrizione per le rimostranze del R avanzate tramite sindacato il 26 giugno 2012 (doc.7 ric.) e la ritenuta pretestuosità del recesso, unitamente alle modalità del recesso ( in tronco e con pagamento del preavviso, senza rientro in azienda per lavorare il preavviso) inducono ad affermare che nella fattispecie in esame vi sono univoci e concordanti elementi per affermare che il licenziamento sia ritorsivo e determinato dall’illecita determinante ragione di liberarsi del lavoratore, che di fronte ad indubbiamente anomali permessi e concessione di ferie aveva reagito cercando di tutelarsi tramite iscrizione ed intervento sindacale.

Per escludere tale conclusione non rileva la considerazione di parte reclamata sulla circostanza che nella lettera sindacale del 26 giugno con le avanzate rimostranze non si accennava a tale assunto, sia perché all’epoca non era stato posto in essere l’atto di recesso fonte di effetti pregiudizievoli ben più rilevanti di concessione di anomali permessi e ferie forzate e non maturate, sia perché la “protesta” aveva fini solo interlocutori per una valutazione congiunta della “vicenda”, non verificatasi per licenziamento dopo venti giorni, alla fine delle concesse ferie.

Non rileva, infine, neanche l’enunciata carriera sindacale del V nell’arco di undici anni ( esposta per sostenere il carattere “paradossale”  o “incredibile ed al limite dell’abnorme” dell’assunto posto a base della domanda accolta) perché circostanza relativa a comportamenti esterni al rapporto, di equivoco valore e che, al limite, potrebbe apparire avvaloratrice di quanto contrastato.

Pertanto, può concludersi per la sussistenza di più indizi e/o presunzioni per ritenere sussistente la dedotta nullità  del licenziamento del 18 luglio 2012,  con conseguente condanna della reclamata,  ai sensi dell’art 18 legge n 300 del 1970 come modificato dall’art 1 comma 42 della legge 92/2012,  alla richiesta  reintegra della parte ricorrente nel posto di lavoro.

*****

L’accoglimento del primo motivo di reclamo, relativo alla domanda proposta in via principale,  assorbe l’esposizione e la valutazione degli assunti e/o domande  proposti dal reclamante in via subordinata , nonché della replica agli stessi della reclamata e i reclami incidentali proposti dalla società.

Per istruttoria e decisione sulle riproposte ( pag.34 memoria) eccezioni di aliunde perceptum vel percipiendum, si dispone il prosieguo con separata ordinanza.

P.Q.M.

ogni contraria istanza, eccezione e domanda disattesa, così provvede:

  1. IN RIFORMA DELL’APPELLATA SENTENZA, ACCOGLIE LA DOMANDA PRINCIPALE DEL RICORRENTE E, DICHIARATA LA NULLITA’ DEL LICENZIAMENTO INTIMATO NEI SUOI CONFONTI, CONDANNA LA SOCIETA’ RECLAMATA A REINTEGRARLO NEL SUO POSTO DI LAVORO;
  2. DISPONE IL PROSIEGUO COME DA SEPARATA

VENEZIA, 3 LUGLIO 2014          IL PRESIDENTE RELATORE