Discriminazione sindacale, Tribunale di Bergamo, sezione lavoro, ordinanza del 28 marzo 2018

IL TRIBUNALE DI BERGAMO

SEZIONE LAVORO

in composizione monocratica in persona della dott.ssa Monica Bertoncini in funzione di Giudice del Lavoro, a scioglimento della riserva assunta il 22 febbraio 2018, ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel procedimento ex art. 28 d.lgs. 150/2011 promosso da F I L dei T – FILT CGIL di Bergamo, con i proc. avv. M. Parpaglioni, C. De Marchi Gomez, S. Vacirca, V. Mattiozzi

ricorrente –

contro

R D con i proc. avv. S. Barozzi, S. Bargellini ed E. Baldassarre

convenuta –

 

Svolgimento del processo

Con ricorso promosso ai sensi dell’art. 28 d.lgs. 150/11 e art. 5, co. 2, d.lgs. 216/03 la F I L T – FILT CGIL di conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bergamo, la R D per sentir accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della clausola inserita nel contratto individuale di lavoro dei dipendenti e del personale definita “estinzione del contratto” del seguente tenore “questo accordo rimarrà in vigore per tutto il tempo che il personale di cabina di R contatti direttamente il datore di lavoro e non effettui interruzioni di lavoro (work stoppages) o qualunque altra azione di natura sindacale. Se R o le società di mediazione di lavoro saranno obbligate a riconoscere qualunque sindacato del personale di cabina o se vi sarà qualunque azione collettiva di qualsiasi tipo, in questo caso il contratto dovrà intendersi annullato e inefficace e qualunque incremento retributivo o indennitario (allowance) o cambio di turno concessi sotto la vigenza del presente contratto sarà ritirato”, con conseguente condanna alla cancellazione ed all’annullamento di tale clausola del contratto-regolamento imposto ai lavoratori; nonché per sentir ordinare a R un piano di rimozione delle discriminazioni o delle prassi che ostacolano l’esercizio dei diritti sindacali; nonché per sentirla condannare al risarcimento del danno da quantificarsi in via equitativa; nonché per sentir ordinare la pubblicazione del provvedimento su almeno tre quotidiani nazionali.

A fondamento di tale pretesa la ricorrente evidenziava come all’interno della società convenuta non esista un sistema di relazioni sindacali, poiché l’azienda rifiuta pubblicamente e sistematicamente l’instaurazione di relazioni sindacali su tutte le basi italiane ed europee presso le quali opera.

La ricorrente dava inoltre atto dell’adozione, da parte di R, di un regolamento unilaterale, imposto in sede di instaurazione dei rapporti, atto a penalizzare ogni forma di rivendicazione, sia individuale che collettiva.

A tal proposito l’organizzazione ricorrente richiamava la previsione, nei contratti individuali, di clausole che inibiscono in maniera assoluta l’affiliazione sindacale e la rivendicazione collettiva dei diritti.

L’associazione ricorrente affermava pertanto il carattere discriminatorio di tale clausola, ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 216/03, in quanto idonea ad incidere sulle condizioni di accesso al lavoro, disincentivando i lavoratori sindacalizzati dall’instaurare rapporti di lavoro con la convenuta, atteso che le “convinzioni personali” rientrano tra i fattori di rischio della discriminazione.

La R D, regolarmente citata, si costituiva in giudizio, resistendo alla domanda di cui chiedeva il rigetto.

La convenuta eccepiva preliminarmente il difetto di giurisdizione dell’autorità italiana, essendo una società di diritto irlandese, ed eccepiva poi l’inammissibilità e l’improcedibilità dell’azione, che avrebbe dovuto essere proposta ai sensi dell’art. 28 l. 300/70.

La convenuta rilevava, inoltre, come ai rapporti di lavoro del proprio personale fosse applicabile la legge irlandese, unica quindi invocabile anche rispetto alle relazioni ed ai diritti sindacali.

Nel merito, la convenuta negava che presso l’aeroporto di Orio al Serio, al pari di qualsiasi altro in Italia, fosse ravvisabile una stabile organizzazione di R.

La convenuta eccepiva poi il difetto di legittimazione attiva del sindacato, non essendo stato riconosciuto da R e non avendo alcun dipendente iscritto.

La R rilevava inoltre come il proprio contratto collettivo, ancorché non sottoscritto dai sindacati, fosse stato giudicato valido, in base alla legge irlandese, dalla Supreme Court.

Infine, in ordine alla clausola denunciata di discriminatorietà, la convenuta ricordava come ne esistessero di analoghe nell’ambito della contrattazione collettiva italiana. Concludeva per il rigetto del ricorso.

La causa, istruita solo documentalmente, veniva trattenuta in riserva all’udienza del 22 febbraio 2018.

Motivi della decisione

Va preliminarmente affrontata la questione della giurisdizione, essendo pacifico che la convenuta è società di diritto irlandese ha sede in Italia.

L’organizzazione ricorrente afferma la sussistenza della giurisdizione italiana in base all’art. 7 n. 2 del regolamento CE 1215/12 sul presupposto della natura extracontrattuale  dell’azione  proposta  e  dell’illecito derivato dalla condotta denunciata, illecito suscettibile, in base alla previsione dell’art. 28, comma 5, d.lgs. 150/11 di risarcimento del danno non patrimoniale.

Secondo la citata disposizione “una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro (…) in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire”.

L’art. 4, 1° comma, del regolamento CE 1215/12 stabilisce che “le persone domiciliate nel territorio di un determinato Stato membro sono convenute, a prescindere dalla loro cittadinanza, davanti alle autorità giurisdizionali di tale Stato membro”.

Il successivo art. 5, 1° comma, aggiunge che “le persone domiciliate nel territorio di uno Stato membro possono essere convenute davanti alle autorità giurisdizionali di un altro Stato membro solo ai sensi delle norme di cui alle sezioni da 2 a 7 del presente capo”.

Ciò premesso, va ricordato che l’azione di discriminazione è finalizzata all’accertamento del carattere discriminatorio di una determinata condotta.

Essa è ricollegata alla violazione dei principi di uguaglianza e di parità di trattamento e viene talvolta definita come azione di nullità, in quanto nulli sono gli atti posti in essere in violazione del divieto di non discriminazione (come ad esempio, nel caso del licenziamento discriminatorio).

La pronuncia del Giudice, una volta accertata la discriminazione, deve avere un contenuto tale da rimuovere la discriminazione stessa e ripristinare la parità di trattamento (v. art. 9 Direttiva CE 43/00 e art. 11 direttiva CE 78/00).

Sempre secondo le citate direttive “gli stati membri determinano le sanzioni da irrogare in caso di violazione … e prendono tutti i provvedimenti necessari per la loro applicazione. Le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento del danno, devono essere effettive, proporzionate, dissuasive” (art. 15 Direttiva CE 43/00 e art. 17 Direttiva CE 78/00).

L’art. 44, comma 1, d.lgs. 268/98 (richiamato anche dal d.lgs. 216/03) definisce l’azione civile contro la discriminazione come quella all’esito della quale il Giudice può “ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”.Il settimo comma di tale disposizione stabilisce che “con la decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale”.

Analogamente, secondo l’art. 4, comma 4, d.lgs. 216/03 “con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discrimina”.

Conseguentemente, con l’introduzione del rito unico, l’art. 28, 5° comma, d.lgs. 150/11 ha previsto che “con l’ordinanza che definisce il giudizio il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti”.

In questo caso, il risarcimento del danno è ricollegato alla lesione di diritti soggettivi o interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (come ad esempio nel caso del diritto alla riservatezza, v. SS.UU. 26972/08, o a non subire discriminazioni).

Pertanto, nell’ambito dell’azione contro la discriminazione viene in considerazione, oltre all’accertamento del carattere discriminatorio della condotta denunciata ed all’adozione delle misure più idonee alla rimozione degli effetti, il possibile risarcimento del danno per violazione del diritto a non subire discriminazione.

Tra l’altro, a seguito del recente intervento delle Sezioni Unite, non v’è dubbio che tale danno sia annoverabile tra quelli cd. « punitivi » la cui funzione appunto quella di “punire” l’autore dell’illecito condannandolo al pagamento di una somma il cui importo è superiore all’effettivo pregiudizio patito dal danneggiato (v. SS.UU. 16601/17).

Si tratta di un risarcimento legato ad un illecito civile che nella fattispecie in esame, come in molte altre del diritto antidiscriminatorio, ha connotazione extracontrattuale, per cui può latamente rientrare nella previsione di cui all’art. 7 n. 2 del regolamento CE 1215/12.

Inoltre, la disposizione in questione deve essere interpretata in base alla giurisprudenza europea che distingue le obbligazioni contrattuali da quelle extracontrattuali semplicemente sul presupposto della presenza o meno, quale oggetto del rapporto, di un obbligo liberamente assunto da una delle parti nei confronti dell’altra.

Va pure considerato che il diritto antidiscriminatorio è permeato da norme, anche di carattere processuale, che tendono ad alleggerire la posizione di chi denunzia la discriminazione ed in tale contesto si colloca anche la previsione del secondo comma dell’art. 28 d.lgs. 150/11 secondo cui “è competente il tribunale del luogo in cui il ricorrente ha il domicilio”.

Declinare la giurisdizione a favore di quella dell’autorità giudiziaria di altro Stato membro significherebbe frustrare completamente le finalità ed il principi del diritto antidiscriminatorio.

Sulla base di tali considerazioni può affermarsi la giurisdizione dell’autorità italiana, atteso che la condotta denunciata, per come rappresentata e per come si dirà nel prosieguo, è idonea a produrre i suoi effetti nel territorio italiano.Per completezza occorre rilevare come nessuna disposizione del regolamento CE 1215/12 ne esclude l’applicazione in caso di azione non promossa dal singolo, ma da un’organizzazione collettiva (art. 1).

Per quanto riguarda la legge applicabile, non risultano condivisibili le deduzioni della convenuta, poiché queste riguardano disposizioni (regolamento CE 593/08) che si riferiscono alle obbligazioni contrattuali in materia civile e commerciale e presuppongono l’esistenza del rapporto di lavoro.

Come già anticipato, tra le parti non sussiste alcun legame contrattuale, tant’è che si verte appunto in tema di responsabilità extracontrattuale, con conseguente applicabilità (anche in base al regolamento CE n. 864/07) della legge del luogo in cui si è verificato l’evento ovvero l’Italia.

Per quanto riguarda la legittimazione passiva del sindacato, contestata dalla convenuta sul presupposto della non applicabilità della legge italiana, la diversa conclusione appena affermata consente di respingere l’eccezione, tenuto conto che proprio la legge italiana attribuisce alle organizzazioni sindacali la legittimazione ad agire “nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione” (art. 5, comma 2, d.lgs. 216/03).

Va infine respinta l’eccezione di litispendenza con il giudizio ex art. 28 l. 300/70 instaurato dinanzi al Tribunale di Busto Arsizio, trattandosi di azioni che, a prescindere dalla parziale identità di alcuni fatti, sono all’evidenza connotate da petitum e causa petendi diverse.

Passando, quindi, ad analizzare il merito, la ricorrente ha evidenziato come la società convenuta neghi qualsiasi rapporto con le organizzazioni sindacali, avendo pure estromesso dall’azienda i dipendenti che nei vari Stati membri hanno tentato di porre in essere attività sindacali (v. doc. 22 fasc. ricorrente).

La FILT CGIL denuncia in particolare una clausola risolutiva espressa che la R DAC farebbe sottoscrivere al personale al momento dell’assunzione e secondo la quale il rapporto sarebbe destinato a risolversi in caso di sindacalizzazione, ragion per cui tale clausola, in quanto fortemente dissuasiva della libertà di associazione, avrebbe carattere discriminatorio per i dipendenti che intendano palesare ed agire in base alle proprie convinzioni personali di natura sindacale.

Tale clausola, definita “estinzione del contratto”, recita: “questo accordo rimarrà in vigore per tutto il tempo che il personale di cabina di R contatti direttamente il datore di lavoro e non effettui interruzioni di lavoro (work stoppages) o qualunque altra azione di natura sindacale. Se R o le società di mediazione di lavoro saranno obbligate a riconoscere qualunque sindacato del personale di cabina o se vi sarà qualunque azione collettiva di qualsiasi tipo, in questo caso il contratto dovrà intendersi annullato e inefficace e qualunque incremento retributivo o indennitario (allowance) o cambio di turno concessi sotto la vigenza del presente contratto sarà ritirato” (v. art. 11 “termination\review of agreement”, doc. 8 fasc. ricorrente).

La documentazione prodotta dalla resistente non dimostra che tale clausola non sia apposta, né richiamata nei contratti individuali di lavoro stipulati tra R D e personale italiano, posto che l’unico contratto depositato riguarda un soggetto assunto con la mansione di “customer service supervisor”, mentre la clausola denunziata appartiene al “Cabin Crew Agreemet for Crew Operation”, quindi riguarda il personale di volo (v. doc. 8 fasc. ricorrente e doc. 1 fasc. resistente).

L’ex pilota intervistato nel programma di La7, benché non fosse assunto direttamente da R D, ha confermato la richiesta di sottoscrizione di tale clausola, coerentemente con il tenore esplicito della stessa (v. doc. 22 fasc. ricorrente).

Tra l’altro, la difesa della convenuta verte più sulla validità di simili clausole, definite di “tregua sindacale”, che sull’assenza di queste nei contratti del personale di cabina.

Tuttavia, le clausole di “tregua sindacale” o di “responsabilità” previste all’interno di qualche contratto collettivo hanno un significato ed un tenore diverso, vincolano le rappresentanze sindacali al rispetto degli impegni assunti in sede di stipula del contratto, ma non comportano la risoluzione del contratto nei confronti di quei lavoratori che si rivolgono al sindacato affinché li tuteli.

Il modello R, per come lo ha pubblicizzato la società e per come risulta dalla ricerca depositata dalla ricorrente, è strutturato su una relazione diretta con i lavoratori, senza mediazioni o interferenze da parte del sindacato ed in tale ottica è stata prevista la “clausola di estinzione” denunciata in questa sede.

Non può però dubitarsi che questa abbia un effetto dissuasivo nei confronti delle persone sindacalizzate, considerato che il suo contenuto stride fortemente con il contesto lavorativo italiano, caratterizzato da una vigorosa e risalente presenza del sindacato e da ampie relazioni sindacali con le aziende (sia private che pubbliche).

Tale effetto dissuasivo è ancor più apprezzabile ove si consideri la reazione avuta dalla società di fronte alla proclamazione di uno sciopero da parte dei piloti.

E’ infatti accaduto che l’amministratore delegato della società, M O’L, abbia pubblicamente dichiarato di fronte all’assemblea degli azionisti che prima che la R venga sindacalizzata si “ghiaccerà l’inferno” (v. doc. 18-19 fasc. ricorrente).

Tale affermazione è stata resa nel settembre 2017 quando costui ha dovuto affrontare gli azionisti a seguito della cancellazioni, in Italia ed in Europa, di oltre 2.100 voli in sei settimane, per far fronte, secondo le dichiarazioni ufficiali della compagnia, a un deficit di piloti dovuto ad una cattiva gestione dei riposi previsti per legge, ma che secondo altre fonti notoriamente riportate sulla stampa, era dovuta ad una fuga di personale verso altre compagnie aeree che offrivano condizioni migliori.

Secondo quanto notoriamente avvenuto, nei mesi successivi i piloti della compagnia hanno indetto una serie di scioperi, a seguito dei quali R ha deciso di rinegoziare le condizioni contrattuali.

L’atteggiamento di ostruzionismo e respingimento della rivendicazione contrattuale è documentato dalla lettera con cui la compagnia ha intimato a piloti e assistenti di volo di non aderire allo sciopero indetto per venerdì 15 dicembre 2017 a meno di non incorrere in sanzioni tra cui la perdita di futuri aumenti in busta paga oppure trasferimenti o promozioni (v. doc. dep. udienza del 22 febbraio 2018).

Nel  comunicato   in  questione   si  legge   testualmente “sarete a conoscenza che il sindacato dei piloti Alitalia Anpac sta provando a incoraggiare i piloti R a non lavorare (…) Ci aspettiamo che tutti i nostri piloti lavorino normalmente e lavorino con noi per minimizzare gli inconvenienti per i nostri clienti (…) Tutti i piloti di R e l’equipaggio di cabina devono fare rapporto come sempre il 15 dicembre nella sala equipaggio. Ogni azione intrapresa da ogni dipendente risulterà nella perdita immediata del roster 5/3( ovvero la turnazione che prevede cinque giorni di lavoro e tre di riposo) per tutto l’equipaggio di cabina) » (v. doc. dep. udienza del 22 febbraio 2018).”

La cronologia dei fatti conferma che le dichiarazioni di M O’L si sono inserite in un contesto di agitazione del personale, ragion per cui non può dubitarsi dell’effetto dissuasivo delle stesse, atte oltretutto a rafforzare quello della “clausola di estinzione”.

Così ricostruiti i fatti, va richiamata la direttiva 2000/78/CE del 27.11.2000 che ha stabilito un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione   e  condizioni   di  lavoro.In particolare, secondo il suo articolo 1 la direttiva “mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio  di   parità  di    trattamento”.

Il d.lgs. 216/03 ha dato attuazione alla direttiva stabilendo all’art. 2, comma 1, che “per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale” e si ha “discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata  un’altra  in  una  situazione  analoga”  (art.       2, comma    1,      lett.     a,  d.lgs.  216/03).

Inoltre, “il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale” (art. 3, comma 1,   lett.  a,  d.lgs.  216/03).

Occorre quindi precisare che “la qualificazione di discriminatorietà può essere attribuita a un qualsiasi atto che determini un’oggettiva disparità di trattamento, avendosi riguardo agli effetti pregiudizievoli o di particolare svantaggio del trattamento meno favorevole e prescindendo dalle intenzioni del responsabile della discriminazione”  (Trib.  Bergamo,  24.4.2013,  Corte       App. Torino 23.1.2013).

 

Inoltre,  il  d.lgs. 216/03,   nel definire  la discriminazione  diretta  (“una  persona  è  trattata  meno favorevolemnte di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”) introduce una comparazione attuale, che una meramente ipotetica.

E come chiarito dalla Corte di Giustizia, «l’esistenza di una discriminazione diretta, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 non presuppone che sia identificabile un denunciante che asserisca di essere stato vittima di tale discriminazione» (così, par. 36 causa C-81/12 Associatia Accept,  nonché  par.   23    causa     C-54/07).

Ciò significa che è atta ad integrare discriminazione anche una condotta che, solo sul piano astratto, impedisce o rende maggiormente difficoltoso l’accesso all’occupazione, come nei casi analoghi sottoposti all’esame della Corte di Giustizia (causa C-81/12 Associatia   Accept,     nonché causa    C-54/07)

In particolare, nell’ambito della causa C-81/12 (cd. Associatia Accept), non era in discussione che alle dichiarazioni incriminate (rese da un’azionista di una squadra di calcio per il quale sarebbe stato preferibile ingaggiare un calciatore della squadra giovanile, piuttosto che un calciatore presentato come omosessuale) fossero applicabili gli articoli 1 e 3, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 « che riguardano, in materia di occupazione e condizioni di lavoro, dichiarazioni relative <<alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro (…), comprese (…) le condizioni di assunzione » (causa C-81/12 Associatia Accept).

Analoghe considerazioni si possono svolgere rispetto alle dichiarazioni in esame, con cui chiaramente si prendono le distanze dalle persone aderenti al sindacato e di fatto si prospetta la risoluzione del rapporto di lavoro nel caso in cui il dipendente, anziché contattare direttamente il datore di lavoro, effettui interruzioni di lavoro (work stoppages) o qualunque altra azione di natura sindacale (doc. 8 fasc. ricorrente).

Si tratta di una clausola e di espressioni che, sia dal punto di vista meramente oggettivo sia in relazione al contesto in cui si collocano, sono idonee a dissuadere determinati soggetti dal presentare le proprie candidature a R od a renderlo maggiormente difficoltoso.

Peraltro, nella situazione in esame, si è di fronte ad una delle maggiori compagnie aeree low cost, il che attribuisce maggiore risonanza, rilievo e dissuasività alla clausola ed alle dichiarazioni in questione.

Entrambe, per quanto già esposto, appaiono idonee a dissuadere dall’invio del curriculum vitae alla compagnia e ciò, di per sè, integra una limitazione delle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro.

E’ verosimile quindi che molte persone, apertamente aderenti al sindacato, potranno astenersi dall’inviare la propria candidatura, avendo la certezza che questa non sarà presa in considerazione, tenuto conto che R non nasconde, neppure con la memoria difensiva, la sua volontà di preferire una negoziazione diretta con i lavoratori, non mediata dalle organizzazioni sindacali italiane.

Pertanto, come sostenuto dall’avvocato generale nella causa C-54/07, dichiarazioni simili a quelle in esame hanno « un effetto tutt’altro che ipotetico », avendo piuttosto un impatto demoralizzante e dissuasivo nei confronti di quelle persone che aspirerebbero ad essere assunte presso la compagnia convenuta. Oltretutto, nella situazione in esame, la convenuta non ha fornito alcuna prova di resistenza in senso contrario, dimostrando che, nonostante la clausola, le dichiarazioni ed il periodo di particolare sollevamento del personale, siano state numerose assunzioni di personale italiano apertamente sindacalizzato.

Alla clausola di estinzione denunciata, per le complessive ragioni già esposte, deve essere attribuita natura discriminatoria integrando un’ipotesi di discriminazione diretta ed una chiara limitazione delle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in violazione dell’art. 3, comma 1, lett. A) d.lgs. 216/03.

Occorre, infine, aggiungere che in una situazione simile la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto la violazione dell’art. 11 della convenzione europea dei diritti dell’uomo laddove prevede che “ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica ed alla libertà di associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi” (comma 1) e “l’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge” (sentenza 2.7.2002 nei ricorsi 30668/96 e 30678/96, e in senso analogo sentenze Demir e Baykara c. Turchia e EnerjiYapi-Sol Sen c. Turchia).

La giurisprudenza comunitaria ha fornito una interpretazione evolutiva dell’articolo 11 della Convenzione, dedicato alla libertà di associazione, arrivando a ricomprendervi il diritto a non subire discriminazioni in ragione del proprio orientamento sindacale, ragion per cui nel concetto di « convinzioni personali » vanno incluse le opinioni e l’appartenenza sindacale.

Per quanto riguarda la tutela e le sanzioni applicabili, piano di rimozione compreso (art. 28, comma 5, d.lgs. 150/11), va evidenziato come, per le modalità attraverso le quali la discriminazione è stata attuata, l’ambito di intervento è assai limitato, non essendo possibile, per quanto concerne ad esempio le dichiarazioni, ordinare a soggetti estranei al giudizio (l’assemblea degli azionisti o le testate giornalistiche che le hanno riportate) l’eventuale rimozione delle stesse, nè ordinare alla parte convenuta di tenere comportamenti incoercibili.

Né è possibile, come richiesto dalla FILT CGIL, ordinare la cancellazione della “clausola di estinzione”, in quanto questa sarebbe nulla ove al rapporto di lavoro fosse applicabile il diritto italiano, ma in caso contrario andrebbe vagliata alla stregua del diritto irlandese.

Nessuna delle parti, neppure l’organizzazione sindacale ricorrente, ha prodotto un contratto individuale di lavoro del personale di cabina (cabin crew), per cui non possibile stabilire se tali rapporti siano soggetti al diritto italiano o a quello irlandese.

In  questo  contesto  è  evidentemente  impossibile  emettere l’ordine di cancellazione richiesto dalla ricorrente. L’unica concreta modalità attraverso la quale è possibile la rimozione della condotta discriminatoria è quella di dare adeguata pubblicità al presente provvedimento, anche in considerazione dell’eco che i fatti hanno avuto, sia per il fatto di provenire da una delle maggiori compagnie aeree low cost, sia per la diffusione nazionale degli stessi.

Pertanto, va ordinata alla convenuta la pubblicazione, a sue spese, di un estratto del presente provvedimento, in formato idoneo a garantirne adeguata pubblicità, su « Il Corriere della Sera » e su “Il Sole 24 ore”, autorizzando l’associazione ricorrente, in caso di inottemperanza, a provvedere direttamente alla pubblicazione, con diritto di rivalsa nei confronti della convenuta per le spese sostenute.

Per  quanto  attiene,  infine,  al  profilo  risarcitorio,  va richiamata l’esistenza di un ampio filone giurisprudenziale, che riconosce un autonomo risarcimento del danno non patrimoniale (2059 c.c.) poiché interesse tipizzato già in via legislativa ed a protezione di situazioni giuridiche costituzionalmente protette (v. Trib. Milano, 23 settembre 2009).

Inoltre, come già ricordato, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno recentemente ammesso la categoria del cd. “danno punitivo”, ascrivendovi espressamente quello da violazione di norme in materia di diritto antidiscriminatorio (SS.UU. 16601/17).

Del resto, secondo le direttive in materia di diritto antidiscriminatorio, anche qualora non via siano vittime identificabili, le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione delle direttive debbono essere effettive, proporzionate e dissuasive, poiché una sanzione meramente simbolica non può essere considerata compatibile con un’attuazione corretta ed efficace delle direttive stesse (causa C-81/12 Associatia Accept, nonché causa C-54/07). Nella situazione in esame, il numero delle decisioni straniere che già hanno interessato R per il disconoscimento delle organizzazioni sindacali, l’ampia diffusione mediatica che le dichiarazioni hanno avuto, il contenuto e la forza offensiva delle stesse, la notorietà della società, inducono a ritenere non adeguatamente dissuasivo l’ordine di pubblicazione del presente provvedimento, rendendo opportuna la condanna al pagamento di una somma di denaro che, tenuto conto degli elementi appena rappresentati, può equitativamente essere determinata in € 50.000,00.

La domanda può dunque essere accolta nei termini sopra evidenziati.

Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il  Tribunale  di  Bergamo,  in  composizione  monocratica  ed in funzione di Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando sulla causa n. 2077/17 r.g.:

1) dichiara il carattere discriminatorio del comportamento tenuto da R D in relazione alla “clausola di estinzione” del seguente tenore: “questo accordo rimarrà in vigore per tutto il tempo che il personale di cabina di R contatti direttamente il datore di lavoro e non effettui interruzioni di lavoro (work stoppages) o qualunque altra azione di natura sindacale. Se R o le società di mediazione di lavoro saranno obbligate a riconoscere qualunque sindacato del personale di cabina o se vi sarà qualunque azione collettiva di qualsiasi tipo, in questo caso il contratto dovrà intendersi annullato e inefficace e qualunque incremento retributivo o indennitario (allowance) o cambio di turno concessi sotto la vigenza del presente contratto sarà ritirato”;

2)ordina a R D la pubblicazione, a sue spese, di un estratto del presente provvedimento, in formato idoneo a garantirne adeguata pubblicità, su «Il Corriere della Sera» e su “Il Sole 24 ore”, autorizzando l’Associazione ricorrente, in caso di inottemperanza, a provvedere direttamente alla pubblicazione, con diritto di rivalsa nei confronti della convenuta per le spese sostenute;

3)condanna R D, in persona del suo legale rappresentante, al pagamento, nei confronti della FILT CGIL di Bergamo, a titolo di risarcimento del danno, della somma di € 50.000,00;

4)condanna R D, in persona del legale rappresentante pro tempore, alla refusione, nei confronti della parte ricorrente, delle spese di lite, liquidate in complessivi € 5.000,00 per compensi professionali, oltre IVA, CPA e rimborso spese generali come per legge. Bergamo, 28 marzo 2018

Il Giudice del Lavoro

Dott.ssa Monica Bertoncini