“Donne e lavoro negli scritti di Giuseppe Pera”- Professoressa Patrizia Tullini, Professoressa Ordinaria Dipartimento Scienze Giuridiche, Università di Bologna.

1.Donne, lavoro e famiglia: a partire dalla rilettura dei primi scritti. – 2. La parità di genere e la logica delle situazioni reali. – 3. La condizione delle donne nel lavoro e nella società: il discorso giuridico e l’autobiografia.

 

1.Il compito è davvero arduo, e persino rischioso: troppo facile cadere in una rappresentazione riduttiva, semplificatrice e, in fondo, falsata del pensiero del Maestro in un ambito scientifico e culturale così sensibile, ma soprattutto così inevitabilmente intriso di storia personale e di vicende vissute, di intime convinzioni, di retaggi educativi ed influenze ambientali.

Il discorso non può che partire dalla rilettura degli scritti e tentare di richiamare le sue parole senza troppe alterazioni, per evitare che l’interprete di oggi ne soverchi troppo il significato. Del resto, la franchezza del suo pensiero – che si sottrae consapevolmente (e quasi orgogliosamente) a qualsiasi genere di schermatura – e il nitore delle pagine impediscono ogni sforzo di oltrepassamento, o peggio, di dietrologia.

Pera affrontò la questione della <<specifica considerazione della donna lavoratrice nel nostro ordinamento>> sin dagli anni Sessanta del vecchio secolo, con un saggio pubblicato sul Foro italiano e intitolato Le condizioni della donna lavoratrice ([1]). Lo studio riproduce la relazione introduttiva ad un convegno organizzato dal Movimento femminile del Partito socialista ed è il frutto d’una riflessione di taglio squisitamente storico-politico del giovane Pera-giurista, sebbene egli dichiari in premessa di voler accantonare le ipotesi di risoluzione di <<questo grosso problema>>, sottraendosi alle scelte di valore proposte nell’ambito di differenti (e <<contrastanti>>) ideologie. È ovvio, però, che il suo schermirsi vale solo come caveat rispetto ad un possibile condizionamento ideologico, e non gl’impedisce affatto di prender posizione – magari al di là delle intenzioni professate – sui diversi problemi agitati in quel periodo (alle soglie del ’68) dalle forze politico-sindacali e <<dalle istanze rappresentative del mondo femminile>>.

Lo stile diretto e <<senza inutili sovrabbondanze>> privilegiato da Pera lo conducono ad affrontare in modo risoluto il fenomeno dell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, analizzando il ruolo lavorativo <<innanzi al matrimonio, alla gravidanza e al puerperio>> con un’immediatezza un po’ brusca del lessico che si può presumere fosse tutt’altro che usuale all’epoca. E poiché non si può neppure immaginare – considerata la forte personalità dell’uomo e del giurista – che lo scopo dell’esplicito disvelamento del linguaggio fosse quello di épater le bourgeois, si deve dar atto della (istintiva) volontà di  non eludere alcuna delle questioni che si pongono <<in termini di concreta esperienza>>, così da inseguirle sul terreno giuridico ma anche su quello della medicina sociale e del lavoro.

Quel pensiero fu poi sviluppato in altri scritti successivi, anche se rimase sostanzialmente fermo nell’impostazione originaria e nello sviluppo argomentativo sino al saggio dal titolo Sulla questione femminile, pubblicato dalla Rivista italiana di Diritto del Lavoro nel 1996 ([2]). Il medesimo pensiero si trova riepilogato e sintetizzato anche nelle diverse edizioni del suo Manuale, nell’apposito capitolo dedicato alla “Donna e il lavoro”, in una forma ben poco indulgente e incline alle semplificazioni ad uso didattico, ma – al contrario – corredata da ampie citazioni di opere storico-politiche, di saggi sociologici e filosofici, di riferimenti letterari (a differenza delle trattazioni più neutre di molti manuali dello stesso periodo).

E infatti, Pera ha sempre collocato il tema dell’occupazione femminile e della partecipazione al mercato del lavoro nell’ampio contesto relativo alla condizione della donna nella società e in una prospettiva emancipatoria, sulla quale <<è difficile far i profeti>>, ma di cui ravvisava segnali inequivocabili nei rivolgimenti d’una <<realtà in movimento entro la quale, per la forza ineluttabile delle cose tutti i dati sono scossi>> ([3]). Vero è che l’emancipazione della donna, nella rappresentazione di Pera, aveva poco a che vedere con l’idea della parità tra i generi e con un indirizzo assiologico dello sviluppo sociale, attenendo soprattutto alla concreta garanzia che, nei fatti, la donna potesse partecipare alle diverse attività esercitate dall’uomo senza subire limiti o impedimenti a causa della <<funzione naturale>> svolta all’interno della famiglia.

Questo è il principale punto di osservazione dal quale Pera ha guardato, sin dai primi scritti, la questione dell’occupazione femminile. Nella legislazione e nella società egli individua due tendenze: la prima è finalizzata alla protezione della donna nello svolgimento del rapporto di lavoro in occasione dell’evento della maternità; la seconda riguarda, in termini più generali, <<la causa dell’emancipazione della donna>> per l’affermazione della persona in ogni suo aspetto. In questa seconda dimensione, Pera rievoca la parabola del pensiero socialista ortodosso, d’ispirazione marxista, al quale attribuisce la maggiore chiarezza nel definire i presupposti necessari per la realizzazione del processo d’emancipazione. Un po’ sorprendentemente e senza l’imbarazzo di nostalgie culturali novecentesche, nel Manuale riproduce alla lettera un lungo passo della “Rivoluzione tradita” di Trotsky ([4]) secondo il quale l’emancipazione femminile si lega  all’evoluzione e al superamento del modello familiare classico, precisando che quel progetto politico quasi subito fu <<inevitabilmente>> abbandonato.

Tanto volle andar a fondo nell’indagare la compatibilità tra lavoro e famiglia che, in modo abbastanza inconsueto per un giuslavorista, in diversi scritti Pera s’è soffermato sull’idea di famiglia e sulla sua crisi ([5]), per abbracciare una concezione storicistica che oggi diremmo attuale, osservando come – anziché generalizzare e parlare in astratto – sarebbe più corretto ammettere che vi sono diversi tipi e forme di convivenza determinate dalle vicende evolutive della società. Così, non parendogli esservi altri ostacoli alla partecipazione delle donne nel mondo del lavoro se non la funzione che la natura e soprattutto la storia le hanno assegnato nell’ambito della famiglia, ha sollecitato l’intervento pubblico e la predisposizione di servizi sociali in grado di eliminare o ridurre il peso del doppio servizio che incombe sulle donne dentro e fuori le mura domestiche. Perché, se è vero che la società muove spontaneamente in questa direzione, è auspicabile che le scelte politiche agevolino in modo responsabile tale indirizzo.

Non si potrà negare che questo approdo costituisse già un progresso più che significativo rispetto alla visione corrente che, solo fino a qualche anno prima, impostava la questione politico-legislativa della donna lavoratrice in termini di minorità fisica, di necessità fisiologiche connesse alla funzione riproduttiva o addirittura di protezione dell’integrità morale del secondo sesso ([6]). Al riguardo la posizione laica di Pera non ha esitazioni nel denunciare che il divieto di lavoro notturno delle donne non ha più alcuna giustificazione (<<ammesso che l’abbia avuta in passato>>) ([7]) e le sue parole sono nette nel condannare certe motivazioni integraliste che hanno alla base <<una considerazione assai meschina, moralmente insultante e discriminatrice>> ([8]).

2. Dalla premessa della compatibilità tra lavoro e famiglia muove la critica di Pera al dibattito svoltosi in Assemblea costituente in relazione al testo dell’art. 37, co. 1, Cost.: perché se è condivisibile l’affermazione del principio di parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici a parità di lavoro, per nulla accettabile gli appare la <<formula generalissima del contemperamento tra esigenze familiari e quelle di lavoro>>. Quella proposizione  – dichiara senza mezzi toni nelle pagine del Manuale – corrisponde <<alla visione tradizionale  del moderatismo conservatore e, in particolare, a quella del pensiero cattolico tradizionale>> che intende come <<specifica e caratteristica della donna la funzione familiare, in termini di essenzialità>> ([9]). Così, preso alla lettera, il dettato costituzionale gli appare agli antipodi rispetto alla rivendicazione della parità di genere e ai programmi dell’emancipazione femminile.

La questione – secondo Pera – <<è in termini teorici evanescente>> e va vista realisticamente in una prospettiva diversa rispetto alla formula costituzionale, ritenuta di <<valore eminentemente ideologico>>. È la forza delle cose a dimostrare che il lavoro esterno condiziona in concreto la famiglia e le sue forme storicamente determinate. Di più, la famiglia è una <<variabile dipendente>> e condizionata dalla posizione della donna nel mercato del lavoro: nella realtà il lavoro esterno condiziona la famiglia e non viceversa ([10]). Quindi, si smetta d’ingannarsi con le parole e si guardino i fatti del mondo.

E’ probabile che riguardo al dibattito svoltosi nell’Assemblea costituente Pera avesse più di qualche ragione, e fosse fondata la critica radicale ad un testo costituzionale che prese avvio dalla riconferma delle tradizionali strutture familiari e sociali, senza nemmeno considerare la possibilità d’una evoluzione di tali assetti. Senonché il suo radicalismo si ferma qui. Del resto, l’idea che si potessero condividere i pesi e bilanciare le responsabilità familiari per consentire l’eguale partecipazione di entrambi i generi al mercato del lavoro era ancora molto lontana dall’orizzonte intellettuale e culturale dell’intera società, figuriamoci dall’orizzonte giuridico.

Nella sua visione <<è la logica della situazioni reali che conta e non altro>>. Bisogna dunque prender atto, scrive Pera, che c’è una tendenza spontanea nel mercato del lavoro che porta a vanificare la disciplina protettiva della donna-lavoratrice, mentre l’incremento progressivo della tutela legislativa, con la quale dagli anni Settanta s’è tentato di contrastare tale tendenza, rischia di operare come un boomerang, ingenerando spinte contrarie all’occupazione femminile.

Col passare del tempo l’invito costante e sollecito, che si trovava nei primi scritti, a considerare i dati della realtà e i processi sociali in corso, finisce per tracimare in un atteggiamento disilluso e quasi rinunciatario. Non che non ve ne fossero le ragioni, e giustamente Pera osserva che, a parte le conquiste <<formali>> attuate dalla legge n. 903 del 1977 e dai successivi svolgimenti normativi, <<in termini sostanziali la causa dell’emancipazione femminile batte il passo>> ([11]).

Delle due tendenze legislative individuate da Pera – quella che punta alla tutela dell’evento della maternità e quella che promuove l’emancipazione e la parità di genere – non c’è dubbio che condividesse soprattutto la prima, forse ritenendo la prospettiva della “tutela” come più realistica, e in fondo quella realizzabile dal diritto. Sulla legislazione protettiva della maternità, dunque, ha concentrato i suoi studi con pubblicazioni in varia forma: basta citare i commenti relativi alle garanzie per la lavoratrice-madre in caso di licenziamento, con un’attenzione particolare (e abbastanza rara) alle donne poste ai margini del mercato del lavoro (come le domestiche). Un’attenzione che probabilmente può spiegarsi in molti modi: dal gusto del particolare, anche cronachistico, sino alla conoscenza enciclopedica del panorama giurisprudenziale senza segregazioni tematiche ([12]).

In tempi più recenti, con la consueta sincerità e immediatezza Pera ha affrontato anche il tema delle azioni positive e della legge n. 125 del 1991 per confessare come – <<per inadeguatezza personale>> – considerasse quella normativa <<assai misteriosa>> ([13]). L’emarginazione femminile nel lavoro è persistente e va denunciata, ma deriva da fattori sociali rispetto ai quali le azioni positive costituiscono degli strumenti ambivalenti. L’atteggiamento rinunciatario e un po’ misoneista prende corpo nelle chiose del Manuale, in cui Pera lamenta tutta <<la nebbia che è attorno>> e lascia intravedere un certo disinteresse da parte sua, quasi certamente giustificato dal contenzioso assai scarso che provava la materia della necessaria concretezza.

In verità, quella legislazione si allontanava dai presupposti e dalle convinzioni che aveva maturato in anni lontani e, in definitiva, dev’essergli sembrata troppo artificiosa e velleitaria la pretesa d’alterare la realtà delle cose attraverso misure di diritto diseguale. Secondo il suo costume, tuttavia, Pera non evita di prendere avventurosamente posizione nel dibattito sugli obiettivi e sull’utilità delle azioni positive – che peraltro tende ad indentificare quasi esclusivamente con il meccanismo delle quote a favore delle donne ([14]) – dichiarando di preferire, nei panni di una lavoratrice, una conquista della parità <<per merito intrinseco, non per previsione legale o per fatto del principe>> ([15]).

Ovviamente la polemica sull’utilizzo dello strumento legislativo per il perseguimento delle finalità di emancipazione delle donne era (ed è) ben più antica, risalente allo scontro di idee nel contesto storico-politico del socialismo e dei movimenti femministi ([16]). Ma la reazione di Pera non allude a reminiscenze storiografiche e sembra piuttosto motivata dal sentire personale.

 

  1. Forse perché il linguaggio è stato così esplicito e diretto, talvolta persino ruvido, la riflessione scientifica di Pera sul lavoro delle donne ha suscitato diverse critiche e non è piaciuta a tanti. Del resto, egli ha vissuto fino in fondo la dicotomia tra lo scienziato del diritto, che censura l’arretratezza del dibattito costituzionale, e l’uomo del suo tempo, del pieno Novecento, che eccede nel realismo quando scrive che la donna è in una posizione di sicuro svantaggio nella società e nel lavoro ma il diritto non può fare molto se non mutano le strutture sociali di base.

E tuttavia, non si può rimproverare a Pera di essersi arreso alla concezione che correva da secoli nell’ambiente delle sue origini. Anche perché ne era perfettamente consapevole, e persino fiero, come lui stesso afferma in chiusura del libro autobiografico Il figliuolo di Giovannin di Nunziata: <<con tutta la mia storia spesso di ribellioni, debbo però dire che con l’avanzare dell’età mi sono accorto d’essere in sostanza della stessa stoffa di quella gente >> ([17]).

Ma anche questa nota autobiografica – che suona come un’attestazione d’affetto per quell’angolo di terra dov’era <<particolarmente felice>> d’aver vissuto e di poter vivere – costituisce una sintesi o una rappresentazione di sé molto incompleta, che non deve trarre in inganno. Il piacere della narrazione autobiografica, che s’era tenuto dentro <<per tutta la vita, in un crescendo col passare dell’età>>, non riesce a celare il fatto che la caparbia immedesimazione con l’ambiente lucchese dell’inizio Novecento è soprattutto il frutto nostalgico d’un mondo che egli riconosce ormai come <<largamente superato>> ([18]). Un mondo dominato da un certo senso delle proporzioni e dei rapporti umani, anche fra i generi, di cui vuole conservare memoria attraverso una forma letteraria che ricorda da vicino il violento e malinconico pamphlet di Curzio Malaparte “Maledetti toscani”([19]).

Si deve allora rifiutare l’immagine appiattita che lo stesso Pera tende ad offrire di sé al lettore, trascurando le innumerevoli essenziali sfumature della sua personalità e del suo pensiero.

È stato delicato e commosso nel ricordo della Madre, che ha affidato al libro autobiografico: a lei ha dedicato pagine piene di rispetto, ma anche di denuncia della difficile e ingiusta condizione femminile dell’epoca ([20]).

E’ stato fedele e riconoscente nell’omaggio scientifico e umano rivolto alla Maestra Luisa Riva Sanseverino, che Pera chiamava “Signora”, perché – ebbe a scrivere in occasione del breve bilancio personale coinciso con l’ultima lezione universitaria – <<mi fu assai più che maestra>> ([21]). E poi, nel necrologio pubblicato <<come per un segno del destino>> in apertura della sua direzione della Rivista italiana di diritto del lavoro, è l’Allievo che parla della Maestra durante i trentasei anni di sodalizio, <<con tutta l’intensità affettiva di un rapporto che può ben dirsi filiale, per ricordare cosa è stata Lei per lui>> e per proclamare l’impegno, <<come amorosamente si vorrebbe>>, che quella scuola potesse continuare al di là della morte ([22]).

E’ stato capace d’ammirazione e d’un riconoscimento pubblico, più volte reiterato, nei confronti delle donne magistrato ([23]), delle Allieve e delle Colleghe, sottolineando che queste affrontano maggiori difficoltà rispetto agli uomini perché <<nel lavoro intellettuale l’impegno non ha mai fine>> ([24]). Memorabile è l’aneddoto con il quale svergognò Virgilio Andrioli – che pure soleva definire <<un mio venerato maestro>> – per il commento rozzamente maschilista riferito ad un’autorevole Collega giuslavorista, aggiungendo che <<spesso molti uomini hanno, rispetto alle donne, un cervello di gallina>> ([25]).

Quelle che, un po’ superficialmente, possono apparire come manifestazioni contraddittorie dell’uomo e del giurista costituiscono, invece, i punti fermi della sua visione del mondo. Segnali profondi d’una complessità che, probabilmente, Pera ha nascosto o addirittura esorcizzato dietro quel suo desiderio di raccontare e di raccontarsi che nel tempo lo ha incalzato in misura crescente.

Eppure, qualcuno potrebbe addebitargli di non aver saputo incidere sulla prospettiva culturale e giuridica del suo tempo: di aver considerato l’esigenza di protezione della lavoratrice-madre, ma non anche il diritto alla parità e alla valorizzazione delle differenze di genere. Nel suo pensiero ha prevalso l’idea che ciò che è nel sociale è reale e sostanzialmente inevitabile, magari è modificabile, ma a prescindere dal contributo decisivo del diritto del lavoro.

Avremmo forse voluto che fosse più aderente alla modernità; più deciso nell’abbracciare la causa della parità di genere; più pronto ad infrangere certi tabù sociali, come ad esempio quando scrisse della minigonna negli ambienti di lavoro ([26]). In breve, avremmo voluto che fosse capace di antivedere e, nostro malgrado, siamo tentati di leggere le sue riflessioni e gli scritti con il senno del dopo.

E tuttavia, questa particolare virtù dell’anticipazione tanti giuslavoristi non saprebbero attribuirla a se stessi. La mancanza d’entusiasmo – o addirittura la tiepidezza – per la causa della parità di genere è un rimprovero che potrebbe valere per molti. Quel forte impegno intellettuale per l’uguaglianza tra i sessi nel lavoro e nella società, che è ingeneroso pretendere da chi ci ha preceduto, dovremmo invece richiederlo con più chiarezza e con più energia a chi ci è contemporaneo.

 

[1] G. Pera, Le condizioni della donna lavoratrice, in Foro it., 1967, V, c. 56 ss.

[2] G. Pera, Sulla questione femminile, in Riv. it. Dir. lav., 1996, I, p. 221 ss.

[3] G. Pera, Le condizioni della donna lavoratrice, cit.

[4] L. Trotsky, La rivoluzione tradita, Schwarz, Milano, 1956, p. 135 ss.

[5] G. Pera, La donna tra famiglia e lavoro, in Dir. lav., 1964, I, p. 18 ss.; ID., Osservazioni sulla crisi della famiglia e sui problemi di riforma del relativo diritto, in Famiglia e società sarda, Milano, Giuffrè, 1971, p. 517.

[6] Sulla diffusione delle <<risibili teorie dell’inferiorità biologica delle donne>> a cavaliere tra Ottocento e Novecento, e della loro confutazione da parte delle protagoniste del femminismo, cfr. M.V. Ballestrero, Anna Kuliscioff, il lavoro e la cittadinanza delle donne: Uno sguardo dal presente, in Lav. dir., 2017, p. 205 ss.

[7] Salvo poi ripensarci quando, molto più tardi, fu la parte datoriale a battersi per la liberalizzazione del divieto e Pera <<da inguaribilmente riformista e moderato>> sbotta: <<per una volta tanto, sono col Papa>>: G. Pera, Noterelle. Diario di un ventennio, Giuffré, Milano, 2004, p. 119.

[8] G. Pera, Le condizioni della donna lavoratrice, cit.

[9]   G. Pera – M. Papaleoni, Diritto del lavoro, 7° ed., Cedam, Padova, 2003, p. 416

[10] G. Pera – M. Papaleoni, op. cit.,  p. 417

[11] G. Pera – M. Papaleoni, op. cit., p. 422.

[12] Cfr., ad es., G. Pera, Le domestiche e il divieto di licenziamento per gravidanza, in Riv. it. Dir. lav., 1994, II, p. 439 ss.; Id., Ancora un incidente di costituzionalità sulla licenziabilità delle domestiche gravide, ivi, 1995, II, p. 731 ss.

[13] G. Pera – M. Papaleoni, op. cit., p. 424.

[14] G. Pera, Le donne nelle liste elettorali, in Giust. Civ., 1995, I, p. 2587 ss.

[15] G. Pera – M. Papaleoni, op. cit., p. 425.

[16] Si veda l’interessante ricostruzione di M.V. Ballestrero, op. cit., p. 209 ss. e ivi puntualissime citazioni storiografiche.

[17] G. Pera, Il figliuolo di Giovannin di Nunziata, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 1994, p. 95.

[18] G. Pera, Il figliuolo di Giovannin di Nunziata, cit., pp. 93-96.

[19] C. Malaparte, Maledetti toscani, Adelphi, Milano, 2017, spec. p. 141: <<il mondo in cui i toscani vivono è un mondo umano, il più umano tra tutti quelli in cui vivono i varii popoli. Un mondo dove ogni soggetto, ogni persona, ogni elemento, ogni forza, ogni animale o pianta ha il suo posto, non assegnato dalle sole leggi della natura, ma dalle leggi dell’uomo, da quelle, specialmente, cui presiede la particolare ragione dei toscani, una ragione senza fantasia>>.

[20] G. Pera, Il figliuolo di Giovannin di Nunziata, cit., p. 30 ss.

[21] G. Pera, Noterelle. Diario di un ventennio, Giuffré, Milano, 2004, p. 339.

[22] G. Pera, Luisa Gilardi Riva Sanseverino. La Maestra e il programma, in Riv.it.dir.lav., 1985, I, p. 3.

[23]G. Pera, Sulla questione femminile, cit., p. 22.; Id., Noterelle. Diario di un ventennio, cit., p. 206.

[24] G. Pera, Noterelle. Diario di un ventennio, cit., p. 33.

[25] G. Pera, Sulla questione femminile, cit.

[26] G. Pera, La minigonna negli ambienti di lavoro, in Giust. Civ., 1995, I, p. 2269 ss.