Discriminazione per motivi razziali, Corte d’appello di Milano, sentenza del 4 maggio 2016, in riforma della sentenza del Tribunale di Lodi del 3 luglio 2014

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La  Corte d’ Appello di Milano, sezione lavoro, composta da:

Dott.ssa  Monica VITALI                            Presidente

Dott. Giovanni PICCIAU                                      Consigliere

Dott. Giovanni CASELLA                          Consigliere rel.

ha pronunciato  la seguente

SENTENZA

nella causa civile in grado d’appello avverso l’ordinanza del Tribunale di Lodi n. 1558/14, est. Dott.ssa Giuppi, discussa all’udienza collegiale del 4-5-2016 e promossa

DA

M. S., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Alberto Guariso e Livio Neri, ed elettivamente domiciliata presso il loro studio sito in Milano, Viale Regina Margherita n. 30

APPELLANTE

CONTRO

E. E. SRL, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Alessia Bertozzi del foro di Bologna, ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. Margherita Pirelli in Milano, Corso Buenos Aires n. 45

APPELLATA

I procuratori delle parti, come sopra costituiti, così precisavano le

CONCLUSIONI

PER L’APPELLANTE:

Voglia la Corte d’Appello di Milano,

disattesa ogni contraria istanza ed eccezione,

in totale riforma dell’ordinanza del Tribunale di Lodi del 7.7.2014,

In via principale

  1. accertare e dichiarare il carattere discriminatorio del comportamento della società convenuta consistente nel non aver ammesso la ricorrente alla selezione per la prestazione di hostess nei giorni 3 e 4 marzo presso la Fiera MICAM, a causa della sua decisione di non “togliere il velo”;
  2. ordinare alla società convenuta l’immediata cessazione del comportamento denunciato e la rimozione degli effetti con conseguente adozione di tutti i provvedimenti che la Corte riterrà idonei allo scopo, indicandosi a tal fine, anche quale possibile “piano di rimozione” ex art. 28, co.5, D.Lgs. 150/2011, l’insieme dei seguenti provvedimenti:

– ordinare alla società convenuta di offrire alla ricorrente, entro il termine di mesi 3 dalla pronuncia, analoga opportunità di lavoro, consentendole di prestare servizio senza togliere il hijab;

– ordinare alla società convenuta di non escludere dalla candidatura a posti di lavoro per gli eventi per i quali abbia ricevuto incarico di selezione le candidate che dovessero dichiarare di voler lavorare indossando il hijab;

– condannare la società convenuta, in persona del legale rappresentante pro tempore a risarcire alla ricorrente il danno subito in conseguenza del dedotto comportamento discriminatorio, danno da liquidarsi in euro 140,00 quanto al danno patrimoniale nonché in una ulteriore somma a titolo di danno non patrimoniale da liquidarsi in via equitativa ex art. 1226 c.c. e che indica in curo 1.000,00;

– ordinare alla società convenuta di dare adeguata pubblicità all’emanando provvedimento con le forme che la Corte riterrà più opportune indicandosi a tal fine, in via disgiuntiva o cumulativa, le seguenti: pubblicazione per un periodo di 6 mesi dell’intero provvedimento nella home page del sito della società; pubblicazione del dispositivo dell’emanando provvedimento su un quotidiano a tiratura nazionale in formato idoneo a garantire una adeguata visibilità.

Con vittoria di spese di entrambi gradi da distrarsi in favore dei procuratori antistatari.”

 

PER L’APPELLATA:

a) Rigettare l’atto di appello proposto dalla sig.ra Sara Mahmoud in quanto infondato in fatto e in diritto per i motivi sopra esposti;

  1. b) Confermare l’ordinanza n. cronol. 1558 del Tribunale di Lodi (d.ssa Giuppi) del 7/7/2014 resa nel procedimento RG n. 298/2013 e pertanto dichiarare che la condotta tenuta dalla società E. E. srl nel rapporto con la ricorrente per cui è causa non è da considerarsi atto discriminatorio nei confronti della sig.ra Mahmoud.
  2. c) In ogni caso con vittoria di spese, funzioni ed onorari di causa, oltre ad accessori di legge del doppio grado di giudizio.

IN SEDE ISTRUTTORIA si insiste nelle istanze tutte formulate in primo grado e quivi di seguito integralmente riportate:…

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

M S ha impugnato l’ordinanza indicata in epigrafe con cui il Tribunale di Lodi ha rigettato il ricorso da questa promosso ex art. 28 D.Lgs. 150/11 nei confronti della società E E Srl per far accertare il carattere discriminatorio della condotta della società resistente che, in fase di selezione di candidate hostess, ha ritenuto di escludere dalla selezione la M perché non avrebbe dato la sua disponibilità di lavorare senza il velo. La ricorrente  ha sostenuto che la società avrebbe dovuto comunque includerla nel novero delle candidate. La società si è difesa sostenendo che suo compito era quello di selezionare e sottoporre al cliente (A. srl) candidate hostess sulla base delle caratteristiche fisiche ed estetiche predeterminate dal cliente stesso (altezza di almeno 1,65, numero di scarpa 37, taglia 40/42, capelli lunghi e vaporosi, diponibilità ad indossare la divisa fornita dall’azienda con minigonna, conoscenza dell’inglese) e di aver quindi escluso la ricorrente proprio per la sua indisponibilità a scoprirsi il capo.

Il primo giudice ha escluso la discriminazione diretta e indiretta in quanto l’esclusione dalla selezione non poteva dirsi ingiustificata ma trovava legittima richiesta del selezionatore di presentare al cliente candidate aventi caratteristiche di immagine non compatibili con la richiesta di indossare un copricapo.

Ad avviso dell’appellante la pronuncia impugnata è errata per non avere il Giudice ritenuto che la condotta fosse da qualificare come discriminazione diretta non essendovi i presupposti per l’applicazione delle c.d. cause di giustificazione previste dall’art. 2, lett. b) direttiva 78/2000 in quanto, nella specie, l’assenza del velo non era mai stata prospettata né dal committente né dal selezionatore come requisito essenziale e determinante della prestazione.

E E srl, costituendosi in giudizio, ha chiesto il rigetto dell’appello.

All’udienza di discussione la causa è stata decisa come da dispositivo in calce.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’appello è fondato nei limiti di seguito precisati.

I fatti.

L’appellante, nata in Italia e cittadina italiana, è figlia di genitori egiziani (naturalizzati italiani) e, come i genitori, professa la religione musulmana.

Per tal motivo veste il velo o hijab (cioè il velo che copre i capelli e lascia scoperto il volto).

Essendo iscritta alla mailing list promossa dalla società appellata, nel febbraio 2013 la ricorrente ha ricevuto una proposta di lavoro per mansioni di volantinaggio, da svolgersi in occasione della fiera MICAM (fiera della calzatura) in Rho Fiera, per la durata di due giorni, il 3 e 4 marzo. Per tale prestazione era previsto un compenso di euro 70,00 a giornata.

L’avviso inviato conteneva il seguente testo (sub doc. A): “Cerchiamo hostess per volantinaggio con piede 37 per fiera MICAM di Milano che parli lingua inglese per soli due giorni (…),

Mansioni: hostess volantinaggio con lingua inglese e piede 37;

Requisiti: bella presenza, H.min. 165; Tg 40/42.

NON ACCETTIAMO CANDIDATURE PARZIALI, NON RISPONDETE SE AVETE ALTRI NUMERI DI SCARPE, NON DIAMO RIMBORSI SPESE“.

Avendo rilevato di possedere i 4 requisiti richiesti (lingua inglese, altezza almeno 1,65, taglia 40, 37 di piede), l’appellante ha presentato la propria candidatura con mail del 13.2.2013 (doc.2) allegando la propria fotografia.

Con mail dello stesso giorno la società — in persona della responsabile eventi signora J D F- ha risposto “Ciao S mi piacerebbe farti lavorare perchè sei molto carina, ma sei disponibile a togliere lo chador ? Grazie“.

L’appellante ha risposto con mail delle ore 2.36 PM come segue: “Ciao J porto il velo per motivi religiosi e non sono disposta a toglierlo. Eventualmente potrei abbinarlo alla divisa“.

Qualche minuto dopo (alle ore 2.44 PM) la società ha risposto come segue: “Ciao S immaginavo, purtroppo i clienti non saranno mai così flessibili. Grazie comunque“; mail cui ha replicato l’appellante (“Dovendo fare semplicemente volantinaggio, non riesco a capire in cosa devono essere flessibili i clienti ….) senza ottenere risposta.

L’appellante non ha dunque potuto essere candidata per la selezione né svolgere l’attività lavorativa in questione.

La società appellata si è difesa assumendo di aver agito sulla base di un incarico ricevuto da A srl – Agenzia Pubblicitaria – contenuto nella lettera 5.2.13 (sub doc. 3) ove i requisiti di “assunzione” erano indicati diversamente da quelli comunicati alla M, e cioè come segue: “Ci servirebbero due ragazze di bella presenza, attive e operative, preferibilmente di altezza 1, 65, con capelli, lunghi, sciolti e vaporosi, trucco ben fatto e unghie con uno smalto leggero. Dovranno indossare delle scarpe n. 37 di campionario e un abitino bianco con minigonna di taglia 40-42 che forniremo noi. Lingua richiesta: l’inglese.

Dovrebbero distribuire materiale pubblicitario all’interno della fiera con lo scopo di attirare il pubblico e veicolarlo al nostro stand dove troveranno alcuni commerciali ad attenderli.

Aspettiamo che ci facciate avere un’indicazione generale delle caratteristiche con relative foto delle candidate da Voi individuate.

Vorremmo però poi provvedere noi alla scelta delle ragazze“.

 

Ad avviso del primo Giudice la condotta della società appellata non costituirebbe una discriminazione diretta ai sensi dell’art. 2 d.lgs 216/2003 in assenza di una volontà della società di discriminare la ricorrente “in quanto appartenente all’ Islam”, né tale condotta potrebbe essere definita “indirettamente discriminatoria in quanto l’esclusione della ricorrente dalla selezione non può dirsi ingiustificata ma trova legittima richiesta del selezionatore di presentare al cliente candidate aventi caratteristiche di immagine non compatibili con la richiesta di indossare un copricapo, qualunque fosse”.

 

Tali argomentazioni non sono condivisibili.

 

In primo luogo, si deve rilevare che il riferimento, contenuto nella sentenza impugnata, all’insussistenza in capo alla società selezionatrice di una “volontà di discriminare la ricorrente in quanto appartenente all’Islam”, non possa assumere, nella specie, alcuna rilevanza atteso il carattere oggettivo che connota la “discriminazione”.

In tale materia, infatti, l’indagine giudiziaria è diretta ad accertare la tipologia di atto posto in essere e l’effetto che esso produce, restando del tutto estraneo al sindacato del giudice lo stato psicologico –  dolo , colpa, buona fede –  dell’autore dell’atto discriminatorio. Una condotta, infatti, è discriminatoria se determina in concreto una disparità di trattamento fondata sul fattore tutelato a prescindere dall’elemento soggettivo dell’agente.

 

Ciò premesso, ad avviso di questo Collegio, la decisione della società appellata di non ammettere la sig.ra M alle selezioni per il lavoro in questione ha determinato in capo alla stessa una “esclusione o restrizione” ai sensi dell’art. 43 TU immigrazione, menomando la sua libertà contrattuale e restringendo la possibilità di accedere ad una occupazione.

Ai sensi dell’art. 3, c. 1, del D.Lgs. 9-7-2003, n. 261 (recante “Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”), “Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree:

  1. a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione …”.

 

Lo hijab – come accertato anche dal primo Giudice – “ha una connotazione religiosa ed appartiene alla pratica consigliata dal Corano”. Sempre secondo il Tribunale “parte ricorrente ha assolto … all’onere di allegazione e prova, richiamando il testo sacro del Corano ed illustrando il senso religioso del hijab, che le donne credenti sono invitate ad indossare per farsi riconoscere come appartenenti alla comunità islamica”.

Muovendo dai due rilievi che precedono (e cioè che l’appellante ha subìto uno svantaggio in connessione con l’abbigliamento religiosamente connotato) si deve concludere che la condotta tenuta dalla società appellata abbia i connotati della discriminatorietà.

E’ noto infatti che l’utilizzo di un criterio che sia intimamente collegato con quello vietato costituisca, per giurisprudenza comunitaria, discriminazione diretta.

Si deve quindi ritenere che, essendo il hijab un abbigliamento che connota l’appartenenza alla religione musulmana, l’esclusione da un posto di lavoro a ragione del hijab costituisca una discriminazione diretta in ragione dell’appartenenza religiosa.

 

Il nodo della questione diventa allora l’art. 4 della Direttiva n. 2000/78 che in tema di “requisiti per lo svolgimento dell’attività lavorativa”, attribuisce agli Stati membri la possibilità di “stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’art. 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purchè la finalità sia legittima e il requisito proporzionato”.

Lo stesso principio è stato recepito nel nostro ordinamento dal citato art. 3 D.Lgs. 216/2003, che al comma terzo, così stabilisce:

“Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia legittima, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”.

 

Nella specie, quindi, occorre accertare se la condotta della società appellata possa rientrare nella sfera di applicabilità delle suddette cause di giustificazione.

In particolare, si deve verificare se – nella specie – il non indossare il velo sia da ritenersi quale “requisito essenziale e determinante della prestazione”.

Solo in questo caso si potrebbe escludere in radice che la disparità di trattamento, basata (direttamente o indirettamente) su uno dei fattori tutelati, integri un atto di discriminazione.

 

Prima di affrontare tale questione, si deve rilevare che l’obbligazione assunta dalla società appellata non era quella di stipulare il contratto di lavoro e retribuire la prestazione, ma quella di offrire al cliente Arte srl una “preselezione”, lasciando in capo a quest’ultimo la scelta finale delle hostess da utilizzare.

Da questo punto di vista – come ben evidenziato dall’appellante – la essenzialità del requisito diventa ancora “più labile”, perché si discute non – propriamente -del requisito della prestazione in sé stessa, ma del requisito che rende una candidata idonea ad essere sottoposta alla scelta del committente. Si tratta dunque di un requisito di mera partecipazione a una selezione.

Ne segue che per poter riconoscere nella specie l’operatività di una causa di giustificazione, è necessario – quantomeno – che la richiesta del committente sia assolutamente precisa ed inequivoca, in modo da non lasciare dubbi sulla assoluta inutilità di far partecipare l’appellante alla selezione e sottoporre la candidatura della stessa al vaglio del committente.

 

I documenti in atti portano invero ad escludere la sussistenza di una causa di giustificazione: non emerge, infatti, da nessun documento che il capo scoperto (e il correlativo divieto di indossare il velo) sia stato qualificato quale “requisito essenziale e determinante della prestazione”.

 

Nell’avviso comunicato alla M, infatti, i requisiti richiesti per la partecipazione alla selezione sono l’altezza (non inferiore a m. 1,65), la taglia (40/42), il numero di scarpe (37) e la conoscenza della lingua inglese.

Anche nella richiesta di A srl, i requisiti indispensabili sono stati individuati nella “bella presenza”, nel numero di scarpe, nella taglia 40/42 e nella conoscenza della lingua inglese.

Gli ulteriori requisiti (tra cui i “capelli lunghi, sciolti e vaporosi”), venivano descritti come elementi secondari: l’utilizzo dell’avverbio “preferibilmente” esclude – da un punto di vista letterale – che tali elementi possano essere considerati essenziali. Ciò che è preferibile non è essenziale.

E E ha pienamente aderito a tale indicazione ricevuta da A: quando infatti ha trasposto l’offerta di lavoro sul proprio sito, alla voce “requisiti”, ha indicato “bella presenza, h. min. 165, tg 40/42” e ha rimarcato in maiuscolo “NON RISPONDETE SE AVETE ALTRI NUMERI DI SCARPE”: sicchè la stessa società appellata ha indubitabilmente ritenuto che il capello lungo e vaporoso non fosse un requisito essenziale della prestazione richiesta dal cliente.

Si deve quindi concludere che ai fini della prestazione di cui si discute (la partecipazione o meno ad una selezione per hostess ad una fiera di scarpe) il requisito del capello visibile, lungo e vaporoso non fosse essenziale e determinante perchè non era mai stato indicato come tale nè dalla committente, nè dalla selezionatrice: nella scelta non potevano pertanto essere sacrificati soggetti che tale requisito non possedevano e non potevano possedere per ragioni attinenti alla loro identità religiosa.

 

L’art. 28 D.lgs 150/2011, al comma 5 dispone che il giudice con l’ordinanza che definisce il giudizio può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti.

In tema di danno patrimoniale, si osserva che, nella specie, non avendo la società mandante mai acquistato il servizio hostess dalla E E per la fiera MICAM 2013, non è ravvisabile alcun danno di natura patrimoniale in capo all’appellante la quale, se anche fosse stata selezionata, non avrebbe potuto svolgere la prestazione lavorativa nè percepire il correlativo compenso: non è pertanto ipotizzabile alcun pregiudizio qualificabile come lucro cessante o perdita di chance.

 

La condotta tesa ad escludere l’appellante dalla selezione ha certamente arrecato un pregiudizio non patrimoniale alla sig.ra M in termini di lesione di un diritto, legalmente tutelato, alla parità di trattamento nell’accesso al lavoro nonostante il credo religioso. La lesione è stata significativa, attesa la violazione di un diritto primario che incide in modo rilevante sull’identità personale e sui modi di esplicazione di tale personalità.

Le modalità con le quali l’appellante è stata esclusa dalla selezione preassuntiva a seguito del suo rifiuto di togliersi lo hijab ha certamente inciso in modo negativo sulla sfera personale/esistenziale della appellante, alla quale dev’essere riconosciuto quale risarcimento del relativo danno non patrimoniale l’importo, equitativamente determinato, di € 500,00.

 

Non si ritiene di applicare ulteriori sanzioni, atteso che il comportamento discriminatorio ha ormai esaurito i suoi effetti e non risulta che sia stato reiterato.

Vista poi la natura di tale discriminazione, legata ad una carente descrizione dei requisiti della prestazione lavorativa, il Collegio ritiene che eventuali e future condotte discriminatorie possano essere evitate dalla società appellata semplicemente indicando con estrema attenzione i requisiti essenziali della prestazione lavorativa a cui la selezione fa riferimento, nel rispetto, ovviamente, dei principi di ragionevolezza e proporzionalità.

 

Attesa la novità e la particolarità della vicenda, si ritiene equo compensare integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.

 

P.Q.M.

In riforma della sentenza n. 1558/14 del Tribunale di lodi, dichiara il carattere discriminatorio del comportamento della società appellata consistente nel non aver ammesso l’appellante alla selezione per la prestazione di hostess nei giorni 3 e 4 marzo presso la fiera MICAM a causa della sua decisone di non togliere il velo;

condanna la società appellata a risarcire il danno non patrimoniale subito dall’appellante liquidato in via equitativa in € 500,00;

spese di entrambi i gradi compensate.

Milano, 4 maggio 2016.