Questione di legittimità costituzionale art. 13 comma 1 lett. a) n. 2) d.l. 113/2018, Tribunale ordinario di Ancona, ordinanza del 29 luglio 2019.

TRIBUNALE ORDINARIO DI ANCONA

Prima Sezione Civile

Nel procedimento iscritto al n. r.g. 3081/2019 promosso da:

COMUNE DI ANCONA

Il Giudice dott. ssa Martina Marinangeli,

contro

ricorrente

resistente

a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 10/07/2019, ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

Con  ricorso  depositato  in data 13.5.2019                  ha  domandato  che  venisse ordinata al Sindaco del Comune di Ancona l’immediata iscrizione del ricorrente nel registro anagrafico della popolazione residente.

A sostegno della domanda cautelare il ricorrente ha dedotto che:

  • è regolarmente soggiornante in Italia dal 20.6.2017 in virtù di permesso di soggiorno per richiesta asilo;
  • vive stabilmente nel Comune di Ancona dal 17.11.2018, quando è stato inserito presso le strutture di accoglienza per richiedenti asilo operative nel territorio comunale;
  • in particolare, ha la stabile dimora presso la struttura di Via xxxxxx, come attestato anche dalla cooperativa responsabile del progetto di accoglienza;
  • in data 12.3.2019 ha formulato istanza di iscrizione anagrafica presso il Comune di Ancona e l’ufficiale di stato civile ha dichiarato l’istanza “irricevibile ed inefficace” sulla base della seguente motivazione: “a norma dell’art.4 comma 1-bis del Decreto Legislativo n.142 del 18/08/2015, così come introdotto dall’art.13 del Decreto Legge n.113 del 05/10/2018, convertito in Legge il 1 dicembre 2018 132, il permesso di soggiorno rilasciato per richiesta asilo non costituisce titolo per l’iscrizione anagraficaai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30/05/1989 n.223 e dell’art.6 comma 7  del  Decreto Legislativo 25/07/1998 n.286”;
  • il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile sarebbe illegittimo in quanto il legislatore non ha posto chiaramente un divieto generalizzato di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo dotati di permesso di soggiorno e, in ogni caso, un tale divieto sarebbe in contrasto con norme costituzionali e sovranazionali che vietano qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti;
    • gli è preclusa l’iscrizione in qualità di socio e volontario all’Associazione xxxxxxxxxxxxxxxxxx xxxxxxx, iscrizione che presuppone l’indicazione della residenza anagrafica sia ai fini dell’acquisto della qualità di socio, che ai fini dell’iscrizione al libro dei volontari per la stipula della polizza assicurativa, con conseguente ostacolo al processo di integrazione del richiedente;
    • la mancanza di una residenza anagrafica ostacola l’apertura di un regolare conto corrente bancario, con preclusione all’accesso ai servizi bancari;
    • la residenza anagrafica ha rilevanza rispetto alla maturazione dei requisiti necessari ad ottenere la cittadinanza italiana, ai sensi dell’art. 9 lett f) della legge n. 91/1992, norma che subordina l’ottenimento della cittadinanza alla residenza protratta dello straniero sul territorio per almeno
      • il ricorrente non ha possibilità di stipulare altri contratti di prestazione  di  lavoro occasionale  (come disciplinati dal l. n. 50/2017) in quanto gli stessi presuppongono la registrazione presso
        • gli è preclusa la stipula di un contratto lavorativo con xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx xxxxxxxxxxx, la  cui  stipula  è  subordinata  alla  condizione  che  il  medesimo  apra lala mancata iscrizione all’anagrafe della popolazione residente pregiudica l’esercizio di tutta una serie di diritti (quali: “eventuale iscrizione scolastica, sottoscrizione di  un  contratto  di  lavoro,  accesso alle  misure di politica attiva del lavoro ex art. 11 co. 1 lett c D. Lgs. 150/15, apertura di un conto corrente su cui  il datore di lavoro possa versare il salario, ottenimento della patente di guida  ex  art,  118  bis  1  cds, determinazione valore ISEE per accedere a determinate prestazioni sociali, decorrenza  dei termini  sia  per  il  rilascio del permesso per soggiornanti di lungo periodo…. sia per l’ottenimento della cittadinanza italiana ex art. 9, 1 lett. f) L.91/92 ecc.”) e pertanto, alla luce della entità e natura dei diritti la lesione del diritto all’iscrizione anagrafica sarebbe insuscettibile di tutela per equivalente.All’udienza del 10.6.2019 si è costituito il Comune di Ancona, chiedendo:
          • di essere estromesso dal giudizio, per essere il Ministero dell’interno dotato di legittimazione passiva;
          • di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 comma 1 lett. a) n. 2) del decreto legge n.113/2018 del 05.10.2018, convertito in legge n. 132/2018, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 16, 77, 97, 117 e 118 della Costituzione;
          • in subordine, di rigettare la

          A scioglimento della riserva assunta all’udienza, il giudice, rammentando che ai fini della tutela ex art. 700 c.p.c. il periculum in mora non possa essere individuato in astratto bensì con riferimento ai pregiudizi

          cui il ricorrente in concreto si espone in attesa del giudizio di merito, ha invitato il ricorrente ad argomentare in ordine alla sussistenza di un pregiudizio imminente ed irreparabile.

          Con la memoria autorizzata il ricorrente ha evidenziato che, allo stato attuale, in difetto di iscrizione anagrafica: partita i.v.a. e consegua la patente di guida, incombenti entrambi che presuppongono la titolarità di una residenza anagrafica; la piattaforma telematica dell’INPS, la cui procedura richiede indefettibilmente l’indicazione dell’indirizzo di residenza; 10 anni.

    Il Comune di Ancona, in punto di periculum in mora, ha invece evidenziato che ogni pregiudizio sarebbe scongiurato dall’art. 5 del d.lgs. 142/2015 norma che garantirebbe, in ogni caso, al  richiedente  asilo l’accesso a tutti i servizi previsti dal decreto nonché a quelli comunque erogati sul territorio nazionale.

    All’udienza del 10.7.2019 la causa è stata trattenuta in riserva.

    ***

    Ai fini della decisione appare opportuno esaminare analiticamente le diverse questioni giuridiche, partendo dalla legittimazione passiva della parte evocata in giudizio.

    1. SULLA LEGITTIMAZIONE PASSIVA DEL COMUNE DI ANCONA

Questo giudice ritiene che il Comune di Ancona, in persona del Sindaco, sia dotato di legittimazione passiva nel presente giudizio.

Il Comune convenuto in giudizio ha argomentato il difetto di legittimazione passiva, in  favore  del Ministero dell’interno, sostenendo che l’anagrafe è servizio  di  competenza  statale  e  il  Sindaco  ne esercita le funzioni quale ufficiale di governo in base  all’art.  14  d.lgs.  267/2000,  pertanto,  lo stesso agisce quale delegato del Ministero dell’interno e sarebbe gerarchicamente sottoposto a quest’ultimo.

L’azione del Sindaco sarebbe dunque imputabile non all’ente locale, ma allo Stato in virtù del rapporto organico.

E’ pacifico che il Sindaco curi il registro dell’anagrafe quale ufficiale di governo. Il Testo Unico Enti Locali sul punto statuisce quanto segue:

Art. 14 Articolo 14 Compiti del comune per servizi di competenza statale

  1. Il comune gestisce i servizi elettorali, di stato civile, di anagrafe, di leva militare e di
  2. Le relative funzioni sono esercitate dal Sindaco quale ufficiale del Governo, ai sensi dell’articolo
  3. Ulteriori funzioni amministrative per servizi di competenza statale possono essere affidate ai comuni dalla legge che regola anche i relativi rapporti finanziari, assicurando le risorse

Art. 54 (Attribuzioni del Sindaco nelle funzioni di competenza statale) (…)

  1. Il Sindaco, quale ufficiale del Governo, sovrintende, altresi’, alla tenuta dei registri di  stato  civile  e  di popolazione e agli adempimenti demandatigli dalle leggi in materia elettorale, di leva militare e di statistica.

(…)

  1. Nelle fattispecie di cui ai commi 1, 3 e 4, nel caso di inerzia del Sindaco o del suo delegato nell’esercizio        delle  funzioni previste  dal comma  10, il prefetto puo’  intervenire  con  proprio provvedimento.
  2. Il Ministro dell’interno puo’ adottare atti di indirizzo per l’esercizio delle funzioni previste dal presente articolo da parte del

Il quadro normativo non delinea il rapporto tra Sindaco e Ministero dell’interno quale vero e proprio rapporto gerarchico, in quanto l’intervento del Ministero è confinato all’ipotesi di “inerzia del Sindaco” (comma 11) o comunque alla promanazione di “atti di indirizzo per l’esercizio delle funzioni” (comma 12).

Il Consiglio di Stato, con le sentenze n. 5047 e 5048 del 2016, ha chiarito che dal fatto che al Sindaco

siano attribuiti poteri quali ufficiale di governo non si può inferire la sussistenza di un rapporto  di  gerarchia propria tra Sindaco e Ministero dell’interno, che consentirebbe a quest’ultimo di annullare gli

atti posti in essere dal primo nella veste di superiore gerarchico. Ciò in quanto, un rapporto generico di vigilanza – quale quello che viene in rilievo nel caso di specie – non sottrae la titolarità della funzione all’organo vigilato, che pertanto risponde in proprio degli atti emessi nell’esercizio di poteri statali.

La sussistenza di un rapporto di vigilanza, nella materia oggetto di giudizio, trova conferma nel regolamento dell’anagrafe della popolazione residente (D.P.R. 223/1989).

Articolo 52 Vigilanza del prefetto.

  1. Il prefetto vigila affinché le anagrafi della popolazione residente e gli ordinamenti topografici ed ecografici     dei comuni della provincia siano tenuti in conformità alle norme del presente regolamento e che  siano  rigorosamente osservati le modalità ed  i termini previsti per il costante e sistematico aggiornamento degli atti,         ivi compresi  gli adempimenti di carattere statistico. 2. La vigilanza viene esercitata a mezzo di ispezioni da  effettuarsi, almeno una volta all’anno in tutti i comuni, da  funzionari della  prefettura  appartenenti alle  carriere direttiva e di concetto, competenti in materia anagrafica e statistica. 3.  L’esito  dell’ispezione  deve  essere  comunicato all’Istituto centrale di statistica.

Articolo 54 Vigilanza esercitata dal Ministero dell’interno e dall’Istituto centrale di statistica.

  1. L’alta vigilanza sulla regolare tenuta  delle  anagrafi  è  esercitata  dal  Ministero  dell’interno  e  dall’Istituto centrale di statistica per mezzo di propri funzionari ispettori. 2. L’Istituto centrale di statistica vigila, tra l’altro, affinché da parte di  tutti  i  comuni  siano  adottati  modelli  conformi  agli  appositi  esemplari  predisposti dall’Istituto stesso e promuove da parte dei comuni l’adozione di sistemi organizzativi e funzionali dei servizi anagrafici rispondenti ai progressi della tecnica amministrativa ed alle esigenze dei servizi

La Cassazione a Sezioni Unite, peraltro, pronunciandosi recentemente in materia di rifiuto di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile di un provvedimento giurisdizionale straniero – e pertanto in materia di stato civile, nella quale il Sindaco, al pari della materia dell’anagrafe, agisce quale ufficiale di governo ai sensi dell’art. 14 TUEL sopra richiamato – ha statuito che la relativa azione dà luogo ad una controversia di stato da svolgersi “in contraddittorio con il Sindaco, in qualità di ufficiale dello stato civile, ed eventualmente con il Ministero dell’interno, legittimato a spiegare l’intervento in giudizio, in qualità  di  titolare  della competenza in materia di tenuta dei registri dello stato civile” (Cass. n. 12193/2019).

In conclusione, dunque, deve ritenersi sussistente la legittimazione passiva del Comune di Ancona, in persona del Sindaco, quale soggetto che risponde in proprio  degli  atti  emessi  anche  nell’esercizio  di poteri statali.

La questione circa la legittimazione passiva del Ministero e, in particolare, circa l’eventuale titolarità di una posizione di litisconsorte necessario in un procedimento analogo a quello sub iudice  è  stata affrontata e risolta negativamente anche dal Tribunale di Firenze in sede di reclamo avverso un’ordinanza resa ex art. 700 c.p.c. nel contraddittorio con il solo Comune di Scandicci (ordinanza del 27.5.2019).

La Corte fiorentina ha concluso nel senso che il  Ministero  dell’interno  avrebbe  potuto  espletare intervento quale litisconsorte facoltativo nel giudizio ex art. 700 c.p.c. in ragione  del  fatto  che:  “la circostanza che il Ministero degli Interni abbia la vigilanza sull’anagrafe, non determina  affatto  un  rapporto  necessariamente consortile di diritto sostanziale: (…), la titolarità della funzione resta  in  capo  al  Sindaco  mentre  il rapporto generico di vigilanza in capo al Ministero non  sottrae  la  titolarità  della  funzione  all’organo  vigilato,  unico soggetto individuato dalla legge a svolgere quel dato compito”.

Ad abundantiam si può richiamare anche la copiosa giurisprudenza amministrativa che ravvisa la legittimazione passiva del Sindaco nei ricorsi avverso le ordinanze contingibili ed urgenti  –  che  si rammenta vengono adottate dal medesimo quale Ufficiale  di governo  –  “atteso  che  tale  organo  comunale anche ove eserciti il ridetto potere, non dismette la sua natura di soggetto espressione dell’amministrazione locale, la quale, infatti,  risponde  degli  atti  posti  in  essere  dal Sindaco in  siffatta  qualità” (Cfr.  T.A.R.  Campania  n. 3011/2015,

T.A.R. Roma n. 750/2011, Consiglio di Stato n. 3424/2010, Consiglio di Stato n. 4434/2008).

Per tutte le ragioni esposte, stante la legittimazione processuale del Sindaco e la natura ontologicamente celere del giudizio cautelare, ritiene questo giudice di non dover estendere il giudizio al Ministero dell’Interno, portatore sì di un interesse concreto alla partecipazione che ne legittimerebbe l’intervento, ma non anche litisconsorte necessario.

  1. SUL FUMUS BONI IURIS DELLA TUTELA CAUTELARE

Per quanto concerne lo scrutinio del fumus boni iuris, al fine di stabilire se sussista un diritto ad ottenere l’iscrizione al registro dell’anagrafe in capo al richiedente asilo titolare di permesso di soggiorno, appare utile partire da un esame del quadro normativo.

La norma di riferimento, posta dal Comune di Ancona a fondamento del rigetto della domanda è l’art. 4 co. 1 bis del d.lgs.142/2015, come modificato dall’art. 13 d.l. 113/2018, in base al quale:

1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

Ai fini della comprensione del significato della disposizione occorre dunque attingere alla norme richiamate, le quali dispongono quanto segue.

  • Sul D.P.R. 223/1989 in materia di iscrizione all’anagrafe

Il D.P.R. 223/1989, normativa deputata alla regolamentazione dell’iscrizione all’anagrafe, individua puntualmente:

  • le dichiarazioni da rendere ai fini dell’ottenimento dell’iscrizione all’anagrafe (art. 13);

 

  • i casi nei quali si può richiedere l’iscrizione anagrafica (art. 7);
  • i soggetti che rendono le dichiarazioni e i presupposti affinché le possano rendere (art. 6);
  • gli accertamenti compiuti dall’ufficiale dell’anagrafe (art. 14).

L’art. 7 individua coloro che possono richiedere l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente:

  1. L’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente viene effettuata:
  2. per nascita, presso il comune di residenza dei genitori o presso il comune di residenza della madre qualora i genitori risultino residenti in comuni diversi, ovvero, quando siano ignoti i genitori, nel comune ove è residente la persona o la  convivenza  cui il  nato   è  stato affidato;
  3. per esistenza                                          giudizialmente                                          dichiarata; c) per trasferimento di residenza dall’estero dichiarato dall’interessato non iscritto, oppure accertato secondo quanto e’ disposto             dall’articolo 15, comma 1, del presente regolamento, anche tenuto conto delle particolari disposizioni relative alle persone senza                 fissa dimora di cui all’articolo 2, comma terzo, della legge 24  dicembre 1954, 1228, nonché per mancanza di precedente      iscrizione.
  4. Per le  persone  già  cancellate  per  irreperibilità  e  successivamente  ricomparse  devesi  procedere  a  nuova  iscrizione  3. Gli stranieri iscritti in anagrafe hanno l’obbligo di rinnovare all’ufficiale di anagrafe la dichiarazione di dimora abituale nel                                                                                                                                                                            comune di residenza, entro sessanta giorni dal rinnovo del permesso di soggiorno, corredata dal permesso medesimo e, comunque,     non decadono dall’iscrizione nella fase di rinnovo del permesso di soggiorno. Per gli stranieri muniti di carta di soggiorno, il        rinnovo della dichiarazione di dimora abituale è effettuato entro sessanta giorni dal rinnovo della carta di soggiorno. L’ufficiale di anagrafe aggiornerà la scheda anagrafica dello straniero, dandone comunicazione al questore.

Il trasferimento della residenza dall’estero, quindi, rientra tra le ipotesi che danno diritto all’iscrizione anagrafica. Lo straniero, peraltro, come si evince dal terzo comma, deve rinnovare la dichiarazione di dimora abituale nel Comune ogni volta che ottiene il rinnovo del permesso di soggiorno.

Tutti coloro che richiedono l’iscrizione anagrafica devono rendere delle dichiarazioni, di cui sono responsabili: l’art. 13 individua il contenuto della dichiarazione e l’art. 6 richiede che colui che rende la dichiarazione comprovi la propria identità mediante un documento di riconoscimento.

L’art. 13 del D.P.R. 223/1989 recita infatti:

  1. Le dichiarazioni anagrafiche da rendersi dai responsabili di cui all’art. 6 del presente regolamento concernono i seguenti fatti:
  2. a) trasferimento di residenza da altro comune o dall’estero ovvero trasferimento di residenza all’estero; b) (…)

L’art. 6 del D.P.R. 223.1989 recita:

1.Ciascun componente della famiglia è responsabile per se’ e per le persone sulle quali esercita la potestà la tutela delle dichiarazioni anagrafiche di cui all’art. 13 (…).

2.(…)

3.Le persone che rendono dichiarazioni anagrafiche debbono comprovare la propria identità mediante l’esibizione di un documento di riconoscimento.

A fronte delle dichiarazioni rese ai sensi dell’art. 13, in un caso rientrante in quelli individuati dall’art. 7, da un soggetto munito di documento di riconoscimento ai sensi dell’art. 6, l’ufficiale  dell’anagrafe  accerta l’effettiva sussistenza dei requisiti e procede all’iscrizione.

L’art. 18 bis prevede infatti:

  1. L’ufficiale d’anagrafe, entro quarantacinque giorni dalla ricezione delle dichiarazioni rese ai sensi dell’articolo 13, comma 1, lettere a), b) e c), accerta la effettiva sussistenza dei requisiti previsti dalla legislazione vigente per la

(…)

L’art. 19, nel prevedere uno specifico adempimento compiuto dall’ufficiale dell’anagrafe, evidenzia un ulteriore requisito per ottenere l’iscrizione ovvero quello della dimora abituale nel  comune  in  cui  si chiede l’iscrizione:

    • eventuale iscrizione scolastica;
    • sottoscrizione di un contratto di lavoro;
    • accesso alle misure di politica attiva del lavoro ex art. 11 co. 1 lett c d.lgs. 150/15;
      • la prima risiede nel fatto che, laddove questo giudicante dovesse escludere il periculum in mora, si imporrebbe il rigetto della domanda cautelare a prescindere dalla sussistenza del fumus boni iuris e sarebbe ultroneo soffermarsi sulla legittimità costituzionale della norma o meno e sulla conseguente possibilità di introdurre un incidente di legittimità costituzionale, tenuto conto che la questione sarebbe irrilevante ai fini del decidere;
      • la seconda risiede nel fatto che l’esame del periculum in mora potrà già fornire elementi in ordine alla individuazione dei diritti che risultano eventualmente compromessi dalla mancata iscrizione all’anagrafe e quindi indizi che potranno risultare eventualmente utili a vagliare la non manifesta fondatezza della
        • l’art. 4 comma 1 bis lgs. 142/2015 non pone un divieto espresso di iscrizione all’anagrafe del richieste asilo titolare del permesso di soggiorno;
        • la norma, infatti, si limita a dire che il permesso di soggiorno “non costituisce titolo”;
        • da un esame della normativa in materia, si evince che il permesso di soggiorno non è “titolo”
          • al fine di provare l’identità per poter rendere le dichiarazioni di cui all’art. 6 D.P.R. 223/1989;
          • al fine  di  provare  l’identità  per  poter  trasferire  la  residenza  dall’esterno  ai  sensi  dell’art. 14L’ufficiale di anagrafe è tenuto a verificare la sussistenza del requisito della dimora abituale di chi richiede l’iscrizione ((o la mutazione)) anagrafica. Gli accertamenti devono essere svolti a mezzo degli appartenenti ai corpi di polizia municipale o di altro personale comunale che sia stato formalmente autorizzato, utilizzando un modello conforme all’apposito esemplare predisposto  dall’Istituto  nazionale  di Per quanto concerne le persone che trasferiscono la propria residenza dall’estero, l’art. 14 impone una ulteriore verifica ovvero il possesso di un passaporto o un documento di natura equipollente.1.Chi trasferisce la residenza dall’estero deve comprovare all’atto della dichiarazione di cui all’art. 13, comma 1, lettera a), la propria identità mediante l’esibizione del passaporto o di altro documento equipollente.
            • Sull’art 6 del d.lgs. 286/1998

            Compiuto lo scrutinio della normativa in materia di anagrafe deve ora passarsi all’esame dell’art. 6 del d.lgs. 286 del 1998, norma parimenti richiamata dall’art. 4 comma 1 bis d.lgs. 142/2015 oggi oggetto di esame.

            L’art. 6 del T.U. immigrazione recita quanto segue al comma 7:

            Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero  regolarmente  soggiornante  sono  effettuate  alle  medesime  condizioni  dei cittadini italiani con  le  modalità  previste dal regolamento di attuazione. In ogni caso la  dimora  dello straniero si considera   abituale anche in caso di documentata ospitalità da più di tre mesi presso un centro di accoglienza. Dell’avvenuta iscrizione o variazione l’ufficio dà comunicazione alla questura territorialmente competente.

            La disposizione pone quindi i seguenti principi:

            • lo straniero ha diritto alle iscrizioni anagrafiche alle stesse condizioni del cittadino italiano;
            • affinché ciò avvenga lo straniero deve essere regolarmente soggiornante;
            • la dimora dello straniero si considera abituale quando è documentata la sua permanenza per più di tre mesi presso un centro di

             

            • Sull’interpretazione dell’art. 4 comma 1 bis lgs. 142/2015 alla luce dei richiami normativi Chiarito il portato normativo richiamato dall’art. 4 co 1 bis d.lgs. 142/2015, si può ora tornare allo scrutinio della norma per comprenderne meglio il significato:

            1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio

            1998, n. 286.

            Dall’esame delle norme richiamate si evince che le medesime non richiedono espressamente  alcun “titolo” ai fini della loro operatività.

            La normativa in materia di anagrafe, infatti, pone quali presupposti ai fini dell’operatività dell’iscrizione delle “dichiarazioni” che sono ricognitive di uno stato di fatto (nel caso di specie, l’avvenuto trasferimento dall’estero) e richiede “accertamenti” quale quello della dimora abituale. A sua volta, la norma del T.U. immigrazione specifica quando la dimora di uno straniero possa definirsi abituale e a quali condizioni lo straniero possa ottenere l’iscrizione anagrafica.

            A ben vedere, tuttavia, entrambe le normative hanno  un  minimo  comun denominatore,  che  si  pone quale presupposto indefettibile per l’operatività delle stesse, e cioè che lo straniero sia regolarmente soggiornante sul territorio e che sia in possesso di un documento di riconoscimento.

            La regolarità del soggiorno è infatti richiesta:

            • per l’operatività dell’art. 6 T.U. immigrazione e cioè per ottenere  l’iscrizione  anagrafica  alle stesse condizioni del cittadino italiano;
            • per ottenere l’iscrizione stessa, dal momento che l’art. 7 co. 7 D.P.R. 223/1989 impone  allo straniero di rinnovare gli adempimenti al rinnovo del permesso di

            Il possesso di un documento di riconoscimento è richiesto: D.P.R. 2237/1989.

          Tanto premesso, e rimanendo sul piano di una interpretazione letterale, è evidente che l’espressione “il permesso  di  soggiorno  non  costituisce  titolo”  si  colora  di  un  immediato  significato  e  cioè  il  permesso di

          soggiorno non prova, a quei fini, la regolarità del soggiorno dello straniero in Italia e non costituisce documento di riconoscimento.

          Questa interpretazione letterale è avallata dall’intero dettato normativo dell’articolo in cui è inserito il comma in discussione.

          L’art. 4 del d.lgs. 142/2015 si occupa, infatti, di descrivere il permesso di soggiorno rilasciato al richiedente asilo, circoscrivendone la valenza.

          Da una parte, lo stesso è titolo di legittima permanenza dello straniero sul territorio nazionale, dall’altra è un equipollente del documento di riconoscimento.

          La disposizione, dopo aver fissato la validità del permesso per la durata di sei mesi, rinnovabile alle condizioni ivi richiamate, statuisce che il permesso  di  soggiorno  va  considerato  documento  di riconoscimento ai sensi di legge (comma 1).

          L’introduzione della disposizione oggetto di esame al  comma  1bis,  allora,  collocazione  che  non  può essere casuale, non può che confermare quanto già è evidente e cioè che ai soli fini della disciplina dell’iscrizione all’anagrafe il permesso di soggiorno non attesta la regolarità del soggiorno dello straniero

          sul territorio e non costituisce documento di riconoscimento.

          Se ciò è abbastanza evidente alla stregua di una interpretazione letterale, trova ulteriore e decisivo avallo sullo scorta dell’interpretazione teleologica.

          E’ noto a questo giudicante che il criterio letterale è solo il primo dei canoni ermeneutici alla stregua del quale va ricercato il significato delle parole, non considerate isolatamente, ma  secondo  la  loro connessione e, anche in presenza di un significato chiaro, l’interpretazione della norma va  effettuata  anche alla luce del criterio funzionale fondato sul riferimento alla ragione della legge.

          E’ parimenti noto che con intenzione del legislatore non debba intendersi la volontà soggettiva di chi ha concorso ad emanare la norma, ma l’intenzione obiettivizzata nella legge, alla stregua del tramonto della teoria della volontà soggettiva a favore di quella oggettiva.

          Orbene, ai fini dell’individuazione dell’intenzione del legislatore deve farsi riferimento alla  ratio  della norma, cioè lo scopo al quale la norma risulta  funzionalizzata,  la  sua  ragione,  l’interesse  specifico tutelato. A tale fine, i lavori preparatori o  le  relazioni  di  accompagnamento  delle  leggi  offrono argomenti dai quali inferire la ragione obiettiva della norma.

          La relazione di accompagnamento al d.l.  113/2018  espressamente  statuisce  sul  punto“:il  permesso  di soggiorno per richiesta asilo non consente l’iscrizione  all’anagrafe  dei  residenti,  fermo  restando  che  esso  costituisce documento di riconoscimento (…) l’esclusione dell’iscrizione anagrafica si giustifica per la  precarietà  del  permesso per  richiesta asilo e risponde alla necessità di definire preventivamente la condizione giuridica dello straniero”.

          Il legislatore è giunto quindi ad esplicitare la ratio di una tale scelta di politica legislativa e la stessa risiede nell’esigenza di definire quale sia la condizione giuridica dello straniero e se cioè abbia diritto o meno alla permanenza sul territorio nazionale a seguito del riconoscimento di una delle forme di protezione

          internazionale. Pertanto, il legislatore ha deliberatamente postergato il diritto all’iscrizione anagrafica, all’esito del vaglio della richiesta di protezione dello straniero.

          Tale assunto è ulteriormente confermato dalla circolare del Ministero dell’interno del 18.10.2018 che, un qualche rilievo, seppure ad abundantiam riveste.

          Infatti, la stessa, sebbene mero atto interno dell’apparato amministrativo, non costituente fonte  del  diritto, e sebbene non coeva all’emanazione della norma di legge, promana dal medesimo organo costituzionale che ha esercitato la potestà legislativa in via d’urgenza mediante un decreto legge che è

          stato poi convertito dal titolare formale del potere legislativo e fatto proprio. La circolare espressamente statuisce: “il permesso di soggiorno per richiesta di protezione internazionale di cui all’art. 4, comma 1, del citato d.lgs. 142/2015 non potrà consentire l’iscrizione anagrafica”.

          Si richiama, sempre a corroborazione esterna di un risultato interpretativo che si fonda in via prioritaria sul dato letterale, il dossier n. 66/2 del 9 novembre 2018 redatto dal Servizio Studi Ufficio ricerche sulle questioni istituzionali, giustizia e cultura del Senato della Repubblica (Dossier reperibile dal sito web del

          Senato della Repubblica) che, sebbene non assuma alcuna rilevanza normativa, né vincoli l’attività dell’interprete, documenta l’attività degli organi parlamentari.

          Orbene, si cita quanto nello stesso  riportato, nel  rispetto di quanto  statuito in premessa dallo stesso dossier (“la documentazione dei Servizi e degli Uffici del Senato della Repubblica  e  della  Camera  dei  deputati  è destinata alle esigenze di documentazione interna per l’attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. Si declina

          ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non  consentiti  dalla  legge.  I  contenuti originali possono essere riprodotti, nel rispetto della legge, a condizione che ne sia citata la fonte”).

          Il dossier da pag. 126 a pag. 129 esamina le modifiche in materia di iscrizione anagrafica mettendo in evidenza, dopo i richiami normativi che “la disposizione in esame deroga al principio espresso nel testo unico per i titolari di un permesso di soggiorno per richiesta asilo. Secondo la relazione illustrativa, l’esclusione  dell’iscrizione anagrafica si giustifica per la precarietà del permesso di soggiorno per richiesta asilo e risponde alla necessità di definire in via preventiva la condizione giuridica del richiedente. In relazione alle modifiche previste dalla disposizione in esame, va richiamato che l’iscrizione anagrafica è comunque il presupposto per l’esercizio di alcuni diritti sociali (…)”.

          Il risultato a cui conduce la mera attività di interpretazione letterale e teleologica è chiaro: il permesso di soggiorno per richiedenti asilo non attesta la regolarità del soggiorno ai fini dell’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente.

          Acclarato il significato della disposizione, in seconda battuta,  si  può  poi  discutere  in  ordine  alla legittimità costituzionale di una tale previsione normativa che con una operazione  di  ortopedia  va  a privare – solo a taluni fini, appunto quelli dell’iscrizione  all’anagrafe  –  il  permesso  di  soggiorno dell’effetto ontologicamente riconnesso al suo rilascio ovvero quello  di  attestare  la  regolarità  del soggiorno dello straniero in Italia.

          Appare impedito a questo giudice il ricorso ad altri canoni interpretativi in quanto lo stesso sarebbe finalizzato a riconnettere alla disposizione un significato diverso da quello che appare palese alla luce del testo della norma e della intenzione del legislatore.

          Una tale operazione finirebbe inevitabilmente per dare luogo ad una interpretatio abrogans in palese contrasto con l’esercizio della potestà legislativa in capo all’organo a ciò deputato.

          Ogni forma di interpretazione infatti non può mai disancorarsi dal dato letterale e può, al più, giungere ad individuare un risultato che, seppur prima facie non appariva riconducibile alla lettera della norma, lo diventa ad una analisi più profonda.

          • Sul tentativo di una “interpretazione costituzionalmente orientata”

          Il tentativo di una interpretazione costituzionalmente orientata è stato condotto da alcuni tribunali di merito.

          Il percorso logico seguito dal Tribunale di Bologna  con  l’ordinanza  del  2.5.2019,  dal  Tribunale  di Firenze con l’ordinanza del 18.3.2019, dal Tribunale di Genova con l’ordinanza del  22.5.2019  e  poi ribadito da altre corti di primo grado segue sostanzialmente il seguente ragionamento: per l’iscrizione all’anagrafe ma è mera prova della regolarità del soggiorno dello straniero sul territorio;

        • il d.lgs. 142/2015 all’art. 5 bis – come introdotto dalla l. 46/2017 e poi abrogato dal  l. 113/2018 – aveva introdotto una procedura semplificata di iscrizione  all’anagrafe  del richiedente asilo:

        Art. 5-bis Iscrizione anagrafica.

        1. Il richiedente protezione internazionale ospitato nei centri di cui agli articoli 9, 11 e 14 è            

        iscritto nell’anagrafe della popolazione residente ai sensi dell’articolo 5 del regolamento di cui al

        decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989,  n.  223,  ove  non  iscritto individualmente.

        1. E’ fatto obbligo al responsabile della convivenza di dare comunicazione della variazione della convivenza al competente ufficio di anagrafe entro venti  giorni  dalla  data  in  cui  si  sono verificati i
        2. La comunicazione, da parte  del  responsabile  della  convivenza  anagrafica,  della  revoca  delle misure di accoglienza o dell’allontanamento  non  giustificato  del  richiedente  protezione internazionale costituisce motivo di cancellazione anagrafica con  effetto  immediato,  fermo restando il diritto di essere nuovamente iscritto ai sensi del comma
          • tale procedura, in deroga alla disciplina ordinaria di iscrizione all’anagrafe, prevedeva che fosse il responsabile del centro di accoglienza che ospitava il migrante ad effettuare una comunicazione all’ufficio dell’anagrafe e dunque che non fosse il diretto interessato a richiedere l’iscrizione;
          • il d.l. 113/2018 dunque, da una parte ha abrogato tale procedura di iscrizione  semplificata, dall’altra, con la norma oggi sub iudice, avrebbe ribadito che non  vi  è  alcun  automatismo  tra rilascio del permesso di soggiorno e iscrizione all’anagrafe (automatismo che era posto  a fondamento dell’art. 5 bis sopra richiamato);
          • la soluzione sarebbe avallata dal fatto che non vi è stata modifica all’art. 6 T.U. immigrazione in tema di parificazione tra stranieri regolarmente soggiornanti e cittadini italiani ai fini dell’iscrizione all’anagrafe.

        Tale interpretazione, che tiene conto anche dell’evoluzione normativa, canone ermeneutico sicuramente valido, non può essere condivisa.

        A parere di questo giudice, la stessa priva di significato la portata innovativa della norma e conduce ad una interpretazione abrogante, per le ragioni di seguito indicate:

        • la procedura di iscrizione semplificata è stata abrogata con una norma apposita, pertanto, non vi era la necessità di ribadire il difetto di automatismo tra rilascio del permesso di soggiorno ed iscrizione all’anagrafe con una ulteriore disposizione. Tra tutti i possibili significati riconducibili ad una norma, infatti, si deve optare per quello che riconnette alla medesima un qualche effetto, se esistente;
        • in ogni caso, pur assumendo quello indicato dai giudici di merito richiamati come il significato

        della norma, non si comprende quale sia il senso del richiamo all’art.  6  T.U. immigrazione, laddove si afferma che il permesso di soggiorno non è titolo ai sensi di quella norma  (la disposizione non si occupa affatto dell’automatismo tra rilascio del permesso di soggiorno ed iscrizione all’anagrafe, ma pone semplicemente la regolarità del soggiorno dello straniero quale condizione per la parificazione al cittadino ai fini dell’applicazione della disciplina);

        • la mancata modifica dell’art. 6 T.U. immigrazione, che viene evocata a riprova dell’applicazione della disciplina ordinaria in materia di iscrizione all’anagrafe anche al richiedente asilo titolare del permesso di soggiorno, non rileva in alcun modo. Anzi, è proprio l’art. 4 comma 1 bis d.lgs. 142/2015 che, quale norma di pari rango e posteriore, introducendo una deroga, sottrae uno spazio applicativo all’art. 6 T.U. immigrazione, escludendo che il permesso per richiesta asilo sia prova della regolarità del soggiorno ai fini della sua

        Per tutto quanto esposto non si può condividere l’interpretazione prospettata nelle pronunce richiamate, secondo la quale la norma in questione “sancisce l’abrogazione, non della possibilità di iscriversi al registro della popolazione residente dei titolari di un permesso di soggiorno per richiesta asilo, ma solo della procedura semplificata prevista nel 2017, che introduceva l’istituto della convivenza anagrafica, svincolando l’iscrizione dai controlli previsti per gli altri stranieri regolarmente residente e per i cittadini italiani”.

        In ordine alla chiarezza del portato normativo si è espresso recentemente anche il Tribunale di Trento, con ordinanza dell’11.6.2019, statuendo che l’attuale assetto normativo preclude l’iscrizione all’anagrafe al richiedente asilo titolare del permesso di soggiorno.

        Il provvedimento, in aderenza a quanto fino ad ora  argomentato,  arriva  addirittura  ad  affermare la “palese chiarezza della relativa normativa richiamata, di cui all’art. 4 comma 1 bis della legge 142/2015, così come modificato dall’art. 13 del d.l. 113/2018, che esclude, per tabulas, la possibilità per il richiedente protezione di ottenere l’iscrizione anagrafica nel comune, ove è di fatto residente”.

        La corte di merito, inoltre, richiama il palese significato della norma quale limite per l’interprete: “Inoltre, si deve osservare che una interpretazione della suddetta norma, in senso costituzionalmente orientato, può effettuarsi alla condizione che il testo normativo da applicare non venga del tutto stravolto, nel suo significato palese, altrimenti effettuare operazioni di tal fatta, equivarrebbe a rendere non applicabili norme, espungendole di fatto dall’ordinamento giuridico, atto questo vietato all’operatore giuridico, dovendo, semmai, il giudice sollevare questione di legittimità costituzionale, per violazione dei parametri della Carta fondamentale”.

        Chiarita l’interpretazione della disposizione e chiarita l’impossibilità di riconnettere  alla  stessa  un significato diverso ed opposto a quello che conduce alla preclusione all’iscrizione anagrafica, pena lo stravolgimento del dettato normativo, deve essere effettuato un esame circa la compatibilità della norma con l’impianto costituzionale, tenuto conto che l’odierno resistente ha invitato il giudice a sollevare eccezione di legittimità costituzionale della norma, sebbene limitandosi a richiamare i parametri violati.

        Alla  luce  dell’attuale  assetto  normativo  la  domanda  cautelare  dovrebbe  essere  rigettata  per  difetto di

        fumus boni iuris, essendo legittimo il diniego di iscrizione anagrafica opposto dal Comune di Ancona. Tuttavia, laddove si dovesse ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal resistente, si dovrebbe andare ad indagare il rapporto tra tutela cautelare e sospensione del processo per rimessione della questione alla Corte Costituzionale.

        Prima di passare allo scrutinio della legittimità costituzionale della norma e della possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale nell’ambito del giudizio cautelare, appare utile soffermarsi sulla sussistenza del periculum in mora della tutela cautelare e ciò per due evidenti ragioni:

      1. SUL PERICULUM IN MORA

       

      Come risulta dalla ricostruzione dello svolgimento del processo, cui si rimanda, il ricorrente ha argomentato la sussistenza di un periculum in mora dalla impossibilità di esercitare diritti e facoltà, che presuppongono l’avvenuta iscrizione all’anagrafe dei residenti, impossibilità che dunque sarebbe foriera di un pregiudizio non ristorabile per equivalente all’esito della definizione di un eventuale giudizio di merito volto all’accoglimento della domanda.

      Nel ricorso introduttivo i pregiudizi sono stati indicati in via astratta e con il richiamo a quanto asserito dalla giurisprudenza di merito che ha evidenziato come la mancata  iscrizione  anagrafica  rischi  di impedire l’esercizio effettivo di diritti di rilievo costituzionale che potrebbero subire un pregiudizio irreparabile:

    • apertura di un conto corrente su cui il datore di lavoro possa versare il salario;
    • ottenimento della patente di guida ex art, 118 bis 1 d.s.;
    • determinazione valore ISEE per accedere a determinate prestazioni sociali;
    • decorrenza dei termini per il rilascio del permesso per soggiornanti di lungo periodo;
    • decorrenza dei termini per l’ottenimento della cittadinanza italiana ex art. 9, 1 lett. f) L. 91/92 ecc.

    Nella memoria autorizzata il ricorrente ha meglio argomentato in ordine al caso concreto circa la sussistenza del periculum in mora, che, alla luce delle deduzioni, nel caso di specie, appare pacifico.

    Infatti, sotto il profilo del periculum non ci si deve interrogare né in ordine alla legittimità o meno del diniego di iscrizione anagrafica, né in ordine alla legittimità o meno della preclusione all’esercizio dei diritti che ne conseguono, ma si deve valutare se tale diniego stia impedendo medio tempore ed in attesa del giudizio di merito l’esercizio di diritti o di facoltà che non siano ristorabili per equivalente all’esito di un eventuale giudizio di merito che stabilisca la illegittimità del rifiuto.

    La risposta in ordine alla ristorabilità per equivalente dei diritti e facoltà compromessi, nel  caso concreto, è negativa.

    Allo stato attuale, la mancata iscrizione all’anagrafe – se legittima o meno è profilo distinto – preclude al ricorrente di accogliere un’offerta lavorativa concreta, che presuppone che il medesimo apra una partita

    i.v.a. e consegua la patente di guida, incombenti preclusi dalla mancata iscrizione all’anagrafe. L’impedimento all’esercizio dell’attività lavorativa, finalizzata, da una parte, al mantenimento del ricorrente  e,  dall’altra,  al  suo  processo  di  integrazione,  produce  sicuramente  un  pregiudizio non ristorabile per equivalente e non meramente patrimoniale.

    La mancata iscrizione impedisce, inoltre, di stipulare contratti di lavoro occasionale, ai sensi del  d.l. 50/2017, in quanto al lavoratore è richiesta una registrazione al portale dell’I.N.P.S. che presuppone l’inserimento dei dati relativi alla residenza, dichiarazione che non può  essere  resa  dallo  straniero in difetto di iscrizione anagrafica. Di conseguenza, risulta precluso un canale di accesso al lavoro.

    Si deve rilevare, peraltro, come al ricorrente sia applicabile la normativa in materia  di  protezione umanitaria, nell’ambito della quale lo svolgimento dell’attività lavorativa costituisce un indicatore del processo di integrazione della persona.

    La mancata iscrizione all’anagrafe impedisce, inoltre, la decorrenza del termine di dieci anni ex art. 9 l. 91/1992 ai fini dell’ottenimento della cittadinanza italiana. Non è errata l’affermazione del ricorrente laddove si evidenzia che ogni giorno di mancata iscrizione anagrafica è sottratto al progressivo maturare del requisito temporale.

    Tanto premesso, va chiarito che la difesa del resistente ha argomentato l’insussistenza di un periculum in mora dalla norma posta dall’art. 5 comma 3 del d.lgs. 142/2015, come modificato dal d.l. 113/2018 che recita:

    l’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato    nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2.

    Secondo la prospettazione del resistente la suddetta norma sarebbe utile a garantire l’accesso a tutte le prestazioni erogate sul territorio nazionale dalla pubblica amministrazione ma anche dai soggetti privati.

    La giurisprudenza di merito ha già evidenziato come tale norma sembra “presentare un tratto meramente declamatorio e non consentire comunque di coprire tutte le facoltà e le possibilità che in vari campi vengono ricondotte alla residenza, anche al di fuori dei servizi pubblici. Appare ragionevole, allo stato, ipotizzare la sua soccombenza di fronte alle disposizioni di pari ragno che, invece, continuano a richiedere il requisito della residenza anagrafica per l’accesso ai benefici di volta in volta previsti” (Tribunale Firenze del 18.3.2019); “la locuzione servizi previsti dal presente decreto e erogati sul territorio nazionale non esaurisce infatti i diritti individuali fruibili dagli individui in connessione con la loro residenza sul territorio nazionale e rende comunque ingiustificatamente più gravoso il loro esercizio”  (Tribunale  di Bologna del 2.5.2019).

 

La tesi sostenuta dai richiamati tribunali di merito appare condivisibile in quanto il riferimento ai  “servizi” limita di molto la portata precettiva della norma e se, da una parte, assicura l’accesso a servizi fondamentali quali quelli di tutela della salute, dall’altra, non consente di surrogare il luogo di domicilio

a quello di residenza per ogni eventuale diritto o facoltà a questa riconnesso dalla legge.

  1. SULLA QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELL’ART. 13 COMMA 1 LETT. A) N. 2) DEL D.L. 113/2018 CONVERTITO IN LEGGE N. 132/2018, CHE HA INTRODOTTO IL COMMA 1 BIS DELL’ART. 4 D.LGS. 142/2015
  • Sulla rilevanza della questione

Ritenuto sussistente il requisito del periculum richiesto dall’art. 700 c.p.c., la questione di legittimità costituzionale dell’art. dell’art. 13 comma 1 lett. a) n. 2) del  d.l.  113/2018  che  ha  introdotto  l’art.  4 comma 1 bis d.lgs. 142/2015 diviene rilevante nel presente giudizio.

Il ricorrente, infatti, ha adito l’autorità giudiziaria a seguito del rigetto della domanda di iscrizione all’anagrafe della popolazione residente pronunciato dall’ufficiale dell’anagrafe del Comune di Ancona, il quale ha fatto applicazione della norma sospettata di illegittimità costituzionale.

Nella presente fase cautelare, quindi, il giudice è chiamato a pronunciare provvedimenti  opportuni, facendo applicazione di quella norma. Alla luce di tutto quanto sopra enunciato, si dovrebbe giungere al rigetto della domanda cautelare per carenza del fumus boni iuris, in applicazione della norma sospettata di illegittimità costituzionale.

Tuttavia, proprio il fondato dubbio sulla legittimità costituzionale della norma, legittima il giudice che deve farne applicazione a sollevare la relativa questione.

Se, da un lato, la rilevanza della questione appare pacifica, dall’altro, occorre soffermarsi sul rapporto tra tutela cautelare e questione di legittimità costituzionale sollevata in via incidentale  nell’ambito  del relativo giudizio.

E’ evidente, infatti, che l’ontologica celerità del rito cautelare entra in collisione con il meccanismo di sospensione del processo per rimessione della questione al vaglio della Corte Costituzionale.

L’interferenza tra i due giudizi non può essere risolta accedendo alla soluzione che opta per la assoluta incompatibilità tra tutela cautelare e giudizio di legittimità costituzionale, in quanto è evidente che la soluzione pecca per eccessivo formalismo ed obbliga il giudice della cautela – deputato per sistema a fornire una tutela a fronte di situazioni minacciate da pregiudizio – a negare la tutela, facendo applicazione di una norma sospettata di illegittimità costituzionale.

Allo stesso tempo, in un sistema giuridico  di  sindacato  costituzionale  accentrato,  non  appare percorribile neanche la soluzione diametralmente opposta e cioè quella  del  giudice  che  concede  la tutela, disapplicando la norma sospettata di illegittimità costituzionale. La richiamata  soluzione  eleverebbe il giudice di merito a giudice delle leggi, dando spazio ad una vistosa anomalia del sistema: si assisterebbe ad un esercizio di un potere costituzionale riservato ad altro organo e l’efficacia inter partes della pronuncia avrebbe dei riflessi in tema di trattamento  diversificato  sul  territorio.  Si  aggiunga, inoltre, che alla luce della idoneità del provvedimento ex art. 700 c.p.c. a conservare la sua efficacia, rientrando lo stesso nel novero dei provvedimenti cautelari a strumentalità attenuata, non vi sarebbe la garanzia di un successivo giudizio di merito nel quale la questione possa essere portata al vaglio della Corte Costituzionale.

Una soluzione al problema, che  questo  giudicante  ritiene  di  condividere,  trova  origine  nella giurisprudenza amministrava. Si tratta della c.d.  tutela  cautelare  a  tempo  ovvero  la  misura  cautelare viene concessa, in via provvisoria, condizionandone la conferma o la revoca all’esito del giudizio di legittimità costituzionale.

La soluzione, che prevede la scomposizione della fase cautelare in una  fase  interinale,  nella  quale  il giudice concede la cautela fino alla decisione della Corte Costituzionale, ed una seconda fase nella quale

il giudice si pronuncia in via definitiva, tenendo conto dell’esito del giudizio costituzionale, consente, da un lato, di preservare l’effettività e l’immediatezza della tutela cautelare e, dall’altro, di scongiurare una  pronuncia di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per esaurimento della potestas iudicandi del giudice rimettente.

D’altronde la scomposizione del giudizio in due fasi non è estranea neanche al processo civile: si pensi al meccanismo di cui all’art. 669 sexies comma 2 c.p.c..

La compatibilità tra tutela cautelare e giudizio di legittimità costituzionale, nei termini anzidetti,  ha superato il vaglio della stessa Corte Costituzionale, la quale ha  ritenuto  ammissibili  questioni  di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale nell’ambito di giudizi cautelari, sul presupposto che la tutela sia stata concessa in via provvisoria proprio in ragione della non manifesta infondatezza della questione.

Si richiama a tal fine un passaggio argomentativo della ordinanza n. 25 del 2006 della Corte Costituzionale: “deve respingersi l’eccezione di inammissibilità della questione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato sul presupposto che, avendo emesso il provvedimento cautelare richiestogli con l’appello proposto avverso l’ordinanza di diniego del TAR, il Consiglio di Stato avrebbe esaurito  la  potestas  judicandi,  quale  ad  esso  compete  nella  sede cautelare; che questa Corte ha più volte statuito che il giudice amministrativo ben può sollevare questione di legittimità costituzionale in sede cautelare, sia quando non provveda sulla domanda cautelare, sia quando conceda la relativa misura, purché tale concessione non si risolva, per le ragioni addotte  a  suo  fondamento,  nel  definitivo  esaurimento  del  potere cautelare del quale in quella sede il giudice amministrativo fruisce: con la conseguenza che la questione di  legittimità costituzionale è inammissibile – oltre che, ovviamente, se la misura è espressamente negata (ordinanza n. 82 del 2005) – quando essa sia concessa sulla base di ragioni, quanto al fumus boni  juris,  che  prescindono  dalla  non  manifesta infondatezza della questione stessa (sentenza n. 451 del 1993); che  la  potestas  judicandi  non  può  ritenersi  esaurita quando la concessione della misura cautelare è fondata, quanto al fumus boni juris, sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, dovendosi in tal caso la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato ritenere di carattere provvisorio e temporaneo fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 444 del 1990; n. 367 del 1991; numeri 24, 30 e 359 del 1995; n. 183 del 1997; n. 4 del 2000)”.

Tanto premesso, il principio enunciato dalla Corte Costituzionale, sebbene relativo ad ipotesi nelle quali la tutela cautelare era di tipo sospensivo, si ritiene applicabile anche ai casi di cautela di natura anticipatoria, come quella sub iudice.

Infatti, nel caso di specie, verrebbe concessa la misura cautelare mediante l’ordine di iscrivere il ricorrente all’anagrafe della popolazione residente, con riserva di confermare il provvedimento o caducarlo, ordinando quindi la cancellazione dell’iscrizione, all’esito del giudizio di costituzionalità.

Non vi sarebbe alcun ostacolo normativo, dal momento che l’art. 700  c.p.c.,  peraltro,  attribuisce  al giudice il potere di adottare “i provvedimenti d’urgenza che appaiono, secondo le circostanze più idonei”.

La concessione del provvedimento anticipatorio, inoltre, per la natura dell’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, non determinerebbe effetti irreversibili – non suscettibili di successiva modifica – ma garantirebbe l’iscrizione almeno fino all’esito del giudizio di legittimità costituzionale, momento nel quale si stabilirà se confermare definitivamente la misura o disporne la cancellazione.

In applicazione del principio avallato dalla Consulta, pertanto, la questione di legittimità costituzionale sarebbe ammissibile poiché la misura cautelare verrebbe provvisoriamente concessa proprio sul presupposto esclusivo secondo cui si ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale.

Va rilevato, infine, che l’eventuale esclusione della c.d. tutela cautelare a tempo per le misure cautelari di natura anticipatoria determinerebbe un irragionevole discrimine rispetto a quelle di natura sospensiva, che non si giustificata alla luce delle ragioni richiamate.

Si evidenzia, tra l’altro, che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con pronunce risalenti, si è pronunciata in modo favorevole rispetto all’analoga ipotesi della possibilità per i giudici che sollevano rinvio pregiudiziale di adottare misure cautelari provvisorie durante il tempo necessario alla pronuncia della Corte, evidenziando come tale possibilità fosse  da  estendere  anche  alle  misure  di  natura anticipatoria (Cfr. CGUE 9 settembre 1995 C-465/93).

  • Sulla non manifesta infondatezza

Occorre premettere che il resistente, nel presente giudizio, ha eccepito l’illegittimità costituzionale della norma limitandosi ad indicare la disposizione di legge viziata da illegittimità costituzionale e le disposizioni della Costituzione che si assumono violate. In particolare, il Comune di Ancona ha individuato i seguenti parametri: 3, 10, 16, 77, 97, 117 e 118 Cost..

L’art. 23 della l. 87 del 1953, al comma secondo, peraltro, consente anche al giudice di sollevare ex officio questione di legittimità costituzionale delle norme che è chiamato ad applicare.

Sotto il primo profilo la non manifesta infondatezza costituisce un filtro e comporta per il giudice che la questione debba essere sollevata ogni qualvolta non si presenti, così come dedotta dalle parti, palesemente infondata.

Nel caso del rilievo ex officio l’integrazione della non manifesta infondatezza non si risolve in un filtro tra le parti e la Corte Costituzionale ma coincide con l’impossibilità di dare una interpretazione compatibile con la Costituzione.

Tanto premesso, si ritiene la questione non manifestamente infondata.

Ai sensi dell’art. 43 c.c. la residenza è il luogo in cui la persona ha la dimora abituale, cioè il luogo in cui il soggetto vive la quotidianità dei suoi interessi e della propria famiglia. L’atto con il quale si stabilisce la residenza è un atto giuridico in senso stretto nel quale cioè l’elemento soggettivo non rileva in sé ma si deve manifestare in un comportamento che, alla stregua della valutazione sociale, corrisponde  ad effettiva abitazione abituale in un certo luogo (“La residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, cioè dall’elemento obiettivo della permanenza in tale  luogo  e dall’elemento soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita  e  dallo  svolgimento  delle  normali relazioni sociali” Cass. n. 1738/1986).

L’iscrizione al pubblico registro anagrafico tenuto presso ogni comune ha mero valore pubblicitario e, senz’altro, non costitutivo in quanto è noto che l’effettiva residenza di una persona può essere accertata con ogni mezzo, anche contro le risultanze anagrafiche.

L’iscrizione anagrafica pertanto ha mero valore ricognitivo di una situazione di fatto che esiste a prescindere dalla sua manifestazione formale. La preclusione all’iscrizione, pertanto, si risolve in un ostacolo ad ottenere la pubblicizzazione di uno stato di fatto, che si pone a presupposto di esercizio di  una molteplicità di diritti e di facoltà, sia nell’ambito del settore pubblico, che nell’ambito del settore privato.

Se da una parte l’iscrizione anagrafica, in quanto priva di valore costitutivo, può apparire  una  mera formalità senza rilievo, dall’altra, nel fondare la presunzione di corrispondenza alla realtà effettiva circa il luogo di stabile dimora di un soggetto, assurge a strumento di primaria importanza, laddove, tanto nel settore pubblico, quanto nel settore privato, si consente di dare prova della propria residenza mediante il richiamo alla dichiarazione anagrafica.

La preclusione all’iscrizione, allora, è ostacolo dapprima alla pubblicità di una situazione di fatto e, secondariamente, alla possibilità di fornirne la relativa prova ai fini dell’esercizio di diritti e facoltà o dell’accesso a servizi pubblici o privati.

La giurisprudenza ha, infatti, chiarito che lo strumento dell’anagrafe “è predisposto nell’interesse  sia  della pubblica amministrazione, sia dei singoli individui. Sussiste, invero, non soltanto l’interesse dell’amministrazione ad avere  una relativa certezza circa la composizione ed i movimenti della popolazione (…) ma anche l’interesse dei privati ad ottenere le certificazioni anagrafiche ad essi necessarie per l’esercizio dei diritti civili e politici e, in generale, per provare la residenza e lo stato di famiglia” (Cass. n. 449/2000).

Tanto premesso, si rammenta che la preclusione all’iscrizione anagrafica è stata giustificata dalla relazione illustrativa al decreto legge con la precarietà del soggiorno del migrante e con la necessità di definire in via prioritaria la sua condizione giuridica.

La medesima argomentazione è stata recepita dell’ordinanza del Tribunale di  Trento che  ha  escluso  profili di illegittimità costituzionale della norma proprio con il richiamo alla diversa condizione dello straniero.

La considerazione se, prima facie, può apparire condivisibile, ad un esame più attento non lo è.

Il soggiorno dello straniero richiedente asilo, legittimato dal rilascio del relativo permesso, è pacificamente non di breve durata. I tempi di accertamento delle condizioni che costituiscono presupposto del riconoscimento della protezione internazionale che includono il procedimento dinanzi alle commissioni territoriali, l’eventuale impugnativa dinanzi al Tribunale e poi in Cassazione sono di gran lunga superiori al tempo minimo necessario per poter definire il luogo in cui lo straniero ha fissato la propria dimora come abituale.

Tra i parametri di legge che si possono utilizzare al fine di riconoscere l’abitualità di una dimora, vi è sicuramente l’art. 6 T.U. immigrazione che fissa a tal fine il termine di tre mesi.

Di conseguenza, se da una parte è vero che la condizione del richiedente asilo è precaria, dall’altra, è parimenti vero che il suo soggiorno si protrae legittimamente sul territorio per tempi  che  superano  sempre almeno la durata annuale, tempi nei quali viene impedita la pubblicizzazione e la prova di una residenza che, di fatto, viene acquisita.

E’ noto che al legislatore è consentito dettare norme che regolino l’ingresso  e  la  permanenza  dei cittadini extracomunitari nel nostro paese purché non palesemente irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali. Sul punto, la Corte Costituzionale ha più volte ribadito il principio secondo cui

il legislatore può subordinare l’erogazione di determinate prestazioni alla circostanza che lo straniero sia soggiornante con un titolo non episodico e non di breve durata (Cfr. Corte costituzionale n. 306/2008). Nel caso in esame, il legislatore sembra aver riservato un trattamento deteriore in riferimento ad uno straniero, legalmente soggiornante ma con titolo che non è né episodico, né di breve durata.

I dubbi di legittimità costituzionale della norma censurata appaiono quindi non manifestamente infondati con riferimento ai seguenti parametri costituzionali.

Il primo parametro rispetto al quale si ritiene fondato il dubbio di legittimità è rappresentato dall’art. 2 della Costituzione.

L’impossibilità per lo straniero richiedente asilo di ottenere la certificazione anagrafica in ordine alla sua dimora abituale comporta, per le ragioni enunciate, una condizione di minorazione generale della sua persona la quale si vede impossibilitata a dare prova di una condizione di fatto  esistente  (la dimora abituale).

Tale limite si traduce in una preclusione all’accesso a tutti quei diritti, facoltà e servizi che elevano tale prova a requisito costitutivo, interponendo quindi seri ostacoli allo sviluppo della persona come singolo e nelle formazioni sociali.

In secondo luogo, la questione di legittimità costituzionale appare non manifestamente infondata con riferimento all’art. 3 della Costituzione sotto plurimi aspetti.

Appare violato, in primo luogo, il principio di ragionevolezza, in quanto il legislatore con  la  norma censurata ha privato, al solo fine di impedire l’iscrizione anagrafica,  il  “permesso  di  soggiorno”, documento deputato al precipuo fine di attestare la regolarità  del  soggiorno  di  uno  straniero  sul territorio, della sua ontologica natura ovvero della sua capacità di provare la legittima permanenza sul territorio nazionale.

Il principio di ragionevolezza può dirsi rispettato solo laddove esista una “causa normativa” della suddetta differenziazione che, nel caso di specie, non può essere ravvisata nella “precarietà della condizione giuridica dello straniero” in quanto tale precarietà non corrisponde ad un soggiorno di breve durata.

La soluzione adottata dal legislatore appare quindi sproporzionata rispetto al fine: il legislatore avrebbe dovuto selezionare i diritti ed i servizi rispetto ai quali si legittima una preclusione all’accesso da parte del richiedente asilo e non anche precludere indiscriminatamente ogni facoltà – in ambito pubblico e privato – che si riconnette al possesso della residenza anagrafica, etichettando il soggiorno del richiedente asilo come “soggiorno irregolare” solo a taluni fini.

L’intervento sproporzionato rispetto al fine perseguito è rivelato da una contraddizione in cui è caduto lo stesso legislatore, palesando un ulteriore profilo di irragionevolezza.

Da un lato infatti, il legislatore ha previsto che il permesso di soggiorno per richiesta asilo consente di svolgere attività lavorativa  (Cfr.  art.  22  d.lgs.  142/2015  “Il  permesso  di  soggiorno  per  richiesta  asilo di cui all’articolo 4 consente  di  svolgere attività  lavorativa,  trascorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda, se  il  procedimento di esame della domanda non è concluso ed il ritardo non  può essere attribuito al richiedente”) – riconoscendo quindi l’importanza di tale profilo non solo ai fini del sostentamento dello straniero, ma anche ai fini della sua integrazione nel tessuto sociale – dall’altro, con la preclusione all’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, ha impedito al titolare di permesso di soggiorno di interloquire con l’ente deputato alla gestione ed alla ricerca di occasioni lavorative. La mancata  iscrizione  all’anagrafe, infatti, preclude l’accesso alle politiche attive del lavoro di cui all’art. 11 d.lgs. 150/2015, politiche riservate per espressa previsione di legge ai residenti sul territorio (Cfr. art. 11 co. 3 lett. c) d.lgs. 150/2011), così come preclude l’inserimento del titolare del permesso per richiesta  asilo nel  sistema informativo unitario delle politiche del lavoro che prevede la formazione di  una  scheda anagrafica del lavoratore (Cfr. art. 13 d.lgs. 150/2011). Allo stesso tempo, è preclusa la possibilità di stipulare contratti di lavoro di prestazione di lavoro occasionale, come disciplinati dal d.l. 50/2017 e dal d.l. 87/2018, in quanto al lavoratore privo di residenza è preclusa la registrazione al portale telematico dell’I.N.P.S..

In definitiva, quindi, il diritto al lavoro che è  stato  riconosciuto  anche  ai  titolari  di  permesso  di soggiorno per richiesta asilo risulta compromesso dagli ostacoli che la norma sub iudice – impedendo l’acquisizione di una residenza formale – frappone tra il lavoratore e i canali di accesso alle occasioni lavorative, con evidenti profili di irragionevolezza.

Appare poi violato il principio di eguaglianza e non discriminazione, sub specie di diversità di trattamento a fronte di situazioni eguali.

L’impossibilità per il richiedente asilo di ottenere la ricognizione anagrafica, a fronte della sussistenza del requisito costitutivo della residenza ovvero la dimora abituale, si  estrinseca  in  un  trattamento deteriore non giustificato rispetto al cittadino italiano ma anche e soprattutto rispetto allo straniero regolarmente soggiornante con altro titolo.

La “precarietà” della sua condizione giuridica, infatti, non pare giustificare il diverso trattamento, dal momento che, per le ragioni già individuate, tale precarietà non equivale ad una  breve  durata  del soggiorno legittimo sul territorio nazionale e pertanto non inficia il presupposto posto a base della residenza e cioè la dimora abituale nel suo elemento oggettivo e soggettivo.

La discriminazione è ancora più evidente rispetto agli altri stranieri regolarmente soggiornanti e cioè muniti di permesso di soggiorno di altro tipo. Rispetto a quest’ultimi, addirittura, l’ingiustificato trattamento deteriore può risultare più marcato poiché gli stessi non incontrano limitazioni nell’accesso alle iscrizioni anagrafiche e possono ottenerle con il decorso del tempo  minimo  necessario  a  considerare la loro dimora come abituale, anche a fronte di  un  soggiorno  temporalmente  ridotto rispetto a quello dei richiedenti asilo.

La precarietà della condizione giuridica dello straniero richiedente asilo è senz’altro un elemento discretivo rispetto alla condizione del cittadino o di un altro straniero titolare di un permesso di altro tipo, ma la stessa può e deve avere un peso esclusivamente rispetto a questioni nelle quali la suddetta precarietà entra in collisione con gli effetti di una situazione giuridica da riconoscere.

Rispetto al diritto a vedersi riconosciuta mediante certificazione anagrafica la propria dimora abituale, la precarietà della condizione giuridica non esplica nessuno effetto e non giustifica l’impossibilità di ottenere prova di una residenza che è effettivamente abituale e che può protrarsi anche per anni.

Peraltro, non possono invocarsi neanche esigenze di certezza delle risultanze anagrafiche, poiché l’art 7 co. 3 D.P.R. 223/1989 – laddove pone l’obbligo di rinnovare la dichiarazione di dimora abituale entro sessanta giorni dal rinnovo del permesso di soggiorno e statuisce che l’ufficiale dell’anagrafe aggiorna la scheda anagrafica dello straniero – assicura un meccanismo di cancellazione della residenza laddove il permesso di soggiorno non dovesse essere rinnovato.

Infine, dubbi di legittimità costituzionale si avanzano anche in  riferimento  alla  violazione dell’art. 117 comma 1 della Costituzione in relazione all’art. 2 protocollo n. 4  della  Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo in base al quale “chiunque si trovi legalmente nel territorio di uno Stato ha diritto alla libertà di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio” nonché all’art. 117 comma 1 in relazione all’art. 12 del Patto sui diritti internazionali civili e politici “Ogni individuo che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato ha diritto alla libertà di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio”.

P.Q.M.

ORDINA all’ufficiale dell’anagrafe del Comune di Ancona di iscrivere il ricorrente all’anagrafe della popolazione residente del Comune di Ancona, in via provvisoria, riservando all’esito dell’incidente di costituzionalità la decisione definitiva in ordine alla domanda cautelare.

DICHIARA rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento  gli  artt.  2  Cost.,  3  Cost.,  117 Cost. in riferimento all’art. 2 protocollo addizionale alla C.e.d.u. n. 4, 117 Cost. in riferimento all’art. 12 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 comma 1 lett. a) n. 2) d.l. 113/2018 convertito in legge n. 132/2018.

DISPONE la immediata trasmissione degli atti e della presente ordinanza, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte comunicazioni e notificazioni, alla eccellentissima Corte Costituzionale e sospende il giudizio.

MANDA alla cancelleria per la notificazione della presente ordinanza alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei ministri, nonché per la sua comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Ancona, 29 luglio 2019

 

IL GIUDICE

dott.ssa Martina Marinangeli