Discriminazione razziale, negazione accesso concorsi pubblici cittadini comunitari, Tribunale di Roma, sezione lavoro, sentenza 28 gennaio 2019

TRIBUNALE DI ROMA

SEZIONE II LAVORO

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice, dott.ssa Laura Cerroni, alla pubblica udienza del 28

gennaio 2019 ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella controversia iscritta al n. 11797/2018 R.G.

TRA

G.G.B.S., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Aurora Donato e Ivonne

Panfilo, per procura in allegato al ricorso telematico,

RICORRENTE

E

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso ex lege dalla Avvocatura dello Stato,

RESISTENTE

FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE

Con ricorso ordinario depositato in data 9/04/2018, con contestuale istanza cautelare, la ricorrente in epigrafe conveniva in giudizio il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, proponendo impugnativa della clausola discriminatoria di cui all’articolo 3 dei Bandi di Concorso pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana il 9/2/2018, rispettivamente, per 250 posti a tempo indeterminato per il profilo professionale di Funzionario della professionalità di servizio sociale, III Area Funzionale, fascia retributiva F1, nei ruoli del personale del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità (“bando assistenti sociali”) e per 15 posti a tempo indeterminato per il profilo professionale di Funzionario mediatore culturale, III Area Funzionale, fascia retributiva F1, nei ruoli del personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (“bando mediatori culturali”), nella parte in cui non consentiva la partecipazione ai cittadini stranieri in possesso dei requisiti di cui all’articolo 38, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001, come modificato dall’articolo 7, comma 1, lettera a, della legge n. 97/2013.

Deducendo la sussistenza tanto del requisito del fumus boni iuris, quanto di quello del periculum in mora, la ricorrente domandava, in via cautelare, la propria ammissione con riserva a sostenere le prove d’esame e, nel merito, accertata la natura discriminatoria della clausola di cui all’articolo 3 dei Bandi di Concorso, previa sua disapplicazione, la propria definitiva ammissione alle prove selettive.

Nonostante la rituale instaurazione del contraddittorio, non si costituiva in giudizio, per la fase cautelare, il Ministero della Giustizia, ed all’esito dell’udienza del 13/06/2018 il Tribunale pronunciava ordinanza di accoglimento dell’istanza cautelare.

Interposto reclamo da parte del Ministero della Giustizia, il Collegio, con ordinanza n. 75565/2018 dell’1/8/2018, preso atto della sopravvenuta cessazione della materia del contendere in relazione al concorso per 250 posti di assistente sociale, confermava, per il resto, l’ordinanza reclamata.

Nell’odierno giudizio di merito, si costituiva il Ministero della Giustizia, insistendo, in via preliminare, per la cessazione della materia del contendere con riferimento al bando di selezione per 250 posti di assistente sociale e, in relazione alla residua domanda, eccependo, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore del giudice amministrativo, nonché il difetto di legittimazione

attiva della ricorrente e, nel merito, contestando la fondatezza del ricorso e domandandone il rigetto.

La controversia veniva istruita mediante l’acquisizione della documentazione allegata agli scritti difensivi.

Autorizzato il deposito di note scritte – depositate dalla sola parte ricorrente – all’odierna udienza, sulle conclusioni rassegnate dalle parti negli scritti difensivi e nei verbali di causa, la controversia veniva decisa.

Così ricostruito l’iter procedimentale, deve, in primo luogo, rilevarsi che, come già evidenziato dal Collegio in sede di reclamo, è, nelle more, cessata la materia del contendere con riferimento al bando di selezione per 250 posti a tempo indeterminato per il profilo professionale di Funzionario della professionalità di servizio sociale, III Area Funzionale, fascia retributiva F1, nei ruoli del personale del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità (“bando assistenti sociali”), per non avere la ricorrente superato le prove selettive d’esame.

Sempre in via preliminare, deve respingersi l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa resistente.

Diversamente da quanto sostenuto, sussiste, invero, la giurisdizione del Tribunale ordinario, avendo la ricorrente domandato la rimozione, in via d’urgenza, della clausola discriminatoria di cui all’articolo 3 dei Bandi di Concorso citati, per motivo di nazionalità, avendo il Ministero della Giustizia prescritto il requisito della cittadinanza per l’accesso alle due selezioni pubbliche.

E’, infatti, noto che, in tema di tutela avverso atti o comportamenti discriminatori vietati, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, essendo irrilevante che il comportamento discriminatorio dedotto consista nella emanazione di un atto amministrativo, posto che l’ordinamento costituzionale (articolo 3 Cost.), sovranazionale (Direttive 2000/43/CE, 2000/78/CE, 2001/73/CE, 2006/54/CE) ed interno (articoli 3 e 4 del d.lgs. n. 215/2003 e articolo 44 del d.lgs. n. 286/1998) configurano il diritto a non essere discriminati come un diritto soggettivo assoluto, la cui tutela è espressamente devoluta alla cognizione del giudice ordinario, il quale, valutato il provvedimento censurato, deve, in caso di accertata discriminatorietà, disattenderlo, adottando i provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti.

In tal senso, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno condivisibilmente affermato che: “L’azione proposta in relazione alla denunziata natura ritorsiva del provvedimento con cui un Comune – dopo l’istituzione di un c.d. “bonus bebè” riservato a famiglie con almeno un genitore italiano, ed a seguito di ordine giudiziale di estensione del beneficio anche alle famiglie composte da genitori stranieri – aveva, viceversa, deliberato di revocarlo per tutte le famiglie, sia italiane che straniere, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, sia nella fase cautelare rivolta all’ottenimento di un provvedimento anticipatorio urgente, sia nella successiva fase della cognizione piena, così come previsto nell’art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, in considerazione del quadro normativo costituzionale (art. 3 Cost.), sovranazionale (Direttiva 2000/43/CE) ed interno (art. 3 e 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215 nonché l’art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) di riferimento, che configura il diritto a non essere discriminati come un diritto soggettivo assoluto; né la giurisdizione può essere negata ai sensi degli artt. 4 e 5 del r.d. n. 2248 del 1865 all. E, in quanto il giudice ordinario è tenuto alla disapplicazione incidentale del provvedimento emesso in violazione del principio di parità ai fini della tutela dei diritti soggettivi controversi, pur non interferendo nella potestà della P.A.” (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, Ordinanza n. 3670 del 15/02/2011).

Sicché, anche, poiché il legislatore, al fine di garantire parità di trattamento e vietare ingiustificate discriminazioni per ragioni di razza ed origine etnica, ha configurato una posizione di diritto soggettivo assoluto a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione posta in essere sia da privati che dalla P.A., ne consegue, in fattispecie analoga, che “è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario l’azione promossa contro la decisione dell’amministrazione datrice di lavoro di escludere dalle procedure di stabilizzazione, previste dalla legge finanziaria del 2007, alcuni lavoratori extracomunitari perché privi della cittadinanza italiana, dovendosi ritenere che le questioni relative a dette procedure riguardino solo la fase successiva all’esercizio dell’azione antidiscriminatoria, restando esclusa ogni asserita violazione del principio del giudice naturale” (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, Ordinanza n. 7186 del 30/3/2011).

Nello stesso senso, d’altro canto, si è espresso il Collegio in sede di reclamo, il quale ha condiviso il rilievo che “in tema di tutela avverso atti o comportamenti discriminatori vietati, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, essendo irrilevante che il comportamento discriminatorio dedotto consista nella emanazione di un atto amministrativo, posto che l’ordinamento costituzionale (articolo 3 Cost.), sovranazionale (Direttive 2000/43/CE, 2000/78/CE, 2001/73/CE, 2006/54/CE) ed interno (articoli 3 e 4 del D.Lgs. n. 215/2003 e articolo 44 del D.Lgs. n. 286/1998) configurano il diritto a non essere discriminati come un diritto soggettivo assoluto, la cui tutela è espressamente devoluta alla cognizione del giudice ordinario, il quale, valutato il provvedimento censurato deve, in caso di accertata discriminatorietà, disattenderlo, adottando i provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti” (cfr. ordinanza Tribunale di Roma, Collegio di Reclamo, n. 75565/2018 dell’1/8/2018, in atti).

Nel merito, in relazione alla residua domanda inerente la procedura selettiva per 15 posti a tempo indeterminato per il profilo professionale di Funzionario mediatore culturale, III Area Funzionale, fascia retributiva F1, nei ruoli del personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (“bando mediatori culturali”), il ricorso è fondato.

Costituendosi in giudizio, il Ministero della Giustizia ha, in primo luogo, diffusamente argomentato in ordine all’asserito difetto di legittimazione attiva della ricorrente, la quale sarebbe stata esclusa dalla procedura selettiva, ancora prima che per il difetto di possesso del requisito indispensabile della cittadinanza italiana, per la irregolare presentazione della domanda di partecipazione in formato cartaceo, anziché, come espressamente previsto dall’articolo 5 del Bando di Concorso, con modalità telematiche.

La censura, già sollevata innanzi al Collegio in sede di reclamo, è già stata ritenuta infondata.

Invero, il Ministero resistente non ha mai comunicato alla ricorrente alcuna comunicazione di esclusione dalla prova per tale motivo, come invece, diversamente, avvenuto per la domanda di partecipazione al Bando di Concorso per 250 posti di assistente sociale.

In ogni caso, parte ricorrente, censurando l’avversa deduzione, ha rilevato l’impossibilità, per parte propria, di inoltrare la domanda tramite il form telematico predisposto dall’Amministrazione, che le avrebbe imposto l’alternativa tra dichiarare il falso – barrando la casella indicativa del possesso della cittadinanza italiana – o vedersi impedita la possibilità di inoltrare la domanda, per il cui perfezionamento risultava requisito indispensabile l’attestazione del possesso della cittadinanza.

Per tale ragione, del tutto correttamente, la ricorrente ha stampato e compilato lo stesso form predisposto dal Ministero, inserendo la postilla con le sue deduzioni in ordine al mancato possesso della cittadinanza italiana ed alla ritenuta irrilevanza di tale condizione, trasmettendo tale documento sia a mezzo raccomandata, sia con modalità telematiche, a mezzo posta elettronica certificata.

Non v’è dubbio, pertanto, come già ritenuto dal Collegio in sede di reclamo, che l’odierna ricorrente, che ha agito al fine di far valere la discriminatorietà della propria esclusione dal bando di concorso, sia munita della legittimazione attiva ad introdurre il presente giudizio.

Quanto, poi, alla pretesa discriminatorietà del requisito della cittadinanza italiana, si è già affermato che lo stesso ha subito, in relazione all’accesso al lavoro nella pubblica amministrazione, previsto da norme nazionali di diverso rango (art. 51 Cost., art. 2 del D.P.R. n. 3/1957, art. 2 D.P.R. n. 487/94 richiamato dall’ art. 70 comma 13 d.lvo n. 165/2001, art. 1 D.P.C.M. n. 174/1994), numerose restrizioni, derivanti dal processo di integrazione europea, dal principio di libera circolazione all’interno dell’Unione e di non discriminazione, sulla base della nazionalità, tra i lavoratori degli stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione, le condizioni di lavoro (art. 45 TFUE ex 39 TCE).

È ben vero che l’ordinamento europeo prevede, quale eccezione alla abolizione di ogni discriminazione fondata sulla nazionalità tra i lavoratori degli stati membri, gli impieghi nella pubblica amministrazione (art. 45 paragrafo 4 TFUE) e, tuttavia, la portata applicativa di detta esclusione, ampia nella enunciazione letterale, è stata definita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in termini restrittivi.

Secondo la Corte, infatti, la nozione di “pubblica amministrazione”, ai sensi dell’art. 45 paragrafo 4 è comunitaria e non può essere rimessa alla discrezionalità degli stati membri (CGUE sent. 12/02/1974 Sotgiu/Deuteche Bundespost C 152/73 punto 5; CGUE sent. 17/12/1979 Commissione CE/Regno del Belgio C 149/79 punto 12 e 18; CGUE sent,. 20/09/2003 Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Espanola C 405/2001 punto 38).

Piuttosto, trattandosi di deroga al principio fondamentale della libera circolazione e della parità di trattamento dei lavoratori comunitari, deve ricevere una interpretazione che ne limiti la portata a quanto è strettamente necessario per salvaguardare gli interessi che essa consente agli stati membri di tutelare (CGUE sent,. 20/09/2003 Colegio de Oficiales della Marina Mercante Espanola C 405 punto 41).

E’, pertanto, corretto ritenere che la deroga dell’art. 45 paragrafo 4 non trovi applicazione a impieghi che, pur dipendendo dallo Stato o da altri enti pubblici, non implicano la partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente detta (CGUE sent. 17/12/1979 Commissione CE/Regno del Belgio C 149/79 punto 11; CGUE sent,. 20/09/2003 Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Espanola C 405/2001 punto 40).

La Corte ha così circoscritto la deroga ai “posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche” in quanto “presuppongono, da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza” (CGUE sent. 17/12/1979 Commissione CE/Regno del Belgio C 149/79 punto 10; CGUE sent. 20/09/2003 Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Espanola C 405/2001 punto 39).

Facendo applicazione di detti criteri, la Corte di Giustizia non ha ritenuto impieghi nella pubblica amministrazione, pertanto esclusi dalla deroga al principio di parità di trattamento dei lavoratori comunitari: il tirocinio della professione di insegnante (Corte Giust. 3 luglio 1986, Lawrie- Blum, c- 66/85), i posti di ricercatore presso il CNR (Corte Giust. 16 giugno 1987, Commissione c. Italia, c- 225/85), i posti di lettore di lingua straniera nell’Università di Venezia (Corte Giust. 30 maggio 1989, Allué, c-33/88), il lavoro di infermiere (Corte Giust.3 giugno 1986, Commissione c. Francia, c- 307/84), vari impieghi esecutivi presso amministrazioni comunali (es.: falegname, aiuto giardiniere, elettricista; v. Corte Giust., 26 maggio 1982, Commissione c. Belgio, c- 149/79).

Secondo l’interpretazione sempre più rigorosa della Corte di Giustizia i pubblici poteri finalizzati alla tutela dell’interesse nazionale rilevanti ai fini della deroga di cui all’art. 45 paragrafo 4 si manifesterebbero nella posizione e mansione lavorativa che: 1) implichi l’esercizio di poteri di coercizione o d’imperio nei confronti dei terzi, 2) in funzione di interessi generali e non meramente tecnici o economici, 3) purché siano esercitati in modo abituale e non rappresentino una parte molto ridotta dell’attività (CGUE sent. 20/09/2003 Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Espanola C 405/2001 punti 42, 44; CGUE sent. Anker C 47/2002 punto 63 CGUE; sent. 10/09/2014 Haralambidis punti 57, 58, 59 che ha ritenuto che la esclusione generale dall’accesso dei cittadini di altri stati membri dalla funzione di Presidente dell’Autorità Portuale, nello specifico di Brindisi, costituisce discriminazione fondata sulla nazionalità vietata dall’art. 45 TFUE).

Detta nozione restrittiva è espressione di un criterio funzionale, che cumula i due requisiti dell’impiego di pubblici poteri, come sopra intesi, e la tutela degli interessi generali dello Stato o delle pubbliche collettività.

In aggiunta si osserva che in pronunce intervenute in tema di discriminazione fondata sulla nazionalità, vietata dall’art. 49 TFUE (ex 43 TCR diritto di stabilimento), ove la Corte ha fornito l’interpretazione della nozione di pubblici poteri fondanti la deroga consentita dall’art. 51 paragrafo 1 (ex art. 45 TCE), ha ritenuto illegittimo il requisito della cittadinanza per l’accesso a determinate posizioni lavorative pubbliche o private collegate all’esercizio di pubblici poteri consistenti in: talune attività ausiliarie o preparatorie rispetto all’esercizio dei pubblici poteri (v. in tal senso, sentenze del 13 luglio 1993, Thijssen, C-42/92, EU:C:1993:304, punto 22; del 29 ottobre 1998, Commissione/Spagna, C-114/97, EU:C:1998:519, punto 38; del 30 marzo 2006, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, C-451/03, EU:C:2006:208, punto 47; del 29 novembre 2007, Commissione/Germania, C-404/05, EU:C:2007:723, punto 38, e del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo, C-438/08, EU:C:2009:651, punto 36), o determinate attività il cui esercizio, pur comportando contatti, anche regolari e organici, con autorità amministrative o giudiziarie, o addirittura una partecipazione, anche obbligatoria, al loro funzionamento, lasci inalterati i poteri di valutazione e di decisione di tali autorità (v., in tal senso, sentenza del 21 giugno 1974, Reyners, 2/74, EU:C:1974:68, punti 51 e 53), o ancora determinate attività che non comportano l’esercizio di poteri decisionali (v., in tal senso, sentenze del 13 luglio 1993, Thijssen, C-42/92, EU:C:1993:304, punti 21 e 22; del 29 novembre 2007, Commissione/Austria, C-393/05, EU:C:2007:722, punti 36 e 42; del 29 novembre 2007, Commissione/Germania, C-404/05, EU:C:2007:723, punti 38 e 44, nonché del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo, C-438/08, EU:C:2009:651, punti 36 e 41), di poteri di coercizione (v. in tal senso, in particolare, sentenza del 29 ottobre 1998, Commissione/Spagna, C-114/97, EU:C:1998:519, punto 37), o di potestà coercitiva (v., in tal senso, sentenze del 30 settembre 2003, Anker e a., C-47/02,

EU:C:2003:516, punto 61, nonché del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo, C-438/08, EU:C:2009:651, punto 44) (così riassuntivamente indicate nella sentenza CGUE Commissione europea c Repubblica Ungherese 01/02/2017 c 392/2015 al paragrafo 108).

Le norme e le statuizioni della Corte di Giustizia prevalgono sulle norme nazionali contrastanti, vincolando ad una interpretazione conforme, o in caso di impossibilità, alla disapplicazione della norma interna.

Il quadro normativo nazionale in tema di accesso dei cittadini comunitari e di paesi terzi ai posti di lavoro pubblici è dettato dall’art. 38, comma 1, d.lgs 165/2001 (così modificato dall’art. 7, comma 1, lett. b, L. 6 agosto 2013, n. 97 Legge europea 2013), qui espressamente invocato dalla ricorrente, il quale stabilisce, al comma 1, che “I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”.

Il successivo comma 3 bis (anch’esso modificato dall’art. 7, comma 1, lett. b, L. 6 agosto 2013, n. 97 Legge europea 2013) prevede che le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano, “ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria”.

La legge n. 97/2013 ha, pertanto, esteso l’accesso al pubblico impiego, con i medesimi limiti previsti per i cittadini UE (introdotti con la riforma del pubblico impiego del 93), a determinate categorie di cittadini di paesi terzi, cioè ai familiari di cittadini UE non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ai cittadini di Paesi terzi lungosoggiornanti, ai titolari dello status di rifugiato ed ai titolari dello status di protezione sussidiaria.

L’estensione della disciplina è piena, con la conseguenza che i cittadini terzi appartenenti a dette categorie sono ammessi all’accesso al lavoro pubblico alle stesse condizioni riconosciute ai cittadini comunitari.

L’identità di regime applicabile impone che i criteri elaborati dalla Corte di Giustizia con riferimento ai cittadini UE debbano essere applicati in modo uniforme anche ai cittadini terzi appartenenti alle categorie citate.

Al di fuori di queste categorie, di contro, non è possibile estendere l’accesso al pubblico impiego agli stranieri, non esistendo un principio generale di ammissione dello straniero non comunitario al lavoro pubblico (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., n. 18523/2014).

All’esito della fase cautelare, si è pertanto già osservato che l’accesso al pubblico impiego, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza comunitaria, deve applicarsi ai cittadini comunitari, ai cittadini di paesi terzi familiari dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ai cittadini di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria.

Tra di essi, si ribadisce, rientra, pacificamente, l’odierna ricorrente, in quanto titolare di permesso di soggiorno di lungo periodo ed, anche, familiare di una cittadina italiana.

È noto che, ai sensi dell’art. 38, comma 2, d.lgs 165/2001 è, tuttavia, rimesso al D.P.C.M. ai sensi dell’art. 17 L. 400/88 l’individuazione dei posti e delle funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all’accesso dei cittadini di cui al comma 1.

Il D.P.C.M. n. 174/94 ha individuato i posti per i quali non può prescindersi dal requisito della cittadinanza sulla base di un criterio organizzativo-settoriale, comprendendo: lett. a) e b) la categoria dei dirigenti delle Amministrazioni dello Stato e strutture periferiche, enti pubblici non economici, Regioni e enti locali, Banca d’Italia; lett. c) le carriere (le magistrature, avvocati e procuratori dello stato); lett. d) intere Amministrazioni statuali (ruoli civili e militari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministeri degli Affari Esteri, dell’Interno, della Giustizia, della Difesa, delle Finanze).

Prevede inoltre le funzioni per le quali è richiesto il possesso della cittadinanza (quelle che “comportano l’elaborazione, la decisione, l’esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi” e “funzioni di controllo e legittimità”), riserva sottoposta

alla decisione, motivata caso per caso, da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Sicché, nonostante l’odierna ricorrente sia in possesso di permesso di soggiorno di lungo periodo e sia altresì familiare di una cittadina italiana, ad essa è stata inibita la partecipazione ai due Bandi di Concorso – rectius, per quanto ormai di residuo interesse, al bando di selezione per mediatore culturale – in quanto, secondo la prospettazione di parte resistente, trattasi di selezione per l’accesso ai ruoli civili del Ministero della Giustizia, per i quali, ai sensi del D.P.C.M. n. 174/94, non può prescindersi dal possesso del requisito della cittadinanza italiana.

Tuttavia, il criterio organizzativo posto dal comma 1 del DPCM citato, applicato al bando di concorso in esame, secondo il quale tutti i posti appartenenti al ruolo civile del Ministero della Giustizia richiedono il requisito della cittadinanza, così escludendo i cittadini UE (e gli altri cittadini di paesi terzi sopra indicati), senza ulteriori distinzioni in ordine alle specifiche mansioni e posizioni lavorative, non pare compatibile con la giurisprudenza Comunitaria illustrata e con l’elaborata nozione restrittiva e funzionale, che presuppone in modo abituale, e non occasionale, l’esercizio di pubblici poteri, inteso come esercizio di poteri di imperio o di coercizione collegati a funzioni di interesse pubblico generale.

A ben vedere, poi, anche nell’ordinamento nazionale, lo stesso articolo 38, d.lgs. n. 165/2001 non consente di ritenere lecita l’esclusione dei cittadini comunitari in relazione ad impieghi presso interi comparti delle pubbliche amministrazioni, posto che il comma 2 legittima l’intervento regolamentare per l’individuazione di posti e funzioni per i quali non possa prescindersi dalla cittadinanza italiana.

Invero, utilizzando la locuzione “i posti e le funzioni” il legislatore ha chiaramente voluto intendere la necessità di una specifica individuazione, rispettivamente, di posti in organico e di specifici ruoli e compiti all’interno di ciascuna singola amministrazione, con ciò escludendo che vi possano essere interi comparti amministrativi esclusi all’accesso dei lavoratori privi della cittadinanza italiana” (cfr., in termini, Tribunale di Milano, sez. Lavoro, sentenza n. 15759 dell’11/6/2018).

Si rende, quindi, necessario, conformandosi alla interpretazione comunitaria ed al disposto dell’articolo 38, comma 2, del D.Lgs. 165/2001, valutare in concreto (e non in astratto) se un determinato posto presso la P.A. costituisca o meno esercizio di pubblici poteri nei termini sopra illustrati.

Come già si è osservato, il CCNL del personale non dirigenziale del Ministero della Giustizia del 29/7/2010, colloca la figura professionale del Funzionario mediatore culturale, nella III Area Funzionale, fascia retributiva F1, nei ruoli del personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, prevedendo, quali specifiche professionali: “elevato grado di conoscenze ed esperienze teorico pratiche dei processi comunicativi e delle tecniche di comunicazione nelle relazioni d’aiuto in contesti multietnici e multiculturali; coordinamento, ove previsto, di gruppi di lavoro e di studio; svolgimento di attività di elevato contenuto tecnico, gestionale, specialistico con assunzione diretta di responsabilità dei risultati; autonomia e responsabilità nell’ambito di direttive generali”.

Quali contenuti dell’attività professionale, è indicato: “lavoratori che svolgono attività ad elevato contenuto specialistico, con assunzione di compiti di facilitazione della comunicazione tra gli utenti stranieri entrati nel circuito penale ed il complesso delle Istituzioni demandate all’esecuzione penale dall’Autorità giudiziaria. Lavoratori che partecipano ai processi di conoscenza e trattamentali riferiti agli utenti stranieri. Lavoratori che svolgono attività di mediazione tra le diverse culture nel rispetto del pluralismo delle diversità, nonché attività di progettazione e gestione degli interventi in area penale interna ed esterna a favore dell’utenza straniera, di concerto con tutte le altre professionalità, con l’obiettivo di favorire processi di integrazione ed inclusione sociale, nel rispetto delle linee di indirizzo degli obiettivi dell’ufficio definiti dal dirigente”.

Dalle specifiche professionali e dal contenuto della attività sopra riportati si evince che la figura professionale del Funzionario mediatore culturale opera sempre sulla base di istruzioni, nell’ambito degli obiettivi definiti dal rispettivo dirigente, sicché si tratta di attività ausiliarie, preparatorie all’esercizio di pubblici poteri, che non comportano l’esercizio di poteri decisionali e, piuttosto, lasciano inalterati i poteri di valutazione e di decisione dei responsabili degli uffici.

Sicché, sebbene il loro esercizio comporti la partecipazione obbligatoria al complessivo funzionamento dell’Amministrazione della Giustizia, non costituisce comunque partecipazione diretta e specifica all’esercizio dei pubblici poteri, in quanto i contatti con l’Autorità Giudiziaria lasciano inalterati i poteri di valutazione e di decisione di stretta pertinenza di quest’ultima.

Né, d’altro canto, inficia tale valutazione la previsione di cui all’articolo 19 bis della legge n. 142/2015, richiamata da parte resistente, la quale prevede la presenza del mediatore culturale al momento del primo colloquio del minore straniero non accompagnato con le Autorità di Polizia, essendo specificamente previsto che il personale presente agisca “sotto la direzione dei servizi dell’ente locale competente”, sicché in assenza dell’esercizio di poteri decisionali affidati al mediatore culturale.

Quest’ultimo, piuttosto, si caratterizza per essere un profilo professionale che resta escluso dai processi decisionali e risulta privo di qualsiasi potere di natura discrezionale, non implicando le mansioni di sua competenza l’esercizio di poteri di coercizione o d’imperio nei confronti di terzi, in funzione di interessi generali e non meramente tecnici o economici.

Nello stesso senso si è, di recente, espresso il Tribunale di Milano, il quale ha ritenuto che “è pacifico in causa che il mediatore culturale assume compiti di facilitazione della comunicazione tra gli utenti stranieri entrati nel circuito penale ed il complesso delle istituzioni demandate all’esecuzione penale dall’autorità giudiziaria, con un elevato grado di conoscenze ed esperienze teorico pratiche dei processi comunicativi e delle tecniche di comunicazione. È quindi fin troppo evidente che la categoria professionale in commento non può essere considerata rientrante (né direttamente né indirettamente) nell’alveo di quel complesso di pubbliche funzioni che sole giustificherebbero l’introduzione del requisito della cittadinanza italiana. Il fatto che il mediatore culturale possa anche svolgere funzioni di traduzione di domande e testi, con obbligo (certamente da intendersi anche nei confronti dell’autorità giudiziaria) di riportare fedelmente e autenticamente, così come di rapportarsi e cooperare nel rispetto dei medesimi principi con la amministrazione penitenziaria, non può certamente ritenersi, come invece sostenuto dal Ministero convenuto, compito che comporti esercizio dei pubblici poteri o comunque connesso ad un interesse nazionale. Trattasi semmai dello svolgimento di un complesso di attività senza dubbio dal contenuto professionale specialistico, altrettanto indubbiamente di supporto anche allo svolgimento di attività giudiziarie ma non per questo ad esse assimilabile” (Tribunale di Milano, sez. Lavoro, sentenza n. 15759 dell’11/06/2018).

Consegue alle superiori considerazioni l’accertamento della natura discriminatoria dell’articolo 3 del Bando di Concorso, nella parte in cui, in applicazione del

D.P.C.M. n. 174/94, richiede, quale requisito necessario per la partecipazione alla procedura selettiva, il possesso della cittadinanza italiana.

Tanto comporta la necessaria disapplicazione dell’art. 1 lett. d) del D.P.C.M. 7 febbraio 1994 n. 174, a cui rinvia l’art. 38 D.Lgs n. 165/2001, e della clausola di cui all’articolo 3 del Bando di Concorso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana il 9/2/2018, per incompatibilità con il diritto comunitario, così come ricavato dall’interpretazione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Cass. sez. L. Sent. n. 17966/2011) ed il conseguente ordine di ammissione della ricorrente alla procedura concorsuale, alle prove preselettive e, se superate, alle prove selettive del Bando di Concorso per 15 posti a tempo indeterminato per il profilo professionale di Funzionario mediatore culturale, III Area Funzionale, fascia retributiva F1, nei ruoli del personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (“bando mediatori culturali”).

Le spese di lite, anche della fase cautelare, vanno liquidate come in dispositivo alla luce della regola generale sulla soccombenza, nonché delle vigenti tabelle allegate al D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n. 37/2018, con riguardo allo scaglione di valore della causa, da distrarsi in favore dei procuratori, dichiaratisi antistatari.

P.Q.M.

Uditi i procuratori delle parti, definitivamente pronunciando, dichiara cessata la materia del contendere in relazione al bando di concorso per 250 posti a tempo indeterminato per il profilo professionale di Funzionario della professionalità di servizio sociale, III Area Funzionale, fascia retributiva F1, nei ruoli del personale del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità (“bando assistenti sociali”).

In accoglimento della residua domanda, ordina al Ministero della Giustizia di ammettere la ricorrente G.G.B.S. alla procedura concorsuale, alle prove preselettive e, se superate, alle prove selettive del Bando di Concorso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana il 9/2/2018 per 15 posti a tempo indeterminato per il profilo professionale di Funzionario mediatore culturale, III Area Funzionale, fascia retributiva F1, nei ruoli del personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Condanna il Ministero della Giustizia resistente alla refusione a parte ricorrente delle spese di lite, comprensive di quella della fase cautelare, che liquida in complessivi € 3.000, oltre rimborso forfettario spese generali, I.v.a. ec.p.a., come per legge, da distrarsi in favore dei procuratori, dichiaratisi antistatari.

Roma, 28 gennaio 2019

Il Giudice

Laura Cerroni