Ragionevoli adattamenti, licenziamento lavoratore portatore di handicap, discriminazione per motivi di handicap, Tribunale di Pavia, sentenza del 29.04.2020

Tribunale Ordinario di PAVIA Sezione Lavoro

Il Giudice del lavoro dott. Federica Ferrati

nel procedimento n. 108 /2020 RG promosso ex art. 1 commi 47 e 48 della L. 92/2012 da

……. rappresentato e difeso dagli avvti. GUARISO ALBERTO, BERGONZI DANIELE, NERI LIVIO

CONTRO

……In persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvti GIOVANNI BERTOLA, LORENZA BOSCARELLI e FRATTINI CLARA

letti gli atti e udite le conclusioni delle parti all’ udienza del 6.4.2020 a scioglimento della riserva assunta alla citata udienza osserva quanto segue.

 

Con ricorso al Tribunale di PAVIA, quale Giudice del Lavoro, ai sensi dell’art. 1,  comma     48,                 L.      92/2012,           depositato   in    data    28.1.2020

… ha convenuto in giudizio per  l’ accertamento della nullità, inefficacia, illegittimità o comunque l’annullamento del licenziamento intimatogli con lettera del 17.7.2019 e la condanna della parte convenuta alle conseguenze di cui all’articolo 18 Legge 300/70; con vittoria di spese

 

Si è ritualmente costituita in giudizio l’avversario…. contestando  in  fatto  e  in diritto ricorso; con vittoria di spese.

Il ricorso, per i motivi di seguito esposti, è fondato.

 

 

Il  ricorrente  veniva  assunto  da  –               in  data  3.15.2012  con  contratto  a  tempo determinato trasformato in contratto a tempo indeterminato dal 1.1.2014 con qualifica di operaio magazziniere inquadrato nel livello 2 CCNL Industria Metalmeccanica con orario a tempo pieno.

Il ricorrente è affetto da: postumi dell’intervento cardiochirurgico di correzione DIA, postumi dell’intervento chirurgico di obliterazione della safena, reflusso gastroesofageo, iperplasia prostatica benigna e postumi di gonartrosi al ginocchio sinistro (cfr. doc.10 all rie).

In ragione delle predette patologie, con verbale del 21.09.2017 la Commissione medica  per l’accertamento dell’invalidità civile presso l’ASL di Piacenza ha riconosciuto il ricorrente invalido civile con una invalidità del 46% (cfr. doc.10 all   rie).

Pacifico in quanto non contestato da parte convenuta che alla data di assunzione,  una  volta l’anno il ricorrente sia stato sottoposto a visita di idoneità alla mansione e, fino al giugno 2019, sia sempre stato giudicato idoneo alla mansione di   tornitore.

Non è stata depositata documentazione in senso  contrario.

In data 11.04.2019 la società convenuta ha chiesto al medico competente di sottoporre il ricorrente a una “visita medica urgente per cambio mansione” (cfr. doc.11  all  rie).

Il 12.04.2019 il ricorrente  è stato sottoposto ad una visita    del dott.       , il quale, con dichiarazione scritta del 12.04.2019 (doc.11 al rie), ha comunicato a -e        al ricorrente   di averlo visitato, “non esprimendo alcun giudizio di idoneità, ma subordinandolo a successiva valutazione di nuova mansione concordata con il datore di  lavoro”  e ritenendo che l’assegnazione di una diversa mansione dovesse essere subordinata alle seguenti caratteristiche:

  • “attività con carico lavorativo  leggero,
  • con esecuzione di operazioni semplici,
  • senza ritmi imposti dal ciclo produttivo,
  • evitando la stazione eretta prolungata,
  • a esclusivo orario mattutino,
  • con pause ogni 2 ore per necessità di alimentazione frazionata” .

Il medico invitava il datore di lavoro “a identificare per il dipendente la mansione con le descritte caratteristiche, vincolanti relativamente alla compatibilità con lo stato di salute del dipendente, al fine di esprimere il conseguente giudizio di idoneità” (cfr. doc.11 all rie).

Il giorno 18.04.2019 ha promosso dinanzi all’ITL di Pavia la procedura ex art. L. 604/66 cosi motivando:

“sopravenuta  inidoneità  fisica allo svolgimento  delle mansioni  come da referto del medico del lavoro del 12 aprile 2019, relativo alla visita svoltasi il giorno 12 aprile. Si precisa che negli  ultimi anni, ha già modificato in più occasioni le mansioni  del  signor al fine di renderle compatibili con il suo precario stato di salute, giungendo così ad assegnargli quelle attuali. L’impossibilità del lavoratore di svolgere le sue mansioni e le caratteristiche delle mansioni compatibili, indicate dal medico del lavoro, fanno sì che, nell’intera azienda, non vi siano compiti disponibili da poter assegnare al signor                                        ai quali egli potrebbe adattarsi. …. è pertanto costretta ad attivare la presente procedura di licenziamento” (cfr. doc.12 al ricorso).

Il 16.05.2019 si è svolto dinanzi all’ITL di Pavia l’incontro ex art. 7 L. 604/66 – al quale il ricorrente ha partecipato conclusosi senza il raggiungimento di alcun accordo (cfr. doc.13 all rie). Non ha però proceduto al licenziamento del ricorrente, né risulta abbia disposto alcun mutamento di mansioni né di orario di lavoro né di modalità di lavoro.

In data 01.07.2019 il ricorrente è stato nuovamente sottoposto a visita medica del dott. T, il quale lo ha ritenuto “permanentemente non idoneo alla mansione di tornitore, limitandosi, quanto alle ragioni di tale giudizio, a richiamare la propria dichiarazione del 12.04.2019  (cfr. doc.14 all ricorso).

Lo stesso giorno     ha promosso nuovamente dinanzi all’ITL di Pavia la procedura ex art. 7 L. 604/66 così motivando: “sopravvenuta inidoneità fisica allo svolgimento delle mansioni come da referto del medico del lavoro del 1° luglio 2019, relativo alla visita svoltasi lo stesso giorno. Si precisa che la visita è stata richiesta a integrazione di quella del 12 aprile 2019, all’ esito della quale  già si tenne un tentativo di conciliazione  con mancato accordo il    16 maggio 2019. Considerate le contestazioni del lavoratore, ha  chiesto una ulteriore  verifica  medica,  che ha confermato  l’inidoneità  del  signor allo   svolgimento delle sue mansioni. Non vi sono presso mansioni disponibili compatibili con lo stato di salute del lavoratore. …., è pertanto costretta ad attivare la presente procedura di licenziamento”  (cfr.  doc.15  all rie).

Il 16.07.2019 si è svolto dinanzi all’ITL di Pavia il secondo incontro ex art. 7 L. 604/66, conclusosi  senza il raggiungimento di alcun accordo (cfr. doc.16 all   rie).

Con lettera del 17.07.2019 la società convenuta ha licenziato il ricorrente per la sua asserita  “sopravvenuta                  inidoneità allo svolgimento    delle  mansioni  di tornitore” comunicando che il rapporto di lavoro avrebbe dovuto ritenersi risolto a far tempo dal 03.07.2019  (cfr. doc.17 all rie).

Pacifico che nel febbraio  2019  il  ricorrente fosse stato trasferito  nel reparto imballaggio (a detta della convenuta nel reparto montaggio) e per due giorni avesse svolto mansioni all’interno di questo reparto con riferimento  a pezzi  metallici  di  peso non superiore a 7    kg e da seduto per poi essere riadibito alle     mansioni di  tornitore.

La società deduce in memoria di aver ritenuto le condizioni fisiche del signor  …. incompatibili con l’attività svolta nel reparto montaggio per molteplici ragioni: perché i pezzi del peso di 7 kg rappresentano  una minima parte dei pezzi oggetto di lavorazione  nel reparto, perché lo stesso non possiede le necessarie competenze tecniche per l’esecuzione di tale complessa attività – che  richiede,  ad esempio,  la capacità  di  lettura del disegno tecnico del prodotto di volta in volta assemblato, e in quanto la necessità di stare seduto e di effettuare frequenti pause per riposare e per alimentarsi rallenta ulteriormente il suo lavoro, generando ritardi che si ripercuotono sui processi successivi, con il rischio  di paralisi dell’intero  ciclo produttivo.

All’udienza fissata per la discussione il giudice ha esperito il tentativo di conciliazione proponendo la riassunzione in regime di part time o in alternativa il pagamento della somma lorda di euro 20000 oltre ad un concorso nelle spese   legali.

Il ricorrente ha accettato entrambe le proposte del giudice, il legale rappresentante della società non ha aderito a nessuna delle due proposte.

In diritto, devono innanzitutto richiamarsi i principi sanciti dalla Corte di Giustizia  Europea nella causa C – 312/11 promossa dalla Commissione Europea proprio contro la Repubblica italiana e relativa all’inadempimento all’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000.

Deve innanzitutto evidenziarsi che in  tale sentenza  si è innanzitutto  definito  il concetto di disabile di cui all’art. 5 della citata direttiva da intendersi, anche alla luce della convenzione dell’Onu, nel senso che si riferisce ad una limitazione risultante  in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di  uguaglianza  con  gli  altri lavoratori  (punto 56).

È tuttavia vero che in tale provvedimento si riconosce come l’articolo 42 del decreto legislativo n. 81 del 2008 fornisca applicazione alla direttiva prevedendo un obbligo in capo al datore di lavoro di adeguamento  delle mansioni alla disabilità   dell’interessato.

Fermo restando che la direttiva in commento non ha certamente natura self executing, nondimeno essa fornisce un criterio non solo per interpretare correttamente la nozione di disabilità, ma anche per individuare  gli obblighi  che possono essere configurati  in capo  al datore di lavoro e, in particolar modo, per quanto concerne le misure da adottare per garantire e preservare lo svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti disabili e il necessario contemperamento delle necessità organizzative aziendali;  tale  profilo  (che  può  senza   dubbio   essere   ricondotto,   nell’ordinamento  interno,   al   principio   di  cui nall’articolo 41 Costituzione) viene individuato, con una espressione senza dubbio di immediata comprensione,  nel limite dell’onere sproporzionato.

In altri termini, può senza dubbio dirsi che il datore di lavoro abbia uno stringente obbligo di valutare ed eventualmente individuare, nell’ambito della propria organizzazione lavorativa, mansioni che il lavoratore disabile (nell’accezione, giova ancora una volta ribadirlo, sopra evidenziata) possa utilmente disimpegnare, fermo restando che tale obbligo non può arrivare a comportare lo stravolgimento del contesto organizzativo.

In concreto, è evidente, pertanto, che il contesto aziendale, il numero di dipendenti e l’articolazione della prestazione e le concrete modalità di svolgimento della stessa rappresentino elementi da ponderare adeguatamente nel valutare se il datore di lavoro abbia o meno adempiuto ai propri obblighi.

Conseguentemente, a fronte della sopravvenuta inidoneità del lavoratore {portatore di handicap) alle specifiche mansioni, il datore di lavoro non può – per ciò solo – licenziare il dipendente divenuto inabile, ma è tenuto a ricollocarlo in altre mansioni provvedendo ad adottare soluzioni ragionevoli. Tanto maggiore e articolato sarà il contesto organizzativo tanto più stringente, deve ritenersi, saranno gli obblighi che possono pretendersi dal datore di lavoro stesso. Il principio in commento ha peraltro trovato ingresso nell’ordinamento  interno  in  forza delle previsioni dell’articolo 3, comma 3 bis, Dlgs 216/03 come modificato dal DL 76/16 dove è espressamente previsto che: Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente.

Ritiene innanzi tutto il giudice che, alla luce del grave quadro patologico sopra richiamato ed indipendente dal riconoscimento del ricorrente quale soggetto portatore di handicap ex d.lgs. 104/1992, le limitazioni della capacità del ricorrente possano essere qualificate come disabilità ai sensi della direttiva sopra citata .

In tal senso, va ricordato come la Corte di giustizia Unione europea abbia sottolineato anche in recentissime decisioni che secondo la giurisprudenza della Corte la   nozione di handicap, ai sensi della direttiva 200/78, deve essere intesa come riguardante una limitazione di capacità risultante in particolare da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche , che , in interazione con barriere  di diversa  natura  , può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori … ” ( punto 28 della sentenza 18.1.2018 n. 270/16 Sez. III Corte Giustizia Unione europea  )

Si ritiene dunque che nella fattispecie possa affermarsi che le patologie del ricorrente implichino quanto meno una difficoltà ( cfr. punto 30 della sentenza appena citata ) nell’esercizio della sua attività lavorativa.

Premesso ciò, va osservato che secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni assegnate determina l’illegittimità del licenziamento qualora il datore di lavoro non provi, in giudizio, l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, di pari livello o di livello inferiore, nel rispetto dell’organigramma aziendale, sempre che l’attività di quest’ultimo  sia utilizzabile all’interno dell’impresa, senza bisogno di dover procedere al trasferimento  o alla modifica delle mansioni assegnate agli altri lavoratori, considerando, altresì, che il datore di lavoro non è tenuto ad adottare particolari misure, che vadano oltre il dovere di sicurezza imposto dalla legge, al fine di porsi in condizione di cooperare all’accettazione della prestazione lavorativa di soggetti affetti da infermità (cfr.Cass.Sez. L., Sentenza n. 20497/2018; sentenza n 29250 del 06/12/2017;Cass.Sez. L, Sentenza n. 12489 de I 17/06/2015;Cass.Sez. L, Sentenza n. 4757 del 2015;Cass.Sez. L, Sentenza n. 8832 de 1 18/04/2011).

Inoltre “In tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di “handicap”, sussiste l’obbligo della previa  verifica,  a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro – purché comportanti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro dei colleghi dell’invalido – ai fini della legittimità del recesso, in applicazione  dell’art. 3, comma  3  bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata e conforme agli obiettivi  posti  dal predetto art. 5″ (così Cass. Sez. L – , 26/10/2018 n.  27243).

Nella stessa pronuncia la Suprema Corte ha precisato che “la necessità di bilanciare la tutela degli interessi, costituzionalmente rilevanti (artt. 4,32,36 Cost.) del prestatore con  la libertà di iniziativa  economica  dell’imprenditore (garantita  dall’art. 41 Cost. e  definita come diritto fondamentale dagli artt. 15 e 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la “Carta di Nizza”), comporta che l’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, ad attività diverse e riconducibili alla stessa mansione, o ad altra mansione equivalente, o anche a mansione inferiore, può essere rifiutata legittimamente dall’imprenditore se comporti (non meri aggravi organizzativi, come statuito da Cass. S.U. n. 7755 del 1998, bensì) oneri organizzativi eccessivi (da valutarsi in relazione alle peculiarità dell’azienda ed alle relative risorse finanziarie) e, in particolare, se derivi, a carico di singoli colleghi dell’invalido, la privazione o l’apprezzabile modificazione delle modalità di svolgimento della loro prestazione lavorativa che comportino l’alterazione della predisposta organizzazione aziendale”.

Vedi anche la successiva recentissima sentenza n 13649/2019: “In tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di “handicap”, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte “ratione temporis” alla applicazione dell’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell’art. 5 della Dir. 2000/78/CE, dall’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5, considerato l’obbligo del giudice nazionale di offrire una interpretazione del diritto interno conforme agli obiettivi di una direttiva anche prima del suo concreto recepimento e della sua attuazione.(Nella specie, la S.C. ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad un dipendente – dichiarato inidoneo alle mansioni di autista ed adibito, inizialmente, a compiti di aiuto meccanico e, successivamente, a mansioni di addetto alle pulizie, per essersi il medesimo rifiutato  di svolgere tali ultime mansioni – sul rilevo che la stessa società datrice aveva dimostrato di poter adibire il lavoratore ai predetti compiti, compatibili con le menomazioni fisiche ed in adempimento dell’obbligo di adozione di accorgimenti ragionevoli esigibili).

Ebbene, nel caso di specie anche a dare per pacifico che il ricorrente – in forza delle proprie condizioni di salute nonché delle limitazioni disposte dal medico competente – non potesse più svolgere mansioni di tornitore, non risulta adeguatamente provata la dichiarata impossibilità di riutilizzare il lavoratore presso il reparto montaggio, senza riscontrare quell’aggravio organizzativo potenzialmente lesivo sia per i colleghi del lavoratore, che per la sicurezza finanziaria dell’impresa, capace di determinare un onere eccessivamente gravoso, tale da superare comprensibilmente la soglia della buona fede e fare ritenere, in concreto, sussistente la volontà del datore di lavoro di evitare il licenziamento.

Il predetto obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli incide sulla  libertà  di  iniziativa privata del datore di lavoro (ex art. 41 Cost.), quale conseguenza di  un  compiuto bilanciamento di opposti interessi costituzionalmente garantiti, imponendo un ulteriore limite alla stessa.

Sussiste, pertanto, in capo al datore di lavoro un obbligo generale di adottare tutte quelle misure – “accomodamenti ragionevoli” – atte a evitare il licenziamento, anche quando queste incidano sull’organizzazione dell’azienda, con il solo limite dato dall’eventuale sproporzione degli oneri a carico dell’impresa, sproporzione che dovrà essere oggetto di puntuale e rigorosa prova a carico del datore di  lavoro.

Non si tratta allora di valutare l’impossibilità di repechage  facendo  riferimento  ai  normali criteri (statici) vigenti in sede di recesso per gmo, ma – in caso di sopravvenuta inidoneità – il datore di lavoro (al quale è imposto ex lege un quid pluris rispetto all’individuazione di mansioni equivalenti sussistenti in organico) deve provare l’impossibilità di adottare accomodamenti ragionevoli al fine di assegnare mansioni alternative al lavoratore divenuto inabile a seguito di  handicap.

Tale quid pluris impone quindi al datore di lavoro di incidere sull’organizzazione  aziendale, apportando tutte quelle modifiche necessarie (non richiedenti ”un onere finanziario sproporzionato”) per poter rendere possibile al lavoratore inidoneo di rendere  la prestazione  lavorativa.

Nel caso di specie, il datore di lavoro non ha né  adeguatamente  allegato  né adeguatamente offerto di provare la propria impossibilità di adibire il lavoratore alle mansioni di montaggio, né l’impossibilità, a tal fine, di adottare ragionevoli accomodamenti  organizzativi.

Sul punto non sono state fornite idonee allegazioni e istanze   istruttorie.

Esaminando nello specifico le limitazioni indicate dal  medico competente  (doc.11  all rie) in relazione alle mansioni di montaggio si può rilevare quanto   segue:

  • “attività con carico lavorativo leggero”: come esposto in narrativa, il peso dei pezzi lavorati nel  reparto  montaggio  di … parte  dai  7    La  prescrizione medica  può dunque essere rispettata semplicemente adibendo il ricorrente alla lavorazione dei pezzi più leggeri. Tale riduzione del contenuto delle mansioni  risulta  perfettamente  in linea con l’adattamento della “ripartizione dei compiti” indicato dalla giurisprudenza europea sopra citata.  Nel caso in cui in cui i pezzi  leggeri  siano in  numero  non   particolarmente elevato potrebbe essere ridotto l’impegno lavorativo del ricorrente con la trasformazione del contratto a tempo pieno in contratto a tempo parziale. Irrilevante che il peso dei pezzi in metallo arrivi sino a 140 kg e il peso dei pezzi assemblati anche a 350 kg (cap 13, 21,22 mem cost) quando la norma (Dlgs 81/2008) che disciplina la movimentazione manuale dei carichi stabilisce che il peso massimo sollevabile in condizioni ottimali per gli uomini di età superiore ai 50 (come nel caso del ricorrente all’epoca dei fatti in discussione) il peso massimo raccomandato era di 16Kg per le movimentazioni occasionali e 12 Kg per quelle frequenti,
  • “con esecuzione di operazioni semplici”: l’attività di pulizia e montaggio di piccoli pezzi non richiede il compimento di operazioni complesse. In ogni caso la società potrebbe inserire il lavoratore in un corso di formazione professionale.
  • “senza ritmi imposti dal ciclo produttivo”: il ritmo di lavoro, come osservato dalla Corte di Giustizia, è certamente una delle condizioni che possono essere adattate a favore del ricorrente, fissando obiettivi di produzione diversi rispetto a quelli previsti per gli altri dipendenti .
  • “evitando la stazione eretta prolungata” e “con pause ogni 2 ore per necessità di alimentazione frazionata”: la società convenuta può certamente consentire al ricorrente di intervallare l’attività lavorativa con delle pause e dotarlo di una sedia, di modo che possa svolgere le mansioni seduto ( a nulla rileva l’attività sia “priva di interruzioni” e che gli altri dipendenti lavorino in piedi: cap 23 e 26 mem cost)
  • “a esclusivo orario mattutino”: la società convenuta già aveva adibito il ricorrente al solo turno del mattino.

Quanto alla deduzione dell’accumulo di ritardi nei due giorni di febbraio 2019, nel reparto montaggio e nelle fasi successive al montaggio (in particolare, quella di collaudo), a parte la genericità della deduzione, si potrebbe ovviare riducendo il suo orario di lavoro a tempo parziale.

La convenuta nulla ha dedotto circa la impossibilità di ridurre l’orario di lavoro del ricorrente.

Gli accomodamenti descritti – rientranti nel novero dei provvedimenti esigibili dal datore di lavoro ex art. 5 cit. secondo la giurisprudenza sopra richiamata – sarebbero  stati sufficienti a rendere il ricorrente idoneo a svolgere le mansioni a lui richieste e in tal modo ad evitarne il licenziamento.

Mancando la doverosa adozione delle soluzioni ragionevoli il licenziamento rimane intimato “a causa” dell’invalidità del ricorrente ed è per ciò stesso illegittimo e nullo in quanto discriminatorio.

Non averla adottata costituisce allora violazione del generale principio di parità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap posto dalla direttiva 2000/78 e nell’ordinamento interno dal D.L.vo 216/2003, senza che, come già detto, rilevi in alcun modo l’esistenza o la prova di un soggettivo intento della società di discriminare il ricorrente,  il divieto di discriminazione operando  obiettivamente.

D’ altra parte, necessariamente concorrendo, come pure sopra esposto, il principio  paritario di cui alla citata direttiva a regolamentare il potere datoriale di recesso, deve escludersi che si dia nella specie l’affermato giustificato motivo oggettivo, residuando nell’organizzazione aziendale mansioni utilmente attribuibile all’attrice previa adozione  del ragionevole accomodamento di cui si è appena  detto.

Determinata l’insussistenza del giustificato motivo, dalla violazione del principio di non discriminazione deriva la nullità del licenziamento e alla pronuncia devono seguire le conseguenze sanzionatorie di cui ai primi due commi dell’art. 18 della L. 300/1970 nel testo modificato dalla L. 92/2012.

La società convenuta deve essere pertanto condannata a reintegrare  il  ricorrente  nel posto di lavoro ed a corrispondergli tante mensilità dell’ultima retribuzione  globale  di fatto (indicata la retribuzione parametro senza contestazione in €  1653,39  mensili)  quante ne decorreranno dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal ricorrente medio tempore in conseguenza di rapporti  di lavoro instaurati con terzi, e maggiorato il dovuto di accessori ex art. 429   c.p.c.

Alla decisione segue ex lege la condanna della convenuta alla regolarizzazione della posizione previdenziale del ricorrente.

Le spese seguono la soccombenza.

Pqm

Il giudice del lavoro, visto l’art. 1 comma 48 e segg. della L. 92/2012, ogm  altra  domanda ed eccezione disattesa:

dichiara la nullità del licenziamento  di cui è causa in quanto discriminatorio e condanna  la convenuta a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro ed a ed a corrispondergli tante mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (indicata la retribuzione parametro in € 1653,39 mensili) dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito medio tempore in conseguenza di rapporti  di lavoro instaurati con terzi, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze a decorrere dalla data del licenziamento e fino al  saldo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Condanna la convenuta alla regolarizzazione della pos1z10ne previdenziale del ricorrente.

Dichiara tenuta e condanna parte convenuta alla rifusione delle spese di lite del ricorrente che liquida in euro 4000 per compenso professionale, euro 259 per c.u. oltre 15% per spese generali, IVA e CPA come per legge.

Si comunichi.

Pavia 29.4.2020

Il giudice del lavoro Federica Ferrati