Indennità di maternità, discriminazione di genere, Corte di Cassazione, Sentenza 16 novembre 2017

Fatti di causa

L’avvocata M.B., iscritta all’Albo degli avvocati ed anche insegnante scolastico di ruolo part-time, lamentava avanti il Giudice del lavoro di Arezzo il rigetto della domanda di corresponsione da parte della Cassa forense dell’indennità di maternità, a seguito del parto avvenuto il 15 settembre 2004, motivato dalla circostanza che tale indennità era già stata erogata dall’INPDAP in virtù del rapporto di lavoro con il M.I.U.R.

Il Tribunale accoglieva integralmente la domanda e la Corte d’appello di Firenze, con sentenza del 5.5.2011, accoglieva l’appello proposto dalla Cassa limitatamente alla condanna al pagamento degli accessori sul credito mediante il cumulo di interessi e rivalutazione.

La Corte territoriale rilevava che il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 71 nel richiedere all’iscritta alla Cassa di dichiarare l’inesistenza di altro trattamento per maternità non intendeva di certo escludere la possibilità di un cumulo delle prestazioni o che la prestazione non dovesse essere concessa alla lavoratrice che avesse percepito il trattamento da parte di altro Ente in virtù dì altro rapporto di lavoro autonomo o dipendente; la Corte aggiungeva che questa era l’unica interpretazione ammissibile sul piano costituzionale giacché la Corte costituzionale aveva posto in evidenza la necessità di garantire alla gestante la massima sicurezza economica e tale fine, in caso di impiego part- time, legittimava una doppia erogazione.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la Cassa con unico motivo illustrato da memoria. M.B. ha depositato procura speciale.

Motivi della decisione

1. Con unico ed articolato motivo si deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 70 e 71 giacché tali disposizioni, ad avviso della Cassa ricorrente, implicano necessariamente il divieto di cumulo tra prestazioni, come dimostrano sia l’obbligo di autocertificare il non godimento di altro trattamento per lo stesso titolo, che la peculiare modalità di calcolo dell’indennità prevista per le libere professioniste con la previsione di una soglia minima e massima non compatibile con la contemporanea erogazione di ulteriori prestazioni di maternità e l’insussistenza di una garanzia costituzionale spinta sino al mantenimento dell’intero reddito durante il periodo di astensione obbligatoria; dunque, l’interpretazione offerta dalla Corte territoriale delle norme prima ricordate si manifesta non coerente con le indicazioni della Corte di cassazione e della Corte delle leggi. L’interpretazione offerta dalla Corte territoriale della normativa in materia, ad avviso della ricorrente, è pure in contrasto con la formulazione letterale del citato D.Lgs. del 2001, art. 71 che non consente alla Cassa di erogare il trattamento di maternità allorché la lavoratrice abbia già goduto per lo stesso titolo di un trattamento a carico di altro ente previdenziale come nel caso di specie, avendo l’Avv.to B. già ottenuto la provvidenza in parola dall’INPDAP in virtù di un rapporto di lavoro part-time nel comparto scuola.

2. Il motivo, come già affermato da questa Corte con le sentenze nn. 15072 e 15731/2013, appare fondato e pertanto va accolto. Il thema decidendum è la retta interpretazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 71 che così recita al comma 1; “l’indennità di cui all’art. 70 è corrisposta, indipendentemente dall’effettiva astensione dell’attività “dalla competente cassa” a partire dal compimento del sesto mese di gravidanza ed entro il termine perentorio di 180 gg. dal parto”. Al comma 2 si aggiunge “la domanda, in carta libera, deve essere corredata da certificato medico comprovante la data di inizio della gravidanza e quella presunta del parto, nonché dalla dichiarazione redatta ai sensi del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 attestante l’inesistenza del diritto alle indennità di maternità di cui al Capo 2 ed al Capo 11”. Ora, alla luce delle due norme, il diritto in parola può essere richiesto a condizione che la lavoratrice ne faccia domanda, documenti idoneamente lo stato di gravidanza e la data presunta del parto ed attesti con dichiarazione ad hoc l’inesistenza di altro trattamento di maternità come lavoratrice pubblica o autonoma. Si tratta, sotto quest’ultimo profilo, di un requisito essenziale per l’erogazione della prestazione posto che l’art. 71 dispone che la domanda “deve essere corredata”: la finalità della norma è in piena evidenza quella di evitare il cumulo di prestazioni da parte di più enti previdenziali per lo stesso evento e cioè la situazione di maternità, come peraltro previsto anche per altre prestazioni di natura assistenziale o previdenziale.

3. La formulazione della norma appare del tutto chiara ed univoca e non consente una interpretazione diversa dall’impossibilità di godere del trattamento previsto dall’art. 70 nel caso in cui la richiedente goda già di una prestazione di altro ente in quanto, diversamente opinando, la disposizione sarebbe inutiliter data e non avrebbe alcuna utilità; l’argomento per cui l’art. 70 non implicherebbe alcun divieto di cumulo tra prestazioni erogate da più enti per lo stesso titolo è privo di pregio in quanto l’art. 70 definisce i termini della prestazione, mentre l’art. 71 regola in dettaglio le condizioni di erogazione tra le quali, in particolare, che si documenti – attraverso una autocertificazione – l’insussistenza di prestazioni per la maternità già concessi in virtù di diversi rapporti assicurativi.

4. Infine non possono condividersi i dubbi di legittimità costituzionale della norma in discorso, una volta interpretata alla luce del suo univoco significato letterale e sistematico, in relazione all’art. 3 Cost. e art. 31 Cost., comma 2, (ed anche in riferimento agli artt. 32 e 37 Cost.) i posto che la giurisprudenza costituzionale ha precisato che l’indennità di maternità “serve ad assicurare alla madre lavoratrice la possibilità di vivere questa fase della sua esistenza senza una radicale riduzione del tenore di vita che il suo lavoro le ha consentito di raggiungere e ad evitare che alla maternità si ricolleghi una stato di bisogno economico” (Corte cost. nn. 1/1987, n. 276/88, n. 332/88, n. 61/91, n. 132/91, n, 423/95; n. 3/98), ma che l’orientamento della Corte delle leggi così come ricostruito nello stesso provvedimento impugnato parla di una “radicale” riduzione del tenore dello vita, nonché di uno stato di bisogno, situazioni che quindi certamente non coincidono automaticamente con una determinazione dell’indennità in una misura ridotta rispetto alla precedente retribuzione goduta prima dello stato di gravidanza. Lo stesso concetto di “tenore di vita” (cfr. sentenza n. 3/1998) non è sovrapponibile a quello di livello retributivo goduto in senso stretto, essendo valutabile nel suo complesso e tenuto conto di plurimi elementi di giudizio.

5. Peraltro, non è neppure automaticamente estensibile al caso in esame la giurisprudenza formatasi in gran parte in ordine alle prestazioni di maternità godute in relazione ad una singola professione o ad un singolo -il rapporto di lavoro autonomo o subordinato, poiché, nel presente giudizio, si discute del vantato cumulo tra prestazioni per maternità provenienti da enti diversi per tipologie di lavoro diverso (professionale e di dipendenza pubblica).

6. Si deve anche ricordare che questa Corte, in relazione proprio all’indennità di maternità dovuta alle libere professioniste, ha osservato che la determinazione del sistema indennitario “rientra nella discrezionalità del legislatore che è libero di modulare diversamente nel tempo e a seconda delle categorie di lavoratrici madri, il livello di tutela della maternità con misure di sostegno legate a fattori di variabilità incidenti ora sulla salvaguardia del livello di reddito delle fruitrici dell’indennità ora ad esigenze di bilancio, tenuto conto dell’incidenza quantitativa delle erogazioni che, per quanto riguarda la professione legale, è mutata rispetto ai primi anni di applicazione della legge” (Cass. n. 22023/2010).

7. L’evoluzione della medesima normativa in esame per effetto della legge n. 289/2003 mostra peraltro, essendo stata introdotta una misura massima per le l’indennità di maternità in favore delle libere professioniste, la mancanza di correlazione stretta tra livelli retributivi goduti (e contributi erogati) e la misura della prestazione di maternità. Infine, la considerazione per cui la lavoratrice in concreto abbia subito una riduzione molto sensibile del tenore di vita precedentemente goduto in quanto ha ottenuto la sola prestazione a carico dell’INPDAP in relazione ad un rapporto part-time, non appare risolutiva per decidere la presente controversia in quanto ciò è avvenuto per scelta della stessa ricorrente che non ha optato per il trattamento offerto dalla Cassa, ma per quello dell’ente di previdenza pubblico, senza quindi usufruire degli ingenti (secondo la difesa della lavoratrice) contributi professionali versati. Ma questa conseguenza è stato il frutto di una decisione della stessa lavoratrice che – secondo la decisione impugnata – ha presentato domanda alla Cassa dopo aver già ottenuto il trattamento INPDAP e quindi senza una preventiva informazione sulla normativa del settore che avrebbe, con ogni probabilità, evitato questa penalizzante soluzione.

8. Si deve quindi cassare la sentenza impugnata e, non necessitando la controversia ulteriori approfondimenti istruttori, può decidersi la causa nel merito con il rigetto della domanda.

9. Stante l’assenza di precedenti di legittimità all’epoca di proposizione del ricorso, sussistono giusti motivi per compensare le spese tra le parti dell’intero processo.

P.Q.M.

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Dichiara compensate le spese dell’intero processo.