Discriminazione di genere, onere della prova, Corte di Cassazione, ordinanza n. 20253/2021

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1197/2018 proposto da:

AUTOSTRADA BRESCIA-VERONA-VICENZA-PADOVA S.P.A., cessionaria da A4 Holding S.P.A. (già AUTOSTRADA BRESCIA-VERONA-VICENZA-PADOVA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato MATTEO RUSSO, che la rappresenta difende unitamente all’avvocato SERGIO RUSSO;

– ricorrente principale –

L.O., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NOMENTANA, 257, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO LIMATOLA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati GILDA PISA, CLAUDIO DAMOLI, ENZO PISA, OSVALDO CANTONE, ANDREA DELL’OMARINO, LORENZO CANTONE;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

AUTOSTRADA BRESCIA VERONA VICENZA PADOVA S.P.A.;

– ricorrente principale – controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 735/2016 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 24/06/2017 R.G.N. 497/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 18/11/2020 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI.

Svolgimento del processo

Che:

1. con sentenza 24 giugno 2017, la Corte d’appello di Venezia rigettava l’appello principale di Autostrada Brescia – Verona – Vicenza – Padova s.p.a. e incidentale di L.O. avverso la sentenza di primo grado, di accertamento del diritto della seconda all’inquadramento nel livello A del CCNL dipendenti concessionari autostrade dal 18 giugno 1999 ed al corrispondente trattamento dal 18 giugno 2004, con la condanna della società datrice al versamento delle relative differenze retributive dal 18 giugno 2004 alla data della sentenza, oltre rivalutazione e interessi; nonchè di accertamento dell’adibizione della lavoratrice dal 1 dicembre 2000 al novembre 2001 a mansioni dequalificanti rispetto alle precedenti e di condanna della società al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio di danni patrimoniali e non, della somma di Euro 9.746,00, pari al 40% della retribuzione lorda percepita nel periodo, rigettandone le altre domande risarcitorie per condotte discriminatorie in suo danno;

2. in esito ad argomentato scrutinio delle risultanze istruttorie, la Corte territoriale ribadiva la spettanza alla lavoratrice, nella comparazione con il livello A1 di sua attribuzione, dell’inquadramento nel livello A del CCNL applicato e così pure del risarcimento del danno, liquidato nella ricorrenza dei suoi presupposti in via equitativa, derivante dall’accertato demansionamento per l’assegnazione alla predetta, al rientro dal periodo di maternità, di compiti amministrativi di predisposizione di ordini di acquisto, in staff di contabilità lavori sotto la responsabilità di un collega, deteriori rispetto ai precedenti, di capo di un Servizio costituito da più uffici di cui aveva coordinato il personale;

3. la stessa Corte escludeva peraltro la natura discriminatoria del comportamento datoriale per difetto di prova, in assenza degli elementi di fatto idonei e pur tenuto conto dell’attenuazione dell’onere prevista per legge a carico della parte deducente: per tale ragione rigettando l’appello incidentale di L.O.;

4. con atto notificato il 27 dicembre 2017, la società ricorreva per cassazione con tre motivi, cui la lavoratrice resisteva con controricorso contenente ricorso incidentale articolato su unico motivo, cui la prima replicava con controricorso;

5. entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 380bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione

Che:

1. la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 41 Cost., comma 1, art. 2103 c.c., artt. 19 e 21 CCNL Autostrade, per l’erroneo inquadramento della lavoratrice nel superiore livello A, in assenza di un accertamento delle effettive mansioni svolte (essendo irrilevanti le valorizzate circostanze del conferimento di incarico di capo del servizio tecnico amministrativo e di inquadramento degli altri capi di servizio nel livello A) e soprattutto dell’effettivo grado di autonomia decisionale, facoltà di iniziativa e di responsabilità (“diretta su obiettivi e su risultati aziendali” richiesta dal livello A) comportate dalla maggiore qualifica rivendicata, pure integrata da “attività di rilevante importanza per l’azienda” ed esigente un “alto grado di competenze specialistiche e/o manageriali” (primo motivo);

2. esso è inammissibile;

2.1. è noto che il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato si sviluppi in tre fasi successive, consistenti: a) nell’accertamento in fatto delle attività lavorative concretamente svolte; b) nell’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria; c) nel raffronto tra i risultati di tali due indagini. E che, ai fini dell’osservanza di tale procedimento, sia necessaria, pur senza rigide formalizzazioni (Cass. 27 settembre 2016, n. 18943), la scansione di ciascuno dei suddetti momenti di ricognizione e valutazione nel ragionamento decisorio; in caso contrario, configurandosi il vizio di error in iudicando, per errata applicazione dell’art. 2103 c.c. (Cass. 27 settembre 2010, n. 20272; Cass. 28 aprile 2015, n. 8589; Cass. 22 novembre 2019, n. 30580);

2.2. la Corte territoriale ha fatto una corretta applicazione del procedimento trifasico, individuando i livelli di inquadramento in comparazione (A e A1 del CCNL applicabile), procedendo al loro raffronto, sia per i requisiti di competenze richiesti dalle attività, sia per il rispettivo grado di autonomia e di responsabilità, anche attingendo ai profili professionali e quindi qualificando, in esito a tale indagine, le mansioni concretamente svolte dalla lavoratrice di responsabile, in qualità di capo, del servizio tecnico amministrativo del settore viabilità (per le ragioni esposte a pgg. 9 e 10 della sentenza). In tale operazione di individuazione del corretto livello di inquadramento, essa ha anche verificato la loro corrispondenza (per relationem alle prove orali assunte dal Tribunale, riportate nei passaggi rilevanti dal primo capoverso di pg. 4 al secondo alinea di pg. 5 della sentenza) all’incarico formalmente conferitole dalla società con lettera del Direttore Generale del 17 luglio 1995;

2.3. sicchè, l’accertamento della natura delle mansioni concretamente svolte dalla dipendente, ai fini del suo inquadramento nella superiore qualifica richiesta, siccome giudizio di fatto riservato al giudice del merito, sorretto nel caso di specie da logica e adeguata argomentazione per le ragioni dette, è insindacabile in sede di legittimità, (Cass. 30 ottobre 2008, n. 26233; Cass. 31 dicembre 2009, n. 28284);

3. la ricorrente deduce poi violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2043, 2103 c.c. e nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., per apparenza di motivazione, comunque inidonea a rendere comprensibili le ragioni della decisione, per il ritenuto demansionamento della lavoratrice, in quanto adibita al rientro dalla maternità a mansioni “non equivalenti”. Essa si duole dell’assenza di alcun riferimento alle declaratorie contrattuali, nè di una verifica comparativa sul piano oggettivo (di inclusione in quali aree professionali e salariali delle mansioni iniziali e di quelle cui successivamente destinata), ma neppure soggettivo (di congruità professionale o meno all’armonizzazione con il bagaglio della lavoratrice, in modo da promuoverne un coerente affinamento e sviluppo) delle mansioni in concreto svolte prima e dopo il suindicato congedo; e ciò (non) valutato alla luce delle risultanze istruttorie e della diversa collocazione lavorativa in ragione di una riorganizzazione aziendale programmata da prima della sua gravidanza (come accertato dalla Corte territoriale), e quindi per causa non imputabile alla società a titolo di colpa (secondo motivo);

4. esso è infondato;

4.1. giova ribadire come il divieto di variazione peggiorativa, sancito dall’art. 2103 c.c., escluda che al prestatore di lavoro possano essere affidate, anche se soltanto secondo un criterio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori a quelle in precedenza disimpegnate, dovendo il giudice di merito accertare, in concreto, se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale specifica del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantiscano al contempo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali (Cass. 4 marzo 2014, n. 4989; Cass. 3 febbraio 2015, n. 1916); e che l’equivalenza debba essere valutata in concreto dal giudice di merito, al fine di verificare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnico professionale acquisita dal dipendente (Cass. 6 novembre 2018, n. 28240);

4.2. nel caso di specie, la Corte territoriale ha accertato il demansionamento della lavoratrice, nella concretezza delle mansioni svolte prima e dopo la sua assenza per maternità così come risultanti dalle risultanze istruttorie (al primo capoverso di pg. 11, anche per richiamo, nella condivisione del corretto assunto del Tribunale, riportato all’ultimo capoverso di pg. 5 della sentenza);

4.3. nè basta, al fine di giustificare il demansionamento, la generica deduzione di una ragione riorganizzativa aziendale (pur dalla Corte territoriale riconosciuta al fine di escluderne la natura discriminatoria), posto che, quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., su quest’ultimo incombe l’onere di provarne l’esatto adempimento o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova della sua giustificazione per il legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali (dimostrando l’inesistenza, all’interno del compendio aziendale, di altro posto di lavoro disponibile, equiparabile al grado di professionalità in precedenza raggiunto dal lavoratore: Cass. 19 ottobre 2018, n. 26477) o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., per impossibilità della prestazione

derivante da una causa a sè non imputabile (Cass. 6 marzo 2006, n. 4766; Cass. 3 marzo 2016, n. 4211; Cass. 19 ottobre 2018, n. 26477);

4.4. sicchè, nel caso di un nuovo assetto organizzativo disposto dal datore di lavoro, che comprenda la riclassificazione del personale concordata con le organizzazioni sindacali, non sussiste violazione del divieto di dequalificazione qualora le mansioni del lavoratore, a seguito del riclassamento, non mutino rispetto al precedente inquadramento, poichè si realizza una violazione dell’art. 2013 c.c. solo se il dipendente venga adibito a differenti mansioni (quand’anche compatibili con la nuova classificazione, ma) incompatibili con la sua storia professionale (Cass. 25 settembre 2015, n. 19037);

5. la ricorrente deduce, infine, violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2697, 2729 c.c., art. 115 c.p.c. e nullità della sentenza per violazione degli artt. 112, 132 c.p.c., per omessa pronuncia sul motivo di appello di difetto di prova dell’esistenza di un danno non patrimoniale da dequalificazione della lavoratrice, avendo la Corte esaminato solo il profilo, non contestato, della sua liquidazione e comunque non osservato le norme denunciate e i principi di diritto in materia di prova di risarcibilità di un tale danno, non in re ipsa, ma da dimostrare nei suoi elementi costitutivi, non già del solo inadempimento datoriale denunciato (demansionamento), ma del suo collegamento causale con un pregiudizio specificamente allegato e provato, anche in via presuntiva, ma sulla base di una pluralità di elementi e non di uno solo (il peggioramento della situazione lavorativa), come nel caso di specie (terzo motivo);

6. anch’esso è infondato;

6.1. è principio consolidato che, in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne derivi, non ricorra automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale (cosiddetto danno in re ipsa), non potendo prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (Cass. s.u. 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 17 settembre 2010, n. 19785; Cass. 5 dicembre 2017, n. 29047); sicchè, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che siano oggetto di tutela costituzionale, da accertare in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti (Cass. s.u. 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass. 20 aprile 2018, n. 9901);

6.2. la prova del danno spetta al lavoratore, che tuttavia non deve necessariamente fornirla per testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. 15 ottobre 2018, n. 25743; Cass. 3 gennaio 2019, n. 21; Cass. 2 ottobre 2019, n. 24585);

6.3. nel caso di specie, non ricorre l’omessa pronuncia denunciata, in assenza dei presupposti di mancanza di una qualsiasi decisione su un capo di domanda e, in genere, su ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica sulla quale debba essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto (Cass. 16 maggio 2012, n. 7653; Cass. 27 novembre 2017, n. 28308; Cass. 16 luglio 2018, n. 18797); ed infatti, la Corte territoriale ha pronunciato sul motivo d’appello (il terzo, succintamente ma

esaurientemente esposto al primo capoverso di pg. 8 della sentenza), nel senso del rigetto, avendo confermato la liquidazione (e pertanto la sua esistenza, logicamente pregiudiziale) operata dal Tribunale;

6.4. ma neppure sussiste la violazione delle norme denunciate per inosservanza dei principi di diritto in materia di prova di risarcibilità di un tale danno, non in re ipsa, ma da dimostrare nei suoi elementi costitutivi. Ed infatti la Corte d’appello ha ritenuto la risarcibilità del danno in questione, sulla base del “peggioramento della situazione lavorativa di L.” (all’ultimo capoverso di pg. 11 della sentenza), come ritenuto dal Tribunale che, dopo aver escluso del “danno in re ipsa”, l’ha tratta “in via presuntiva dalla privazione dei compiti di responsabilità e coordinamento del personale di cui la ricorrente era titolare prima dell’assenza dal servizio per maternità”, procedendo alla sua determinazione proporzionata sulrentità del demansionamento, come sopra evidenziata”e in relazione alla durata di un periodo di non totale privazione di mansioni, così come accertato (secondo la sua motivazione sul punto, riportata al primo capoverso di pg. 6 della sentenza).

Sicchè, la Corte veneziana, lungi dall’assumerla dalla coincidenza con l’inadempimento datoriale, soltanto potenzialmente lesivo (e quindi: in re ipsa), ha ricavato l’esistenza del danno, sia pur con apprezzamento sinteticamente conglobante il concorso grave, preciso e concordante dei plurimi elementi valutati dal Tribunale, esplicitamente richiamato con assunzione come propria della sua valutazione (“Per la liquidazione del danno da de qualificazione il Tribunale… si è attenuto alla consolidata e condivisa giurisprudenza della Suprema Corte… “: all’esordio del secondo capoverso di pg. 11; “Il Tribunale ha considerato… “: all’esordio dell’ultimo capoverso di pg. 11); e pertanto da quegli elementi indiziari suindicati di qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, di natura e tipo di professionalità coinvolta e di durata del demansionamento;

7. la controricorrente a propria volta deduce, in via di ricorso incidentale, violazione e falsa applicazione della L. n. 903 del 1977, art. 15, L. n. 125 del 1991, art. 4, D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 40, artt. 115, 116 c.p.c., nullità della sentenza e insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per l’erronea negazione dell’esistenza di una disparità di trattamento diretta di genere, pertanto non giustificata da finalità legittime conseguite con mezzi appropriati e necessari (come quelle indirette), sulla base di una pluralità di documentate condotte riguardanti il proprio complessivo percorso professionale, puntualmente richiamate e non soltanto l’assegnazione avuta a nuove mansioni dopo il rientro dalla maternità, giustificata dall’esigenza riorganizzativa aziendale, esclusivamente (e riduttivamente) esaminata dalla Corte territoriale, sulla base di una ben censurabile ricognizione non corretta proprio della fattispecie astratta normativa e non già di quella concreta a mezzo delle risultanze di causa (unico motivo);

8. esso è inammissibile;

8.1. come ancora recentemente ribadito da questa Corte (Cass. 12 ottobre 2018, n. 25543), il D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 40, non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della direttiva 2006/54/CE, l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, solo una volta che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto idonei a fondare la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso (Cass. 5 giugno 2013, n. 14206; Cass. 9 settembre 2015, n. 17832; Cass. 3 febbraio 2016, n. 2113). Analogo principio è stato affermato, in relazione all’interpretazione dell’art. 19 della richiamata direttiva, dalla Corte di Giustizia, la quale ha evidenziato che spetta alla lavoratrice che si ritenga lesa dall’inosservanza nei propri confronti del principio della parità di trattamento dimostrare, dinanzi ad un organo giurisdizionale ovvero dinanzi a qualsiasi altro organo competente, fatti od elementi di prova in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta (CGUE 21 luglio 2011, Kelly, C-104/10, punto 29). Sicchè, soltanto nel caso in cui la lavoratrice interessata abbia provato tali fatti od elementi di prova si verifica un’inversione dell’onere della prova e spetta alla controparte dimostrare che non vi sia stata violazione del principio di non discriminazione (CGUE 19 ottobre 2017 in causa C – 531/15 Otero Ramos; CGUE 21 luglio 2011, Kelly, C-104/10, punto 30);

8.2. ebbene, la Corte territoriale ha esattamente applicato i suenunciati principi (richiamati dal secondo capoverso di pg. 13 al quattordicesimo alinea di pg. 14 della sentenza) ritenendo, con valutazione probatoria congruamente argomentata e pertanto insindacabile in sede di legittimità, la precisa e circostanziata difesa della società, anche di analitica contestazione dei dati statistici forniti dalla dipendente, la carenza di precisione e concordanza richieste in materia di diritto antidiscriminatorio, in specifico riferimento alla riorganizzazione aziendale, programmata prima dell’inizio della sua gravidanza, a giustificazione della sua assegnazione ad altro ufficio al rientro (così al primo e secondo capoverso di pg. 14 della sentenza);

8.3. con ciò essa non ha omesso di esaminare i fatti di discriminazione dedotti dalla lavoratrice in ricorso e richiamati in controricorso e ricorso incidentale, dando preliminare atto (dopo averne fatto succinta menzione a pg. 8 della sentenza) del “precipuo riferimento” nella memoria difensiva d’appello “a quanto emerso e provato nel giudizio di primo grado relativamente al subito demansionamento nel periodo successivo al rientro dalla maternità” (al secondo capoverso di pg. 12 della sentenza), ma ha piuttosto limitato la propria indagine a quanto devolutole dalla stessa lavoratrice appellata e appellante incidentale tratta ex actis, in particolare dalla lettura della suddetta memoria: secondo un’interpretazione del contenuto sostanziale della domanda spettante in via esclusiva al giudice del merito, approdante ad un giudizio, che, estrinsecandosi in valutazioni discrezionali sul merito della controversia, è sindacabile in sede di legittimità unicamente se siano stati travalicati i detti limiti o per vizio della motivazione (Cass. 29 aprile 2004, n. 8225; Cass. 21 maggio 2019, n. 13602). Peraltro, una tale operazione interpretativa, a giustificazione argomentata della valutazione compiuta, non è stata affatto confutata dalla lavoratrice, che si è limitata a reiterare le allegazioni di fatto, con relativa documentazione, formulate nel ricorso introduttivo (dall’ultimo capoverso di pg. 55 all’ottavo alinea di pg. 62 del controricorso);

9. per le suesposte ragioni entrambi i ricorsi principale e incidentale devono essere rigettati, con la compensazione delle spese di giudizio tra le parti e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

P.Q.M.

La Corte:

rigetta entrambi i ricorsi principale e incidentale e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale,

dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 18 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2021