Mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice in stato di gravidanza Tribunale di Roma, sentenza 22 aprile 2021

TRIBUNALE DI ROMA
SEZIONE LAVORO 4^ (PRIMO GRADO)


ORDINANZA
 


Il Giudice, a scioglimento della riserva, premette quanto segue.

Con ricorso ex art. 5 del D.Lgs. 9 luglio 2003 n. 216 ed art. 28 D.Lgs. n. 150/2011 V.C. ha convenuto in giudizio l’AIFA – Agenzia Italiana del Farmaco, per sentir accogliere le seguenti conclusioni:
“A. Accertare e dichiarare, previa declaratoria ed accertamento della loro natura discriminatoria, per i motivi di cui al ricorso, l’illegittimità della mancata proroga e/o rinnovo della missione di lavoro della ricorrente, imputabile all’AIFA – Agenzia Italiana per il Farmaco, e per l’effetto:
B. Condannare l’ente convenuto a richiedere, ad O s.p.a. o ad altra agenzia autorizzata, il rinnovo/proroga della missione della ricorrente alle medesime condizioni normative e contrattuali applicate in precedenza per un periodo pari a quello richiesto per i colleghi o per un diverso periodo di giustizia, ovvero garantire un pari periodo di lavoro tramite assunzione diretta, e in ogni caso condannare AIFA al pagamento della retribuzione/risarcimento di un importo pari ad € 2.072,97 mensili, o altro di giustizia, ovvero ad un pari risarcimento, per la durata del mancato rinnovo e/o delle proroga, ovvero per i periodi di 12 mesi di impiego dei colleghi della ricorrente o altro di giustizia anche ex art. 432 c.p.c.
C. Condannare la AIFA Agenzia Italiana per il Farmaco al risarcimento del danno non patrimoniale in favore della ricorrente da liquidarsi anche ex art. 28 d.lgs 1 settembre 2011 n. 150 in ragione della discriminazione subita e della lesione della dignità lavorativa pari ad € 10.000,00.
In ogni caso
Condannare la convenuta ad adottare al fine di evitare il ripetersi della discriminazione un piano di rimozione della discriminazione accertata…”. La odierna ricorrente, assunta a termine dalla O s.p.a, società di somministrazione di lavoro, al fine di essere impiegata dalla Agenzia per il Farmaco in mansioni impiegatizie, lamenta la subita discriminazione a cagione della condotta della Agenzia resistente perpetrata in occasione dell’accesso al lavoro, in quanto unica di un significativo gruppo di lavoratori impiegati (44 colleghi), alla quale non era stata prorogata/rinnovata la missione alla scadenza del contratto, in concomitanza col suo stato di gravidanza.
Ha dedotto la evidente forma di discriminazione diretta legata al genere ed, in particolare, alla maternità o, in subordine, di carattere indiretto ove l’ente abbia adottato un criterio selettivo penalizzante la maternità, riguardo al rifiuto di prorogare/rinnovare il rapporto di lavoro desumibile anche dalla prova statistica e comunque dalla oggettiva esistenza di un fumus discriminationis.
Dopo aver specificato la natura di ente pubblico non economico di AIFA, operante sotto la direzione del Ministero della Salute e la vigilanza del Ministero dell’Economia, ha dedotto che tale ente aveva integrato il proprio organico con lavoratori impiegati nei ruoli amministrativi assunti direttamente con contratti a termine, con contratti di collaborazione o a mezzo di agenzie di somministrazione.
In particolare, a seguito di un bando pubblico attuato con determina 2030/2017/DG per la somministrazione di personale per la durata di 24 mesi prorogabili, aveva attribuito ad O s.p.a. il contratto di fornitura di personale, sottoscritto il 9 luglio 2018, richiedendo a tale società di somministrazione di lavoro di inviare in missione presso i propri uffici 44 lavoratori da utilizzare in mansioni impiegatizie (fra cui era stata selezionata).
All’esito del colloquio, ha aggiunto, era stata inviata in missione temporanea nel gruppo di lavoratori indicati, inizialmente per un periodo a tempo determinato di 5 mesi a partire dal 28 gennaio 2019, successivamente prorogato fino al 30 giugno.
Era stata dunque impiegata presso la Direzione generale in qualità di protocollista ed, a seguito di un colloquio con la dott.ssa Giovanna R., dirigente della segreteria tecnica istituzionale, segreteria della Direzione Generale, era stata inserita nello staff amministrativo della direzione (impiegata nelle diverse attività amministrative che si svolgevano all’interno della direzione sostituendo o integrando all’occorrenza le diverse attività svolte dagli altri lavoratori addetti allo stesso ufficio in forza di rapporti lavoro alle dirette dipendenze dell’ente o utilizzati in missione temporanea analogamente alla ricorrente o impiegati con contratto di collaborazione: aveva curato il protocollo dell’ufficio, gestito le pec istituzionali rispondendo alle stesse anche con riferimento alle richieste di Patrocinio che pervenivano presso la casella Pec dedicata; rispondendo al telefono per conto della Direzione Generale; aveva, assieme al collega dott. Andrea I., assistente amministrativo di ruolo, curato e gestito tutte le attività esterne e le missioni di ogni dipendente Aifa).
Ha poi precisato di essere rimasta in stato interessante mese di agosto 2019, manifesto sin dal mese di ottobre 2019 a tutto l’ufficio.

In data 25 novembre 2019, all’improvviso, era stata spostata presso l’ufficio Relazioni Esterne diretto dal Dott. P., dove aveva prestato la sua attività lavorativa fino all’ottavo mese di gravidanza (9 marzo 2020), incaricata della cura e gestione delle attività Esterne e le Missioni dei dipendenti AIFA; della cura dell’agenda del Dott. P.; della gestione ed elaborazione delle richieste di Patrocinio.
In data 11 febbraio 2020 aveva formulato richiesta di fruizione della cd maternità flessibile al fine di potere lavorare sino all’ottavo mese di gravidanza stante l’assenza di rischi.
Ha quindi lamentato che, alla scadenza del contratto tutti i 44 rapporti di lavoro dei lavoratori somministrati erano stati rinnovati/prorogati a seguito di un monitoraggio delle esigenze formulate dai responsabili dei diversi uffici ed anche il dott. P., responsabile dell’ufficio, aveva espresso parere positivo al rinnovo della missione (per come appreso a seguito di un accesso agli atti del procedimento, il suo responsabile non solo aveva dichiarato di avere necessità della sua presenza lavorativa, ma aveva auspicato altresì che non subisse a causa del suo stato “un trattamento diverso da altri (..)”.
Pur avendo sollecitato il rinnovo del contratto sia all’ufficio risorse umane che al direttore generale della società, la sua richiesta era rimasta senza esito, come la richiesta dei propri difensori, inoltrata via pec il 5 dicembre 2020.
Ha lamentato quindi la condotta discriminatoria in ragione del mancato rinnovo o della proroga in quanto dipendente esclusivamente dalla sua assenza per maternità.
L’ente, infatti, nel riscontro alla lettera di accesso agli atti aveva precisato che l’esclusione era dovuta alla circostanza che “il contratto di lavoro a tempo determinato sottoscritto tra la dott.ssa V.C. e la Società Orienta è venuto a scadenza in data 30 giugno: tuttavia la dott.ssa V.C., come noto, a far data dal 7 marzo 2020 era assente in congedo per maternità e la cessazione del contratto è, appunto, intervenuta durante detto periodo. (..) La successiva estensione da parte di AIFA dell’Accordo Quadro con la Società Orienta a far data dal 1° luglio 2020, disposta per esigenze di continuità amministrativa e buon andamento in un momento molto delicato legato alla particolare emergenza epidemiologica, ha interessato, per le esigenze richiamate collegate alla tutela della salute pubblica, il personale in somministrazione in servizio al momento della disposta estensione.”.
Ha argomentato in diritto e quindi concluso nei termini sopra esposti.

L’Agenzia Italiana del Farmaco si è costituita evidenziando, in via preliminare, il difetto di legittimazione passiva quale soggetto “utilizzatore” e non datore di lavoro della ricorrente e, nel merito, l’infondatezza del ricorso.

Ha ricostruito tramite il puntuale richiamo alla normativa via via succedutasi nel periodo rilevante, le vicende che avevano condizionato il mancato rinnovo, escludendo qualsivoglia comportamento o volontà discriminatoria.

Orbene ciò premesso, osserva il Giudice che la ricorrente nell’odierno giudizio non lamenta la illegittimità del contratto di somministrazione a tempo determinato che, incontestabilmente, risulta essersi svolto legittimamente, anche a seguito dell’intervenuto stato di gravidanza.
Le doglianze di cui al ricorso investono piuttosto il comportamento della Agenzia resistente che avrebbe determinato il mancato rinnovo della sua missione (contrariamente a quanto avvenuto per tutti gli altri colleghi), in ragione, appunto, dello stato di gravidanza.
Si deve quindi precisare, quanto alla eccezione di parte convenuta (di difetto di legittimazione passiva attesa la particolare dissociazione fra i soggetti interessati dal rapporto di lavoro somministrato), che la legittimazione passiva deve essere verificata con riguardo alla sola formulazione della domanda e al rapporto in essa istituito tra il convenuto e la fattispecie dedotta quale causa petendi (S.U. sent. n. 6769/2009). La legittimazione a contraddire, in altri termini, deve essere accertata in relazione non alla sua sussistenza effettiva ma alla sua affermazione con l’atto introduttivo del giudizio, nell’ambito d’una preliminare valutazione formale dell’ipotetica accoglibilità della domanda. Tale accertamento, pertanto, deve rivolgersi alla coincidenza, dal lato passivo, tra il soggetto contro il quale la domanda è proposta e quello che nella domanda è affermato soggetto passivo del diritto o comunque violatore di quel diritto risolvendosi il tutto nell’accertare se, secondo la prospettazione dell’attore, il convenuto assuma la veste di soggetto tenuto a subire la pronuncia giurisdizionale.
A prescindere dunque dal coinvolgimento della Orienta SpA, e dovendo la domanda essere vagliata secondo la prospettazione offerta, l’Agenzia resistente, risultando censurato un suo comportamento (omissivo) tenuto in relazione alla procedura di rinnovo/proroga della missione, risulta correttamente evocata in giudizio.
La questione posta peraltro non attiene alla sussistenza di un diritto soggettivo al rinnovo della missione a termine in essere fra le parti, ma la sussistenza di una discriminazione per aver la convenuta permesso, attraverso il suo comportamento, il rinnovo della missione a tutti i colleghi nelle medesime condizioni contrattuali della V.C., senza tuttavia permetterlo a quest’ultima a causa dello stato di gravidanza.

Nel merito si osserva, sempre in via preliminare, che il mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice in stato di gravidanza, ben può integrare una discriminazione basata sul sesso, atteso che, a parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di rinnovo da parte della p.a., anche con riguardo alla prestazione del contratto in scadenza della suddetta lavoratrice, l’esigenza manifestata attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi, può essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza (v. C. di Giustizia CE sent. del 4.10.2001 C-438/99, punti 45 e 46).
Lo stato di gravidanza (maternità/genitorialità) risulta invero interessato da un complesso corpus di legislazione primaria e derivata, che risulta dettato a proteggere l’eguaglianza di genere, inclusa la parità e la lotta alla discriminazione sulla base della gravidanza o della maternità, sul luogo di lavoro [art. 157 del TFUE quanto alla parità di retribuzione; art. 33, par. 2, Carta dell’UE quanto al licenziamento; direttiva 2004/113/CE in materia di accesso ai beni e servizi; la direttiva sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego 2006/54/CE; la direttiva 86/378/CEE, nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale; la direttiva 75/117/CEE per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile; la direttiva 97/80/CE riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso].
Nella decisione CGUE, C-438/9, Jiménez Melgar del 4 ottobre 2001 la Corte ha dichiarato che “…qualora il mancato rinnovo di un contratto di lavoro a tempo determinato sia motivato dallo stato di gravidanza della lavoratrice, esso costituisce una discriminazione diretta basata sul sesso incompatibile con il diritto dell’UE” (ma v anche CGUE, C-32/93, Webb cit.; CGUE, C-421/92, Habermann-Beltermann, 5 maggio 1994; CGUE C- 531/2015 Otero Ramos, 19 ottobre 2017 secondo cui, punto 55: “in base all’articolo 2, paragrafo 2, lettera c), della direttiva 2006/54, la discriminazione comprende, in particolare, qualsiasi trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva”) ed anche la CEDU ha dichiarato che l’uguaglianza di genere è uno dei principali obiettivi perseguiti dagli Stati del Consiglio d’Europa (Cedu, Konstantin Markin c. Russia [GC], n. 30078/06, 22 marzo 2012, punto 127).
Sul piano del diritto interno rileva poi il D.Lgs n. 198/2006 (Codice delle pari opportunità fra uomo e donna) il D.lgs n. 5 del 2010, di attuazione della direttiva 2006/54/CE, in materia di occupazione ed impiego; il D.Lgs n. 150/2011 quanto al rito processuale; l’art. 25, comma 1, del d.lgs. n. 198 del 2006, come modificato dall’art. 8-quater, comma 1, lettera a), del d.l. n. 59 del 2008 convertito con modificazioni dalla I. n. 101 del 2008 e successivamente dall’art. 1, comma 1, lettera p), numero 1), del d.lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, alla stregua del quale: «Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga». Il successivo comma 2-bis, aggiunto dall’art. 1, comma 1, lettera p), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2010, stabilisce poi che: «Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti».
Dal punto di vista dell’onere probatorio, poi, deve sottolinearsi che l’agevolazione (non la inversione dell’onere probatorio) a fini probatori, concerne la prova del fattore di rischio e cioè del trattamento meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, spettando poi alla controparte datoriale la prova delle circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio che si fosse trovato nella stessa posizione (v. in tal senso, tra le più recenti, Cass. 2 gennaio 2020, n. 1; Cass. 12 ottobre 2018, n. 25543).
Il lavoratore che si assume discriminato ha, quindi, la possibilità, in forza del principio del concorso tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, di scegliere se azionare l’una o l’altra forma di responsabilità facendo valere, nel primo caso, la violazione del diritto fondato sulla presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 C.c. a non essere discriminato e la conseguente responsabilità per danni, limitatamente a quelli prevedibili al momento della nascita dell’obbligazione mentre, nel caso della responsabilità extracontrattuale, potrà far valere il diritto alla riparazione del pregiudizio arrecatogli dall’illecito, assumendosi tuttavia l’onere di fornire la prova della colpa o del dolo dell’autore della condotta lesiva.

Orbene, la odierna ricorrente assume che il suo stato di gravidanza (sospensione del rapporto) ha impedito il rinnovo della sua missione contrariamente a quanto avvenuto per tutti i colleghi che si trovavano nella stessa situazione contrattuale, circostanze queste che risultano incontestate e che pertanto realizzano, trattandosi di giudizio avente ad oggetto la discriminazione, le condizioni per ritenere operanti quei criteri speciali di riparto dell’onere probatorio.

Nel caso all’esame, invero, seppure debba essere considerata inevitabilmente la contingente situazione emergenziale che ha certamente condizionato, anche per quanto si dirà appresso, l’evoluzione della vicenda caratterizzata dai continui interventi governativi/legislativi, si deve dare per assodato il trattamento meno favorevole patito dalla V.C. in relazione a quello dei colleghi nelle stesse condizioni e che tale trattamento sia stato originato dalla sospensione del rapporto a causa della astensione per maternità e, pertanto, in ragione di tali accadimenti, ben può ipotizzarsi una discriminazione diretta.
Anche secondo il diritto dell’Unione, del resto, nell’ambito delle discriminazioni, una chiara particolarità ricorre proprio nel caso in cui la vittima sia una donna in gravidanza ed, infatti, a partire dalla sentenza Dekken, è stato rilevato che qualora il pregiudizio arrecato a una persona sia dovuto al fatto che questa sia in stato di gravidanza, tale persona sarà considerata vittima di una discriminazione diretta basata sul sesso, senza necessità di un termine di confronto (1). In ambito nazionale, nello stesso senso, si è affermato che la discriminazione diretta (ed a maggior ragione quella indiretta) può configurarsi anche in assenza di colpa o dolo da parte dell’autore dell’illecito, e che “…alla risarcibilità del danno […] non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore», per cui non vi è alcun ostacolo ad attribuire il risarcimento del danno patrimoniale e non pure in assenza di colpa, posto che il divieto di discriminazione opera, come si è detto, sul terreno dei valori della persona umana costituzionalmente protetti” (2).
Consegue che, per giustificare la differenza di trattamento il presunto autore può dimostrare che il comportamento adottato persegua una finalità legittima e che i mezzi scelti per conseguire tale finalità siano proporzionati e necessari; in altri termini, deve dimostrare che la differenza di trattamento si basi su dati oggettivi, estranei al motivo che forma oggetto del divieto.

Trasferendo i principi esposti al caso di specie, quindi, si può affermare che da quanto emerge allo stato degli atti, non risulta sicuramente una volontà penalizzante, quanto piuttosto che, nella immediatezza della proroga di cui si discute, risulta essersi avverato un ritardo di comunicazione (ad opera del referente della V.C.) che ha determinato l’impasse di cui a processo ed infatti, a riprova dell’assenza di qualsivoglia intento discriminatorio, si pone anche la circostanza, pure pacifica, secondo cui la medesima ricorrente era entrata in maternità già a far data dal 7 marzo 2020, senza che tale status avesse generato alcun problema.
Si deve considerare, infatti, che i rapporti di lavoro in somministrazione di che trattasi, regolamentati dall’Accordo Quadro sottoscritto con la società O s.p.a., sono stati prorogati una prima volta per il periodo 1.07.2019-31.12.2019 e, una seconda volta, per il periodo 1.01.2020- 30.06.2020; ulteriore estensione è poi derivata dal prolungamento della durata dell’Accordo dal 24 luglio 2020 “sino al completo esaurimento dell’importo massimo contrattualmente previsto di € 5.027.161,50 oltre IVA e IRAP come per legge, di cui all’arte. 4 dell’Accordo Quadro medesimo, e comunque non oltre il 31.12.2020, salva diversa determinazione dell’AIFA”.
Emerge altresì agli atti, per quanto rappresentato dalla stessa Agenzia che, alla stregua della capienza economica e dell’estensione dell’Accordo quadro, era stata fatta una ricognizione in data 11 maggio 2020 presso le strutture organizzative, che si era conclusa con la quasi integrale richiesta di prosecuzione del servizio svolto dal personale in argomento e che aveva interessato anche la struttura organizzativa presso la quale la ricorrente era assegnata (tale circostanza, come accennato più sopra, viene richiamata a riprova del fatto che l’AIFA non aveva alcun motivo per escludere da tale prosecuzione del rapporto fino al 31 dicembre 2020, la attuale ricorrente che a quella data era già in maternità).
Il problema tuttavia, per come pure accennato, si riscontra proprio in quanto la nota del responsabile dirigente dell’ufficio di assegnazione della V.C. (dott. P.) perviene solo successivamente (in data 22 giugno 2020) alla determinazione ed all’invio formale della richiesta di prosecuzione ad Orienta Spa che, pertanto, per tale motivo, non ha considerato la posizione della lavoratrice nonché che, proprio tale intempestivo comportamento, ha determinato il mancato rinnovo della missione, contrariamente a quanto avvenuto per gli altri colleghi.
Le ulteriori vicende a cui si riferisce l’Agenzia, pertanto, non assumono efficacia dirimente nella vicenda avendo le stesse patito in via derivata del mancato rinnovo originario.
In particolare, l’Agenzia sottolinea di aver ricevuto, in data 24 giugno 2020, da parte del proprio Ministero vigilante, formale diffida dal proseguire nell’utilizzo di tale tipologia di contratto nonché a rimuovere eventuali atti conseguenti compiuti a valere sullo stesso e che, pertanto, in data 25 giugno 2020, ha provveduto alla revoca della richiesta di prosecuzione temporale dei contratti di somministrazione oggetto della nota del 18 giugno; ha avviato poi un’interlocuzione con il Ministero, rappresentando le pressanti esigenze funzionali dell’AIFA (anche in relazione alla persistente emergenza epidemiologica, per la salvaguardia della continuità amministrativa e del buon andamento), conclusasi con la nota del Ministero della Salute, del 1 luglio 2020, con la quale venivano condivise “le considerazioni circa le peculiarità della situazione organizzativa, nonché la necessità di salvaguardare le professionalità formatesi nel tempo e la piena funzionalità” dell’AIFA, rimettendo al Direttore generale e al Presidente del CdA ogni valutazione in ordine alla opportunità di procedere alla prosecuzione dei rapporti in corso sino alla data di cessazione dello stato di emergenza (coincidente all’epoca con il 31 luglio 2020; conseguentemente ha pertanto proceduto a richiedere ad Orienta SpA di attivare la proroga dei contratti di somministrazione in corso alla data del 30 giugno 2020, dal 1° luglio al 31 luglio 2020.
Il rapporto di lavoro della ricorrente, tuttavia, in ragione della sospensione dovuta al congedo di maternità obbligatoria, contrariamente a quanto sostenuto nella memoria, doveva considerarsi “vigente” alla data del 30 giugno 2020, in quanto soltanto sospeso e, pertanto, avrebbe dovuto essere interessato dalla proroga, inizialmente disposta per un solo mese.
Si ricorda infatti che la odierna ricorrente, avendo in data 11.2.2020 inoltrato domanda per la c.d. maternità flessibile al fine di poter lavorare sino all’ottavo mese di gravidanza (3), alla data di scadenza del 30.6.2020, sino alla data dell’8 agosto 2020, era in congedo obbligatorio per maternità. Le ragioni che Aifa richiama al fine di ricostruire il travagliato iter dei rapporti in somministrazione di cui è causa, dunque, se sicuramente evidenziano la peculiarità del periodo emergenziale e le difficoltà conseguenti nella gestione degli stessi, considerata anche la funzione particolarmente delicata svolta in tale contesto dall’Agenzia, nonché l’assenza di qualsivoglia intento o volontà discriminatoria, al contempo non risultano idonee ad escludere il lamentato effetto.

Deve infatti aversi riguardo alla oggettiva idoneità del comportamento a ledere la parità di trattamento del soggetto, che si concreta anche col mero effetto della lesione del diritto (non necessitando al fine, la consapevolezza dell’autore o il suo intento lesivo) in connessione causale con la condotta tenuta dall’autore.
Nel contesto in cui si pone la odierna vicenda e considerata la normativa antidiscriminatoria del diritto interno (4), dunque, spetta alla ricorrente il risarcimento del danno che non può che essere parametrato alle retribuzioni perse dalla data della cessazione della astensione obbligatoria (“protetta”) all’epoca sino alla quale gli altri rapporti di lavoro dei colleghi sono stati prorogati, considerata anche la entrata in vigore della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (legge di bilancio) al 1.1.2021, non essendo stata allegata alcuna ulteriore lesione (concretante una alterazione alla vita di relazione e/o perdita della qualità della vita e/o patimenti o altri danni morali né pregiudizi relativi ad eventuali possibilità di future occasioni di impiego) risarcibile.
Deve quindi operarsi alla stregua delle tipiche ipotesi di inadempimento contrattuale, ex art. 1453 C.c. attesa anche l’incoercibilità in forma specifica della prestazione lavorativa, nonché la natura del rapporto intercorso, e determinarsi il danno in misura pari alle retribuzioni (mensili euro 2.072,97) che la V.C. avrebbe percepito, per i 12 mesi di impiego dei colleghi.
Le spese processuali seguono, come di norma, il criterio della soccombenza e sono liquidate nel dispositivo in calce.

 

P.Q.M.

Dichiara l’illegittimità della mancata proroga e/o rinnovo della missione di lavoro della ricorrente e, per l’effetto, condanna AIFA a risarcirle il danno col versamento della complessiva somma di euro 2.072,97 mensili, per 12 mensilità, oltre interessi al saldo, nonché al pagamento delle spese processuali liquidate in complessivi euro 2.500,00, da distrarre.

Roma lì, 22.4.2021 Il Giudice