Discriminazione disabilità, inaccessibilità edifici, barriere architettoniche, Corte di Cassazione, ordinanza del 15 giugno 2023.

Cass. civ., sez. I, ord., 15 giugno 2023, n. 17138

Presidente Genovese – Relatore Tricomi

Ritenuto che:

1.1.- P.G., con ricorso ex L. n. 67 del 2006, art. 3 proposto nel 2012 dinanzi al Tribunale di Lecce, dedusse di essere soggetto affetto da handicap in situazione di gravità ed invalido civile al 100% con indennità di accompagnamento ed espose che i convenuti, e cioè il Comune di (omissis), D.B., RE.SE.CO. SPA, G., il Residence (omissis), T., (+Altri) (questi tre, quali ex soci della (omissis) SRL), avevano posto in essere nei suoi confronti atti e comportamenti gravemente discriminatori, avendogli precluso di fruire, a causa della illegittima presenza di barriere architettoniche nell’edificio di edilizia residenziale privata “Residence (omissis)” in (omissis), (omissis), del diritto di accessibilità all’edificio in cui era situato l’appartamento acquistato nel 2000 dalla sorella P.M.L. con cui viveva stabilmente; del suo diritto al miglior stato di salute fisica e psichica conseguibile; nonché per avere, mediante innumerevoli ulteriori atti e comportamenti discriminatori, protratti per oltre undici anni ed ancora sussistenti al momento della proposizione della domanda, impedito e/o limitato arbitrariamente l’esercizio e la fruizione dei suoi diritti rispetto ai correlativi diritti dei soggetti normodotati. I convenuti costituitisi chiesero il rigetto del ricorso.

1.2.- Il Tribunale, ritenuta parzialmente fondata l’eccezione di prescrizione sollevata dai convenuti T. per i fatti verificatisi prima del (omissis), li ritenne responsabili per i fatti successivi.

Ritenne inoltre la responsabilità del Comune per avere rilasciato “la concessione edilizia in sanatoria prima, ed il permesso di agibilità poi, malgrado l’edificio realizzato dalla (omissis) SRL non fosse conforme alle prescrizioni di cui alla legge numero 13 del 1989” così conferendo “una veste di apparente legittimità alla condotta omissiva illecita posta in essere dalla suddetta società, favorendone la mancata cessazione e consentendo la protrazione dei suoi effetti lesivi”, perché l’ampliamento ed il mutamento di destinazione d’uso del fabbricato in relazione ai quali risultavano essere stati rilasciati il permesso di agibilità, di poi annullato dal giudice amministrativo, e la concessione edilizia in sanatoria erano successivi alla L. n. 13 del 1989 e non era stata provata dal Comune l’assenza di colpa.

Ritenne, infine, la responsabilità di D.B. per avere posto in essere condotte in violazione di doveri che su di lui incombevano in qualità di amministratore del condominio Residence (omissis).

Quanto ai pregiudizi da risarcire, il Tribunale li individuò nelle componenti del danno non patrimoniale sintetizzate come “danno morale” e come “danno esistenziale”. Determinò, quindi, in via equitativa il danno nella misura all’attualità di Euro 6.000,00= su base annua a far data dal 2001, ripartendo la somma in parti uguali tra danno morale e danno esistenziale e computando gli importi in concreto dovuti da ciascuno in ragione della rilevanza o meno degli effetti della prescrizione.

1.3.- L’ordinanza, comunicata l’8/11/2017, venne impugnata dal Comune di (omissis) con atto notificato il 5/12/2017, che prese il numero di r.g. 1394/2017, con cui venne contestata in toto la decisione.

Con separato atto, notificato il 9-13/12/2017, l’ordinanza venne impugnata da D.B. e questo procedimento prese il numero di r.g. 1402 del 2017; i tre T. si costituirono con un unico atto esclusivamente nel giudizio n. 1402/2017.

Riuniti i gravami, la Corte di appello ha deciso la controversia con la sentenza depositata il 28/10/2020.

In via preliminare la Corte di appello ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello proposto in via principale da D.B. perché tardivo ed ha dichiarato inefficace l’appello incidentale spiegato dai T. nel procedimento introdotto da D.B. “quale conseguenza della dichiarata inammissibilità dell’appello principale di D.B.A.”.

Quindi, ha parzialmente accolto il gravame proposto dal Comune, esclusivamente sul profilo della quantificazione del danno l riconosciuto: dopo aver ribadito la configurabilità dei danni nell’ambito del danno morale ed esistenziale, liquidabili in via equitativa ex art. 1226 c.c., la Corte di merito ha considerato che l’immobile in questione era adibito a residenza secondaria e che l’uso paritetico della residenza abituale e della dimora secondaria comportava che le voci di danno poste a carico del Comune, ferma la quantificazione per anno operata dal primo giudice, venissero ridotte del 50%, così determinando la somma dovuta in Euro 3.000,00= annue (Euro 1.500,00= per danno morale e Euro 1.500,00= per danno esistenziale) a decorrere dal 2001.

1.4.- Il Comune di (omissis) ha proposto il primo ricorso con quattro mezzi, seguito da memoria, chiedendo la cassazione della sentenza in epigrafe; ha replicato con controricorso la sola P.M.L., succeduta al fratello nel giudizio sin dal primo grado, restando intimati tutti gli altri.

I tre T. (soci della disciolta società costruttrice) hanno proposto un successivo autonomo ricorso con un mezzo, seguito da memoria, restando tutti intimati gli altri.

Considerato che:

2.- Il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; quest’ultima modalità, peraltro, non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale (Cass. Sez. U. n. 7074/2017), sicché nella fattispecie tale va qualificata l’impugnazione proposta dai T.

3.1. – Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione ed errata applicazione della L. n. 67 del 2006, artt. 1, 2 e 3 e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4; la violazione della L. n. 47 del 1985, art. 35, della L. n. 724 del 1994, art. 39 e della L. n. 13 del 1989, art. 7; la violazione e falsa applicazione dell’art. 34 del c.p.A. (D.Lgs. n. 104 del 2010) e dei principi generali in materia di giustizia amministrativa.

La censura concerne la statuizione con cui il giudice di appello, confermando la prima decisione, ha ravvisato la responsabilità del Comune per avere rilasciato “la concessione edilizia in sanatoria prima, ed il permesso di agibilità poi, malgrado l’edificio realizzato dalla (omissis) SRL non fosse conforme alle prescrizioni di cui alla legge numero 13-1989” – permesso di agibilità poi annullato dal TAR – così conferendo “una veste di apparente legittimità alla condotta omissiva illecita posta in essere dalla suddetta società, favorendone la mancata cessazione e consentendo la protrazione dei suoi effetti lesivi”, ritenendo non provata dal Comune l’assenza di colpa.

Il Comune contesta che la fattispecie discriminatoria sia stata individuata secondo canoni e gli elementi retraibili dalla L. n. 67-2006.

3.2.- Con il secondo motivo si denuncia la violazione degli artt. 2056 e 1226 c.c. e dell’art. 2043 c.c. sul risarcimento dei danni da illecito extracontrattuale, lamentando che i giudici di merito abbiano ravvisato il danno senza alcuna prova o dimostrazione da parte dell’interessato disabile circa il pregiudizio subito dallo specifico comportamento tenuto dal Comune e si deduce che il danno sia stato liquidato pur in assenza di prova della sua reale sussistenza in ragione del comportamento del Comune senza indicare i criteri per la determinazione della sua entità.

3.2.- I primi due motivi, da trattare congiuntamente per connessione, sono fondati e vanno accolti.

4.1. – La L. n. 67 del 2006, sulla cui applicazione si controverte, è inserita nell’ambito della normativa nazionale (a partire dalla Costituzione, art. 3) e internazionale (fra queste, va ricordato l’art. 14 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo), volta ad assicurare e promuovere la piena realizzazione, senza discriminazioni di alcun tipo, dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone, e specificamente anche per quelle con disabilità, allo scopo di colmare gli svantaggi propri di questi soggetti e di assicurare il rispetto del principio di parità di trattamento.

Questi obiettivi, sul piano convenzionale, sono imposti anche dalla Convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità, firmata a New York il 13 dicembre 2006, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, che “al fine di consentire alle persone con disabilità di vivere in maniera indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli ambiti della vita” obbliga gli Stati Parti ad adottare “misure appropriate per assicurare alle persone con disabilità, su base di eguaglianza con gli altri, l’accesso all’ambiente fisico, ai trasporti, all’informazione e alla comunicazione, compresi i sistemi e le tecnologie di informazione e comunicazione, e ad altre attrezzature e servizi aperti o offerti al pubblico, sia nelle aree urbane che nelle aree rurali”.

In particolare, la L. n. 67 del 2006 intende disporre per le persone con disabilità, di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 3, una particolare tutela giurisdizionale (in parte analoga a quella già accordata ai disabili vittime di discriminazioni nel contesto lavorativo dal D.Lgs. n. 216 del 2003, che ha recepito la direttiva 2000/78/CE) per tutte quelle situazioni in cui il disabile risulti destinatario di trattamenti discriminatori al di fuori di un rapporto di lavoro.

La legge sancisce, con norme dalla portata immediatamente precettiva, divieti di discriminazione delle persone disabili sia nei rapporti pubblici, che nei rapporti tra privati, senza alcuna limitazione soggettiva dei destinatari dell’obbligo di non discriminazione (sul tema, cfr. Cass. n. 18762/2016; Cass. n. 3691/2020; Cass. n. 3842/2021; Cass. n. 9384/2023).

4.2.- L’impianto normativo (art. 2) parte da una definizione di discriminazione (diretta, indiretta e discriminazione sotto forma di molestie, intimidazioni e umiliazioni), per poi predisporre lo schema di tutela giurisdizionale (art. 3).

4.3.1.- Secondo la nozione di discriminazione di cui alla L. n. 67 2006, art. 2 ricorre la “discriminazione diretta” quando una persona disabile viene trattata in modo diverso, in diritto o in fatto, rispetto ad un soggetto abile;

ricorre la “discriminazione indiretta” quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, apparentemente neutri, mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ai soggetti abili (Cass. Sez. U. n. 25101/2019; Cass. n. 9384/2023; Cass. n. 9095/2023; Cass. n. 9870/2022); infine, sono “discriminazioni” le molestie, ovvero comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che creino un clima di intimidazione, umiliazione, offesa o ostilità nei confronti della persona disabile.

4.3.2.- Con particolare riferimento alla fattispecie della “discriminazione indiretta”, invocata nel caso in esame, va osservato che l’elencazione delle modalità con cui essa può esplicarsi, contenuta nell’art. 2, non può ritenersi nè esaustiva, nè tassativa e ciò trova conferma nello stesso testo dell’art. 3, ove le diverse forme di discriminazione sono sinteticamente riassunte nella definizione omnicomprensiva di “atti e comportamenti”.

L’elemento qualificante che connota la fattispecie è, invero, l’effetto che in concreto produce, e cioè lo “svantaggio” del soggetto disabile rispetto al soggetto abile, di guisa che l’accertamento deve necessariamente riguardare in stretta connessione la condotta denunciata e lo svantaggio susseguente.

Va considerato, infatti, che spesso non sono il comportamento o la prassi a creare lo svantaggio, ma il fatto che non sia stata prevista una diversità di trattamento a favore dei disabili atta e necessaria per ristabilire l’uguaglianza ed evitare la discriminazione.

4.3.3.- Per restare sul tema del presente giudizio, va affermato che possono certamente rientrare nell’ambito della “discriminazione indiretta” ai sensi della L. n. 67 del 2006, art. 2, le barriere architettoniche ostacolanti l’accesso, sulla cui presenza presso l’immobile di proprietà della germana, è stata focalizzata la originaria azione del disabile nel caso in esame, qualora abbiano determinato – come accertato nel caso di specie – una condizione di svantaggio per quest’ultimo – costituita dalla lesione del diritto a poter accedere ed a potersi spostarsi dall’abitazione, ove era domiciliato, in maniera dignitosa – rispetto all’omologa situazione in cui si trovi la persona priva di disabilità.

In proposito, questa Corte ha anche affermato che l’esistenza di “ampia definizione legislativa e regolamentare di barriere architettoniche e di accessibilità rende la normativa sull’obbligo dell’eliminazione delle prime, e sul diritto alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia legittima giustificazione la discriminazione o la situazione di svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime”, consentendo loro “il ricorso alla tutela antidiscriminatoria, quando l’accessibilità sia impedita o limitata” ciò, a prescindere, “dall’esistenza di una norma regolamentare apposita che attribuisca la qualificazione di barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi” (così, in motivazione, Cass. n. 18762/2016, tema affrontato anche in Cass. n. 3691/2020), ed ha così messo in luce che ciò che rileva, ai fini dell’accertamento ex D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, è la situazione di fatto concretamente verificata e non la qualificazione giuridica dei luoghi.

Una conclusione, questa, che appare del tutto in linea con la necessità di assicurare alla normativa suddetta un’interpretazione conforme a Costituzione, se è vero che – come sottolinea la stessa giurisprudenza costituzionale – l’accessibilità “è divenuta una qualitas essenziale” perfino “degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione, quale conseguenza dell’affermarsi, nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da handicap fisici” (così, Corte Cost., sent. n. 167/1999; nello stesso senso, Corte Cost., sent. n. 251/2008)

Del pari, viene sottolineato come “superamento delle barriere architettoniche – tra le quali rientrano, ai sensi del D.P.R. n. 503 del 1996, art. 1, comma 2, lett. b), gli “ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o componenti” – è stato previsto (L. n. 118 del 1971, art. 27, comma 1) “per facilitare la vita di relazione” delle persone disabili”, evidenziandosi che tali principi “rispondono all’esigenza di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili e trovano base costituzionale nella garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute degli interessati, intesa quest’ultima nel significato, proprio della Cost., art. 32, comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica” (così, ancora, Corte Cost., sent. n. 251 del 2008).

4.4.1.- La tutela giurisdizionale in sede civile avverso gli atti e i comportamenti discriminatori è attualmente regolata – per rinvio – dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28 (oggetto di recenti modifiche, apportate dal D.Lgs. n. 149 del 2022, non applicabili al caso di specie e che non hanno mutato l’impianto del procedimento)

La competenza è radicata presso il tribunale del luogo ove ha domicilio il ricorrente, che costituisce un foro funzionale ed esclusivo, che deve essere preferito agli altri fori, anche inderogabili, compreso quello erariale (Cass. n. 296/2021; anche, Cass. n. 3936/2017) e le parti in primo grado possono stare in giudizio personalmente.

Il soggetto discriminato che si ritenga danneggiato può chiedere al giudice il risarcimento del danno anche non patrimoniale e può chiedere che il giudice adotti ogni provvedimento idoneo secondo le circostanze a rimuovere gli effetti della discriminazione, compreso un piano di rimozione delle discriminazioni entro un termine.

L’esigenza di assicurare ai diritti lesi concreta tutela giurisdizionale impone al giudice di assumere tutti quei provvedimenti anche atipici e innominati idonei a neutralizzare incidenze irreversibili nella posizione sostanziale del richiedente.

Quanto alla ripartizione dell’onere probatorio, questa Corte ha già avuto modo di sottolineare la peculiarità del sistema connotato da una parziale inversione dell’onere della prova, atteso che “In tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità ai sensi della L. n. 67 del 2006, l’art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 150 del 2011 (disposizione speciale rispetto all’art. 2729 c.c.) realizza un’agevolazione probatoria mediante lo strumento di una parziale inversione dell’onere della prova: l’attore deve fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, devono rendere plausibile l’esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria; il rischio della permanenza dell’incertezza grava sul convenuto, tenuto a provare l’insussistenza della discriminazione una volta che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla desumere.” (Cass. n. 9870/2022).

4.4.2.- Quanto alla tutela risarcitoria, invocata in via esclusiva nel presente procedimento, va osservato che essa è costantemente ricondotta all’ambito applicativo dell’art. 2043 c.c., a fronte a condotte attive o omissive discriminatorie che assurgono a fatti illeciti.

La persona lesa può agire, secondo le regole generali, per il risarcimento del danno e, ai fini dell’accoglimento della azione risarcitoria, è tenuta a dimostrare i requisiti oggettivi e soggettivi dell’illecito aquiliano e, quindi, sial’esistenza di un pregiudizio effettivo qualificabile come ingiusto, sia la riconducibilità del danno, sotto il profilo eziologico, a una condotta intenzionale o quanto meno colposa dell’agente, in quest’ultimo caso nelle diverse declinazioni della colpa, anche soltanto lieve, generica e specifica.

La natura della situazione soggettiva azionata, in quanto afferente ai diritti inviolabili della persona, costituzionalmente garantiti, per affermazione ormai consolidata, implica che in caso di lesione sorga in capo al soggetto offeso anche il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., secondo costante giurisprudenza di questa Corte (tra molte, Cass. Sez. U. n. 4063/2010; Cass. n. 24585/2019; Cass. n. 29206/2019; Cass. n. 4723/2023), a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo integri o meno un reato.

5.1.- Tanto premesso, quanto al quadro normativo di riferimento, va esclusa in diritto la correttezza del ragionamento giuridico sviluppato dalla Corte di appello, nella statuizione pronunciata nei confronti del Comune di (omissis) per quanto attiene alla condotta accertata ed alla condanna risarcitoria accolta nei suoi confronti a far data dall’inizio dell’anno 2001, perché la decisione impugnata non risulta avere fatto applicazione dei principi enunciati e non risulta avere rettamente individuato gli elementi costitutivi della fattispecie discriminatoria ascritta all’ente pubblico a titolo colposo e gli elementi sulla scorta dei quali ha accolto la domanda risarcitoria, con violazione di legge.

5.2.- Va rammentato, in proposito – come risultata incontestato in atti ed accertato dalla Corte di appello – che:

l’acquisto dell’immobile da parte di P.M.L. avvenne il (omissis) , con atto nel quale era indicato che il fabbricato non prevedeva strutture per il superamento delle barriere architettoniche e che vi era un impegno ad eliminarle, oltre che era in corso la pratica per la sanatoria; in epoca successiva all’acquisto vennero rilasciati dal Comune la concessione edilizia in sanatoria n. (omissis) ed il permesso di agibilità il (omissis) e solo quest’ultimo venne annullato dal TAR Lecce nel 2019.

A fronte di queste circostanze, la Corte di appello ha ravvisato la responsabilità solidale del Comune per avere rilasciato la concessione edilizia in sanatoria, prima, ed il permesso di agibilità, poi, malgrado l’edificio realizzato dalla (omissis) SRL non fosse conforme alle prescrizioni di cui alla legge numero 13 del 1989, applicabile alla fattispecie, così conferendo “una veste di apparente legittimità alla condotta omissiva illecita posta in essere

dalla suddetta società, favorendone la mancata cessazione e consentendo la protrazione dei suoi effetti lesivi”, e non provata dal Comune l’assenza di colpa e lo ha condannato al risarcimento in misura percentuale assommante al 50%, e ciò, nonostante la Corte di appello abbia implicitamente convenuto sul fatto che – come sostenuto dal Comune in propria difesa – questi non era tenuto a nessun intervento volto all’abbattimento dellebarriere architettoniche.

5.3.- Orbene, come si evince dalla motivazione, la Corte di appello ha effettuato una falsa applicazione della L. n. 67 del 2006, art. 2, consistente nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice (Cass. n. 640/2019; Cass. n. 23851/2019), perché non ha riscontrato la presenza degli elementi normativi integranti la fattispecie della “discriminazione indiretta” a carico del Comune. Invero, il comportamento pregiudizievole – la realizzazione e la mancata eliminazione delle barriere architettoniche – non è stato posto in essere dall’ente pubblico mediante l’adozione degli atti amministrativi in questione, intervenuti solo in epoca successiva alla costruzione e solo in parte annullati, e non risulta evidenziato lo svantaggio che sarebbe conseguito per il disabile a seguito dello specifico comportamento dell’ente, svantaggio che costituisce elemento costitutivo caratterizzante la fattispecie di cui alla L. n. 67 del 2006, art. 2: la disposizione in esame non risulta essere stata rettamente applicata con conseguente fondatezza del primo motivo.

5.4.- Piuttosto, la Corte di appello sembra avere ravvisato un concorso colposo del Comune nella condotta discriminatoria attuata, ben prima, da altri soggetti proprio mediante la realizzazione e la mancata eliminazione di barriere architettoniche, sul quale ha fondato la pronuncia per responsabilità solidale ex art. 2055 c.c. per avere conferito “una veste di apparente legittimità alla condotta omissiva illecita posta in essere dalla suddettasocietà, favorendone la mancata cessazione e consentendo la protrazione dei suoi effetti lesivi”.

Anche sotto questo profilo, la decisione è viziata.

Innanzi tutto, va osservato che non può condividersi il rilievo dato all'”apparente” legittimità di un comportamento o di una situazione perché la stessa legittimità di un comportamento o di una situazione non costituisce in sé ostacolo all’attuazione delle disposizioni immediatamente precettive della L. n. 67 del 2006 (cfr. Cass. n. 18762/2016; Cass. n. 3842/2021), come già ricordate prima.

Quindi, va ribadito che il riconoscimento del carattere discriminatorio di “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri” in ogni caso “presuppone la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi e oggettivi dell’illecito aquiliano ai sensi dell’art. 2043 c.c., al quale va ricondotta la fattispecie prevista dalla L. n. 67 del 2006, art. 3, comma 3” (cfr. Cass. n18762/2016; Cass. n. 3691/2020).

Inoltre va considerato che, qualora, l’evento dannoso possa essere ipoteticamente ricondotto ad una pluralità di cause, vanno applicati i principi che regolano l’accertamento del nesso causale a fronte di domanda risarcitoria in tema di responsabilità civile aquiliana, secondo i quali il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione exante – del tutto inverosimili, con la precisazione che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (Cass. Sez. U. n. 576 del 11/01/2008), ciò perché “In tema di illecito aquiliano perché rilevi il nesso di causalità tra una condotta e l’evento lesivo deve ricorrere, secondo la combinazione dei principi della “condicio sine qua non” e della causalità efficiente, la duplice condizione che sitratti di una condotta antecedente necessaria dell’evento e che la stessa non sia poi neutralizzata dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l’evento stesso.” (Cass. n. 23915 del 22/10/2013; cfr. Cass. n. 23197 del 27/09/2018), tenendo conto che “lo standard di cd. certezza probabilistica in materia civile non può essere ancorata esclusivamente alla cd. probabilità quantitativa della frequenza di un evento, che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato, secondo la cd. probabilità logica, nell’ambito degli elementi di conferma, e, nel contempo, nell’esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto.” (Cass. n. 47 del 03/01/2017); pertanto, il giudice di merito è tenuto, dapprima, a eliminare, dal novero delle ipotesi valutabili, quelle meno probabili (senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative

concretamente identificabili, attesa l’impredicabilità di un’aritmetica dei valori probatori), poi ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili e, infine, a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente” (cfr. Cass. n. 18584/2021; Cass. n. 19033/2021; Cass. n. 25884/2022). Ne consegue che la seconda censura, assorbite le ulteriori questioni proposte nel motivo in merito alla quantificazione del danno, deve essere accolta perché la Corte di appello non ha fatto applicazione dei plurimi principi ricordati ed ha violato le disposizioni in tema di responsabilità aquiliana.

6. – Restano assorbiti, in ragione dell’accoglimento dei primi due motivi, i restanti motivi con i quali è stata denunciata: la violazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, comma 7, e della Cost., art. 111, comma 6, perché era stata ordinata la pubblicazione della decisione, non obbligatoria, omettendo la motivazione (terzo motivo); la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. quanto alla statuizione concernete la condanna alle spese del giudizio (quarto motivo).

7.1.- Con l’unico motivo del ricorso incidentale T., (+Altri) deducono la violazione dell’art. 155, comma 4, c.p.c. e della L. n. 260 del 1949 e s.m.i., art. 2 in relazione alla dichiarazione di inammissibilità per tardività dell’appello proposto da D.B., in conseguenza della quale è stata dichiarato inefficace l’appello incidentale spiegato dai T. nel procedimento da questi introdotto.

7.2.- Il motivo è fondato e va accolto.

7.3.-L’appello proposto da D.B., da effettuarsi ex art. 702 – quater c.p.c. entro trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza del Tribunale avvenuta l’8/11/2017, venne dichiarato tardivo erroneamente perché il termine per la notifica sarebbe scaduto l’8/12/2017 – il giorno della festa dell’Immacolata Concezione, considerato festivo ex L. n. 260 del 1949 e s.m.i., art. 2. Quindi, la notifica eseguita da D.B. il 9/12/2017 era valida perché effettuata in prorogatio ai sensi dell’art. 155, comma 4, c.p.c. e ciò riverbera i suoi effetti anche sulla declaratoria conseguenziale di inefficacia dell’appello dei T.

8.- In conclusione, vanno accolti il primo ed il secondo motivo del ricorso principale, assorbiti gli altri, e va accolto il ricorso incidentale; la sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio della causa, anche per la statuizione sulle spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Lecce in diversa composizione affinché proceda al riesame alla luce dei principi espressi.

Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

P.Q.M.

– Accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso principale, assorbiti gli altri, ed accoglie il ricorso incidentale;

– Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Lecce, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità;

– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.