Gravidanza, recesso discriminatorio, mancato superamento periodo di prova, Tribunale di Bologna, Sentenza, 13 settembre 2023

Tribunale di Bologna, Sentenza, 13 settembre 2023

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Leonardo Pucci

 ha pronunciato la seguente

 SENTENZA 

nella causa iscritta al R.G. n. 717/2023 promossa da: 

C P (cf:) Rappresentata e difesa dall’Avv. CANDELORO CLAUDIA

PARTE RICORRENTE 

contro C &F S.R.L. (cf/PI: ……..) Rappresentata e difesa dall’Avv. RUSSO LUIGI 

E

E  S.R.L. (cf/PI: …………..) Rappresentante e difesa dall’Avv. LA TORRE MICAELA

PARTE RESISTENTE 

E nei confronti di UFFICIO CONSIGLIERE REGIONALI DI PARITÀ rappresentato e difeso dall’avv. PISCITELLI LOREDANA

PARTE INTERVENUTA 

Avente ad oggetto: recesso discriminatorio 

MOTIVI DELLA DECISIONE 

Parte ricorrente rileva di essere stata assunta dalla C&F S.r.l. dal 5 settembre 2022 a tempo determinato (fino al settembre 2023), inquadrata come impiegata di Area 1, II livello del CCNL di settore e un periodo di prova di 30 giorni lavorativi (cfr., doc. 1 e 2, fasc. ricorrente). Continua riferendo di aver svolto proficuamente le proprie mansioni, di aver sottoscritto un contratto di cessione del suo rapporto lavorativo in data 10 ottobre 2022 (anche se datato 21 ottobre) alla nuova compagine subentrante nel servizio (la resistente E S.r.l.), di aver notiziato il 12 ottobre la superiore gerarchica circa il suo stato di gravidanza e di essere stata licenziata il giorno successivo per mancato superamento del periodo di prova. 

Parte ricorrente eccepisce la nullità del recesso per discriminatorietà, in quanto fondato esclusivamente sul suo stato soggettivo, come si evince dalla tempistica dei fatti narrati. In conseguenza dell’accoglimento delle relative domande chiedeva al giudice la dichiarazione di invalidità del recesso, con le conseguenze reali e indennitarie, nonché la condanna al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 28 D.Lgs. n. 150/2011. Si costituivano le parti resistenti, contestando in via di fatto e diritto la domanda, rilevando, tra le altre cose, come la datrice di lavoro non fosse a conoscenza dello stato di gravidanza della lavoratrice e come nessuna pretesa potesse essere svolta nei confronti della cessionaria (in quanto il rapporto di lavoro sarebbe cessato prima del termine previsto nel contratto trilaterale). Interveniva l’Ufficio Consigliere Regionali di Parità, Regione Emilia-Romagna aderendo alla domanda della ricorrente.

Non necessitando istruttoria, il ricorso è stato deciso in data odierna. 

1. Nel merito, per quanto concerne il recesso datoriale per mancato superamento del periodo di prova, come anticipato, le doglianze della ricorrente sono articolate sul motivo centrale del suo stato di gravidanza. Sul punto, l’art. 54 del D.Lgs. n. 151 del 26/03/2001 dispone che «1. Le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino. 2. Il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, e la lavoratrice, licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano. 3. Il divieto di licenziamento non si applica nel caso: a) di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; b) di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta; c) di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine; d) di esito negativo della prova; resta fermo il divieto di discriminazione di cui all’articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125, e successive modificazioni». La disciplina, dunque, per il caso che interessa in questa sede, si presenta come un’eccezione alla regola generale del divieto di licenziamento della dipendente in gravidanza, elaborando un principio, frutto anche di una lunga produzione dottrinaria, normativa e giurisprudenziale (anche di matrice comunitaria), al quale sono state poste precise condizioni per la sua operatività in termini appunto di eccezione.

2. Nello specifico, se è vero che la normativa richiamata prevede delle eccezioni al divieto di licenziamento, tra le quali rientra, alla lett. d), l’ipotesi di esito negativo della prova, è altrettanto vero che si premura di mantenere fermo il divieto di discriminazioni di cui al L. n. 125 del 1991 e successive modifiche.

Come evidenziato dalla giurisprudenza (cfr., Corte appello Roma sez. lav., 02/03/2022, n. 132), «Già prima dell’intervento legislativo sopra richiamato, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 172 del 31.05.1996, pur affermando l’illegittimità costituzionale della L. n. 1204 del 1971, art. 2, comma 3, nella parte in cui non prevedeva l’inapplicabilità del divieto di licenziamento della lavoratrice madre in caso di esito negativo del periodo di prova, aveva nondimeno sancito: “La dichiarazione di illegittimità costituzionale in parte qua della norma impugnata, che si va a pronunciare, non significa che la condizione fisiopsichica in cui versa la lavoratrice non abbia riflessi sulla disciplina del recesso per mancato superamento della prova. L’esonero dall’obbligo di motivazione, secondo la disciplina generale dell’art. 2096 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 10 vale soltanto se il datare di lavora provi o comunque (come nel caso di perle) sia acquisita la certezza che al momento del recesso egli ignorava lo stato di gravidanza della lavoratrice, salva a quest’ultima la prova che il licenziamento è stato determinato da altri motivi pur sempre estranei alle finalità dell’esperimento. Altrimenti subentra una disciplina pedale analoga a quella elaborata dalla Corte di cassazione, e condivisa da questa Corte (sent. n. 255 del 1989), per le assunzioni con patto di prova di soggetti avviati obbligatoriamente al lavoro: disciplina fondata sulla ratio di maggiore tutela dei lavoratori che si trovano in condizioni fisiche o sociali di particolare debolezza».

In altre parole, il datore di lavoro, nel momento in cui ha intenzione di recedere dal rapporto di lavoro per mancato superamento della prova, in relazione ad una lavoratrice di cui, al momento del recesso, conosca lo stato di gravidanza, ha l’onere di motivare le ragioni poste alla base dell’esito negativo della prova. Solo così permette una valutazione giudiziale sui reali motivi del recesso, al fine di escludere che esso sia stato determinato dalla condizione della dipendente. 

3. Nel caso di specie manca la dimostrazione della conoscenza, da parte del datore di lavoro, dello stato di gravidanza della ricorrente, in assenza di una comunicazione formale in tal senso avvenuto. Secondo la ricostruzione della C, la stessa avrebbe comunicato per la prima volta la circostanza telefonicamente alla superiore sig.ra D L, ma la stessa non risulta dipendente del datore di lavoro, dunque, sotto questo profilo, si tratta di una situazione irrilevante. In realtà, un simile fatto, se confermato, avrebbe potuto raggiungere un livello presuntivo sufficiente, dal momento che, pacificamente, la sig.ra L era dipendente della cessionaria E S.r.l., società alla quale, come anticipato, era stato ceduto il contratto di lavoro della ricorrente a decorrere dal novembre 2022. In altre parole, una volta dimostrata l’avvenuta comunicazione, considerando che il rapporto sarebbe proseguito proprio con il datore di lavoro della dipendente che ha ricevuto la notizia, sarebbe stato possibile ritenere necessaria la motivazione circa il mancato superamento del periodo di prova. Ma nessuna prova è stata richiesta in giudizio per verificare l’allegazione suddetta, con la conseguenza che, sotto questo profilo, non può dirsi dimostrata la conoscenza dello stato di gravidanza da parte delle resistenti. Al tempo stesso non può essere condivisa la considerazione della parte terza intervenuta, che vorrebbe valorizzare il dato relativo al fatto che la gravidanza delle C fosse al settimo mese, con la conseguenza che sarebbe stato impossibile per il datore non accorgersi della stessa.

In realtà, risulta dalle allegazioni di tutte le parti che non vi erano stati contatti di persona tra la C e i rappresentanti del datore di lavoro, nemmeno in sede di assunzione, ma solo da remoto e, oltretutto, se davvero l’azienda avesse fin da subito verificato, avendo intenti discriminatori, verosimilmente non avrebbe assunto la ricorrente. Se così è, deve effettuarsi una riflessione in ordine alla ripartizione dell’onere della prova circa la non conoscenza dello stato di gravidanza. È vero che la sentenza del Giudice delle Leggi del 1996 sembra richiedere che la non conoscenza sia provata dal datore (ove non ne risulti altrimenti la certezza), ma la prova di una “non conoscenza” è ovviamente una dimostrazione di un fatto negativo, che si può raggiungere solo dimostrando fatti incompatibili. Nel caso di specie, come detto, è pacifico che non vi sia stata alcuna comunicazione formale, è pacifico che i datori non abbiamo mai incontrato personalmente la ricorrente e non è stata provata l’unica allegazione che, in qualche modo, avrebbe rappresentato una presunzione di conoscenza ulteriore a quelle esaminate. 4. Dalle considerazioni svolte, allora, non vi sono elementi per ritenere che vi sia un’inversione dell’onere della prova o l’obbligo della parte datoriale di dimostrare i fatti negativi che hanno condotto alla determinazione di ritenere non superato il periodo di prova (cfr., Cassazione civile, sez. lav., 13/02/2012, n. 2010: «In tema di impugnazione del licenziamento, chi si ritiene discriminato deve fornire fatti dai quali possa presumersi la denunciata discriminazione. Il divieto di licenziamento in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza non opera, ai sensi dell’art. 54 del d.lg. n. 151/2001, in caso di esito negativo della prova. (Nel caso di specie la dipendente, sulla quale incombeva il relativo onere, non aveva fornito elementi di fatto idonei a fondare,  n termini precisi e concordanti, la presunzione di discriminazione non essendo risultata dimostrata l’assunta conoscenza da parte del datore di lavoro, alla data del licenziamento, dello stato di gravidanza, il prospettato superamento della prova e l’allegata esiguità del periodo di prova)»), con la conseguenza che la domanda non può trovare accoglimento. 

5. Le spese di lite, al contrario, possono essere interamente compensate, sussistendone eccezionali motivi valorizzando la situazione complessiva delle parti e il lungo iter  stragiudiziale intrapreso

 P.Q.M. 

Ogni contraria istanza disattesa e respinta, definitivamente decidendo, visto l’art. 429 c.p.c., A) respinge il ricorso; 

B) compensa integralmente le spese di lite tra tutte le parti

 Bologna il 13/09/2023

 Il Giudice Leonardo Pucci