Discriminazione per ragioni di genere, Corte d’Appello di Catania, sentenza del 10 gennaio 2008.

R E P U B B L I C A    I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte di Appello di Catania, sezione lavoro, composta dai Sigg.ri magistrati:

Dott. Salvatore Pagano                                 Presidente

Dott. Pasquale Nigro                                    Giudice

Dott.ssa Laura Renda                                   Giudice rel.

ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa di lavoro iscritta al n.622/2005   R.G.

TRA

A Pelettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv.to Palma Balsamo dalla quale è rappr. e difeso  per procura a margine del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado;

                                                                                          Appellante

CONTRO

AZIENDA AUTONOMA DELLE TERME DI ACIREALE elettivamente domiciliata ex lege presso gli uffici dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Catania dalla quale è rappr. e difesa

                                                                                            Appellata

Avente ad oggetto: trasferimento – motivi di genere – legge 125/1991

All’udienza di discussione del 28 febbraio 2008 la causa, sulle conclusioni precisate dai difensori delle parti nei rispettivi atti difensivi, veniva posta in decisione.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 23 marzo 2004 A P adiva il giudice del lavoro di Catania e premesso di essere dipendente con qualifica di massaggiatore – fisioterapista (IV livello) dell’Azienda Autonoma delle Terme di Acireale e di avere svolto le corrispondenti mansioni fin dal 1981 presso il reparto di massoterapia, fruendo pertanto di una indennità aggiuntiva pari al 40% dei proventi dei singoli massaggi effettuati, deduceva  che nel corso dell’anno 2002 la Direzione Sanitaria delle Terme chiedeva al personale in possesso del diploma di massofisioterapia di dichiarare la propria disponibilità ad effettuare turni di lavoro presso il reparto di fisiatria.

Tre degli addetti al reparto massofisioterapia optavano per il trasferimento fisso al reparto fisiatria; altri quattro (di cui due donne), lui compreso, concordavano delle turnazioni a cadenza mensile.

Accadeva tuttavia che con ordine di servizio del 15 aprile 2003 veniva disposto il suo trasferimento, nonché quello dell’altro massofisioterapista uomo, non solo in deroga agli accordi raggiunti tra colleghi, ma  in violazione dei principi di parità di trattamento per ragioni di genere, sicchè egli – non avendo ottenuto adeguate risposte dall’azienda datrice di lavoro – chiedeva ordinarsi l’immediata cessazione dell’illegittimo comportamento, oltre che la rimozione degli effetti lesivi dello stesso.

Si costituiva in giudizio l’Azienda Autonoma Terme di Acireale contestando la prospettazione difensiva avversaria e deducendo che la preferenza accordata alle massofisioterapiste era derivata dalla esigenza di contemperare le esigenze organizzative dell’azienda, in ragione della  predilezione espressa dalle utenti del servizio di massoterapia (in prevalenza donne) per operatrici dello stesso sesso.

Con sentenza n. 109/2005 il Tribunale di Catania rigettava il ricorso e compensava le spese di giudizio.

Avverso tale sentenza ha proposto appello A P con  ricorso depositato il 9 maggio 2005 per i motivi di cui all’atto introduttivo di questo grado di giudizio, chiedendo in riforma dell’impugnata pronuncia l’accoglimento delle domande formulate.

L’Azienda appellata  con memoria del 15 febbraio 2008 insiste nel merito per il rigetto del proposto gravame.

Sulle precisate conclusioni, all’udienza del 28 febbraio 2008  la causa è stata decisa come da separato dispositivo in atti di cui si è data pubblica lettura.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Lamenta l’appellante l’erroneità della decisione impugnata, ritenuta meritevole di riforma, per avere ritenuto legittimo il suo trasferimento dal reparto massofisioterapia al reparto di fisiatria, in quanto espressione  del potere organizzativo dell’imprenditore finalizzato ad utilizzare la prestazione dei collaboratori nel modo ritenuto più proficuo per il conseguimento degli obiettivi aziendali, senza tenere in alcun conto che nella specie nessuna rilevanza potevano assumere al fine del perfezionamento della fattispecie illecita  l’intenzione nonché i motivi che avevano determinato il datore di lavoro a porre in essere un comportamento oggettivamente discriminatorio;  e ciò in violazione dell’art. 4 c. 1 della l. n. 125/1991 che qualifica come discriminatoria ogni attività che produca un effetto pregiudizievole in ragione del sesso, sì come dei principi espressi dalla convenzione OIL n. 111 del 1958 per la quale (art. 1) costituisce discriminazione “ogni distinzione, esclusione o preferenza basata sul…….sesso….che abbia l’effetto di annullare o danneggiare l’eguaglianza di opportunità o di trattamento nell’impiego o nell’occupazione”.

 Censura peraltro il decisum del giudice di prime nella parte in cui ha dato per scontate le motivazioni addotte dall’azienda termale a fondamento della propria determinazione, e ciò in spregio della previsione di cui all’art. 4 c. 6 della legge 125/1991 per la quale laddove il lavoratore fornisca elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori per ragioni di genere, spetta al datore di lavoro l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione, nella specie non dimostrata.

Il gravame è fondato.

Preliminarmente è opportuno attribuire un esatto significato al concetto di atto discriminatorio, alla stregua della quale nozione sarà poi possibile ricostruire la fattispecie in esame, al fine di verificare la ricorrenza dei presupposti dell’azione intentata ai sensi dell’art. 4 della l. n. 125 del 1991, sì come modificato dal d. lgs. 23 maggio 2000 n. 196 e dal d. lgs. del 30 maggio 2005 n. 145.

Il nostro ordinamento, in maniera alquanto chiara e esaustiva, quanto meno in tema di discriminazioni per ragioni di genere (atteso che non si può esprimere un analogo giudizio quanto alla nozione positivizzata di discriminazione in altri ambiti) prevede con la richiamata disposizione che “costituisce discriminazione diretta, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903 , e della presente legge, qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e comunque il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”.

Espressamente definisce quindi anche il concetto di discriminazione indiretta “ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903 , e della presente legge, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”

Pertanto, al fine di accertare in concreto se sia stato posto in essere un comportamento discriminatorio occorre verificare la concorrenza di due decisivi elementi: la sussistenza di criteri che pregiudichino il lavoratore o la lavoratrice per ragioni di genere e che i criteri medesimi riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento della prestazione lavorativa.

A contrario, non sarà configurabile una discriminazione indiretta nell’ipotesi in cui i criteri adottati dal datore di lavoro siano essenziali alla prestazione del lavoratore stesso e le determinazioni del datore di lavoro  attengano ad obiettive esigenze aziendali collegabili alla specifica esperienza e professionalità del dipendente.

Ciò  premesso, nella fattispecie in esame con ordine di servizio del 15 aprile 2003 n. prot. 3583 l’Azienda appellata, considerato che il reparto massaggio dal mese di luglio 2002 aveva subito un notevole decremento di afflusso, atteso che il sistema sanitario non aveva più riconosciuto alcun convenzionamento su tali  terapie; che al contrario nel reparto di fisioterpapia si era avuto un ragguardevole incremento dell’attività, sicchè andava incrementato il numero degli operatori ivi addetto;  che gli operatori massofisioterapisti potevano effettuare numerose attività proprie del servizio fisioterapico; provvedeva a trasferire dei quattro operatori che non avevano volontariamente richiesto di essere addetti al reparto fisioterapia solo i due operatori maschi in base alla motivazione “che l’utenza del reparto massaggi è composta per più di due terzi da donne che, così come accertato in precedenza, preferiscono in assoluto un operatore dello stesso sesso”.

Trattasi, come è evidente già da un esame superficiale dell’atto, di una decisione fondata appunto su ragioni di genere, a nulla rilevando secondo quanto correttamente dedotto da parte appellante l’assenza di un intento discriminatorio da parte datoriale.

Rileva invece l’accertamento della essenzialità del criterio utilizzato al fine della individuazione del personale da trasferire, accertamento che richiedeva la prova da parte dell’Azienda Terme di Acireale di quanto solo labilmente dedotto.

In punto di onere della prova infatti l’art. 4 c. 6 della l. n. 125/91 prevede che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto – desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti – idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione”.

Nel caso in esame è stato solo dedotto ma non dimostrato che due terzi dell’utenza del reparto di massoterapia era femminile, mentre la considerazione che la suddetta utenza preferiva in assoluto un operatore dello stesso sesso è risultata essere il frutto di una petizione di principio, non avendo l’appellata provato – nemmeno ad esempio mediante la raccolta a campione di opzioni in tal senso o la redazione di appositi questionari – la suddetta preferenza, .

Non solo: ma è pacifico che il P nel caso in cui una delle colleghe addette al reparto massofisioterapia era assente, veniva ivi utilizzato in sostituzione delle predette; sì come non risulta contestata l’asserzione del giudice di prime cure per la quale l’appellante veniva utilizzato anche nella sezione femminile del reparto di fisiatria.

Il che contraddice, al di là di ogni evidenza, l’affermazione per la quale il criterio del genere per individuare il personale da adibire al reparto di massoterapia fosse essenziale, risultando invece discriminatorio, per fruire il personale del suddetto reparto di un trattamento retributivo di maggior favore, tenuto conto dell’indennità aggiuntiva del 40% dei proventi spettanti a ciascun operatore per ogni massaggio personalmente effettuato.

Tanto premesso la decisione impugnata va riformata stante l’illegittimità del comportamento dell’Azienda Autonoma delle Terme di Acireale che va condannata a rimuovere gli effetti dell’ordine di servizio impugnato.

Le spese di entrambi i gradi di  giudizio si pongono a carico dell’appellata  per il principio della soccombenza, nella misura specificata in dispositivo

 

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione in accoglimento dell’appello proposto da A P nei confronti dell’Azienda Autonoma delle Terme di Acireale avverso la sentenza n. 109/2005 del Tribunale di Catania, condanna l’Azienda Autonoma delle Terme di Acireale,in persona del legale rappresentante pro tempore, a rimuovere gli effetti dell’ordine di servizio del 15.4.2003 in quanto illegittimo;

condanna l’Azienda Terme di Acireale  alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio in favore del ricorrente, spese che liquida per ciascun grado in euro 1.200,00 di cui euro 680,00 per diritti oltre spese generali, IVA e CPA.

Così deciso in Catania il 10 gennaio 2008 nella Camera di Consiglio della Corte d’Appello di Catania, sezione lavoro.

Il GIUDICE ESTENSORE                              IL PRESIDENTE

Dott.ssa Laura Renda                                      Dott. Salvatore Pagano