Discriminazione di genere, Corte d’Appello di Torino, sentenza del 19 febbraio 2013

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE D’APPELLO DI TORINO

SEZIONE LAVORO

Composta da:

Dott Giancarlo Girolami                                        Presidente

Dott.ssa Rita Sanlorenzo                                       Consigliere Rel

Dott. Federico Grillo Pasquarelli                         Consigliere

ha pronunciato la seguente sentenza

 

S E N T E N Z A

 

nella causa di lavoro iscritta al n.ro   1137/2012   R.G.L.

promossa da:

F.M, rappresentata e difesa dagli avvocato Giorgio Scagliola del Foro di Alba e Pietro Floris del foro di Torino, elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in Torino, Via Beaumont n. 35 giusta procura speciale alleliti posta a margine del ricorso in appello.

APPELANTE

CONTRO

P. di P.L. e C. snc, in personale del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall’avvocato Laura Maria Mazzetti del Foro di Asti giusta procura generale alle liti notaio Anna Maria Prima in data 10.3.2009, congiuntamente e disgiuntamente all’avvocato Enrica Massazza giuta procura in calce alla comparsa di costituizione e risposta, elettivamente domiciliata in  via Alfieri n . 25 presso lo studio dell’avvocato Massazza.

APPELLATO

Oggetto: Licenziamento individuale per giust. motivo soggettivo

CONCLUSIONI

Per l’appellante: come da ricorso depositato in data 4.9.2012.

Per l’appellata: come da memoria difensiva depositata in data 18.12.2012.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 4.4.2012 il tribunale di Alba in funzione di giudice del lavoro ha respinto il ricorso presentato da F. M. nei confronti della ditta P di P L e c. s.n.c., con cui la lavoratrice aveva impugnato il trasferimento disposto nei suoi confronti l’11.3.2010, le due sanzioni disciplinari della multa irrogatele in data 1.3.2011, ed infine il licenziamento per giusta causa intimatole in data 9.3.2011.

Contro tale sentenza, con ricorso depositato il 4.9.2012, ha proposto appello la sig. F., richiamando le originarie conclusioni.

Si è costituita la ditta P, per resistere all’appello.

La corte, dopo i rinvii resisi necessari per l’acquisizione del fascicolo d’ufficio, all’udienza del 19.2.2013 in esito alla discussione orale, ha deciso la causa come dal dispositivo trascritto in calce alla presente sentenza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

F Ma ha adito il giudice del lavoro di Alba esponendo di avere lavorato sin dal 28.9.2007 alle dipendenze della ditta P presso l’unità locale di Castagnito in forza di rapporto di lavoro a tempo indeterminato in qualità di commessa con inquadramento ai sensi del III livello CCNL Terziario Commercio; di essersi assentata dal lavoro per usufruire del periodo di maternità dal 15.10.2008 al 16.12.2009; di avere quindi goduto di un periodo di ferie e di essere tornata al lavoro il 15.2.2010 per essere adibita alle mansioni di cassiera; di averle comunicato il datore di lavoro in data 11.3.2010 il trasferimento verso l’unità produttiva di Novara, a causa di un “incremento lavorativo” presso quella sede; di avere impugnato in via d’urgenza il provvedimento in considerazione delle sue condizioni di madre nubile; di avere il giudice con ordinanza del 20.3.2010 sospeso detto trasferimento inaudita altera parte; di avere il giudice a seguito della costituzione della convenuta, revocato la pregressa ordinanza rigettando il ricorso cautelare per insussistenza del fumus boni iuris; di avere ella in data 5.7.2010 messo a disposizione della datrice di lavoro le proprie energie lavorative dichiarandosi pronta al trasferimento nella unità locale di Novara chiedendo contestualmente il riconoscimento delle spese di trasporto e delle indennità contrattuali; di avere ricevuto in risposta una generica disponibilità al versamento delle indennità che non venivano mai quantificate; di avere rigettato il collegio il suo reclamo al provvedimento di rigetto; di averle contestato la P. con lettera del 15 febbraio 2011 il comportamento non conforme ai principi di correttezza per aver omesso ella di presentarsi alla nuova sede di lavoro in Novara; di averle ancora contestato con lettera del 28.2.2011 l’assenza ingiustificata dal punto vendita di Novara e la recidiva; di averle quindi applicato con lettere del 1.3.2011 due multe, e di averle poi intimato il licenziamento per giusta causa con lettera del 22.3.2011; di avere proceduto nel frattempo la ditta ad ampliare il personale in forza a Castagnito con nuove assunzioni; di risultare illegittimo per violazione dell’art. 56 d.lgs. n.151/2001 il mutamento di mansioni subito al rientro dalla maternità; di essere viziato, oltre che del tutto irragionevole, il trasferimento a Novara, intimato a soli 24 giorni dal rientro dalla maternità e a soli tre giorni dal compimento di un anno di suo figlio; di esserle stato comunicato il trasferimento ad oltre 160 km di distanza con soli 4 giorni di preavviso; di essere tuttora operativa la sede di Castagnito che continuava ad occupare 4 dipendenti; di apparire priva di ogni giustificazione logica o tecnico – organizzativa la decisione di trasferirla; di trovare conferma la discriminatorietà del comportamento aziendale anche nel mancato riconoscimento delle indennità contrattuali e delle spese correlate al trasferimento medesimo; di risultare legittimo pertanto il suo rifiuto a trasferirsi a Novara in quanto seguito a comportamenti aziendali di ben più grave implicazione e portata; di essere nullo il licenziamento intimatole, in quanto espressione di una discriminazione diretta volta ad estrometterla dal novero dei dipendenti.

Il tribunale di Alba ha respinto tutte le domande avendo ritenuto che:

non sussisteva la violazione dell’art. 56 d.lgs. n.151/2001 in quanto le mansioni di commessa e quelle di cassiera risultavano equivalenti tra di loro;

nessuna norma di fonte legislativa o contrattuale imponeva un determinato preavviso per l’efficacia del trasferimento;

dovevano ritenersi rientrare nell’area di insindacabilità da parte del giudice le scelte datoriali non solo per ciò che concerneva il merito del trasferimento, ma anche a proposito della scelta del lavoratore da trasferire; l’obbligo del datore di considerare anche la situazione personale e familiare del lavoratore, eventualmente previa comparazione con quella di altri dipendenti, doveva ritenersi poter discendere solo da una previsione collettiva che nel caso non si ravvisava; nè risultavano fondati i rilievi circa l’asserito comportamento discriminatorio o in mala fede del datore di lavoro, la cui scelta risultava pertanto insindacabile;

era infondato il rilievo a proposito della mancata corresponsione dei rimborsi delle spese per il trasloco, avendo dichiarato l’azienda la propria disponibilità a corrispondere le indennità ed a farsi carico delle spese e delle operazioni di trasloco con lettera dell’agosto 2010;

era irrilevante la circostanza dell’attuale operatività della sede di Castagnito posto che la sussistenza delle ragioni legittimanti il trasferimento doveva essere verificata con riguardo al momento della sua adozione: al momento del trasferimento, in effetti, si minacciava la chiusura del negozio per mancato rinnovo del contratto di locazione. D’altronde, nel provvedimento si dava atto dell’incremento produttivo della sede di Novara, circostanza che da sola bastava ad autorizzare l’imprenditore alla decisione adottata;

era altresì irrilevante la successiva assunzione un anno dopo il trasferimento di altra lavoratrice presso la sede di Castagnito, con contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato, trattandosi anche in questo caso di fatto successivo;

la ritenuta legittimità della decisione aziendale determinava l’ingiustificatezza della mancata ripresa del lavoro da parte della signora F, e simmetricamente legittimi le sanzioni disciplinari conservative prima e il licenziamento poi.

L’appellante censura la decisione di primo grado laddove aveva mancato di ritenere il trasferimento discriminatorio e illegittimo per contrarietà a correttezza e buona fede: ciò doveva ritenersi aver determinato anche l’illegittimità del licenziamento, essendo giustificato il suo rifiuto di trasferirsi a Novara in base alla disciplina dell’art. 1460 c.c.

L’appello è fondato e come tale va accolto.

Il primo giudice ha operato una ricostruzione della vicenda sulla base di una atomizzazione dei comportamenti datoriali, che ha impedito una compiuta e realistica visione dei fatti, ed un suo corretto inquadramento sul piano dei principi giuridici.

La signora F, commessa preso la sede di Castagnito dell’appellata, è rientrata al lavoro dal periodo di astensione per maternità il 15.2.2010, dopo un’assenza di un anno e quattro mesi. Suo figlio ha compiuto l’anno di età l’8 marzo successivo e, dopo soli tre giorni dall’inoperatività del divieto di cui all’art. 56 del d.lgs. n.151/2001, si è vista trasferire ad oltre 150 km di distanza, da un punto vendita ad un altro della società che pure ne conta ben altri sette (di cui uno, ad Alba, aperto solo nel mese di ottobre 2009, v. dich. teste M nel corso della procedura d’urgenza), con un preavviso di quattro giorni.

A fronte della denuncia in via giudiziale dell’illegittimità del provvedimento, di cui si lamentava la discriminatorietà stante la propria condizione di lavoratrice madre, il Tribunale ha ricostruito l’intera vicenda seguendo pedissequamente le argomentazioni della S.n.c. P, e limitandosi a registrarne le tesi a sostegno, ritenendo insindacabile nel merito la scelta così operata, pur sempre motivata in base a ragioni organizzative (il decremento del fatturato della sede di Castagnito, la ventilata – e poi non realizzatasi – chiusura del negozio, l’aumento del fatturato a Novara) ritenute sussistenti, e tali da scongiurare ogni contrarietà a correttezza e buona fede.

Non condivide il collegio l’impostazione generale seguita, e l’affermazione di una sostanziale insindacabilità della scelta aziendale nei confronti proprio della signora F, che risulta contraria ai canoni interpretativi offerti dalla S.C., secondo cui “Il controllo giudiziale sulla legittimità del trasferimento del lavoratore ha ad oggetto l’accertamento in ordine alla sussistenza delle comprovate ragioni tecniche e organizzative che devono giustificarlo e, ferma restando l’insindacabilità dell’opportunità del trasferimento, salvo che risulti diversamente imposto dalla contrattazione collettiva, in applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede (art. 1375 c.c.) il datore di lavoro, qualora possa far fronte a dette ragioni avvalendosi di differenti soluzioni organizzative, per lui paritarie, è tenuto a preferire quella meno gravosa per il dipendente, soprattutto nel caso in cui questi deduca e dimostri la sussistenza di serie ragioni familiari ostative al trasferimento” (Cass. n.11597/2003).

Nei fatti, come si dirà in prosieguo, la P non chiede nemmeno di dimostrare la sussistenza di ragioni trasparenti e visibili per la scelta specifica della signora F, subito sostituita peraltro a Castagnito con altra lavoratrice, invece di procedere all’assunzione di altra dipendente a Novara.

Ma in relazione allo specifico caso di cui ci si occupa, il decidente pretermette ogni condizione a proposito della peculiare condizione della lavoratrice: e non sembra nemmeno avvicinato dal timore che quel trasferimento, intimato subito dopo la scadenza della tutela automatica fornita dalla legge, in realtà abbia rappresentato il mezzo per liberarsi di una dipendente madre che, dopo la lunga sospensione, ancora in futuro avrebbe potuto causare all’azienda costi e disagi aggiuntivi potendo fruire di permessi o far ricorso ad assenze giustificate dalla necessità di accudire un bambino così piccolo.

Eppure, rileva il collegio, la discriminatorietà del comportamento risultava supportata da elementi che, come richiede la legge (art. 40 del d.lgs. n.198/2006, cd. codice delle pari opportunità), apparivano “idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di atti, patti o comportamenti discriminatori”, sì che sarebbe spettato al datore di lavoro provare l’insussistenza della discriminazione. Tale configurazione dei rispettivi oneri di prova voluta dal legislatore – in adempimento a precisi obblighi imposti dalla legislazione europea – è stata del tutto ignorata dal tribunale che per l’appunto, ha ritenuto di far ricorso a rigidi canoni generali,  ignorando ogni considerazione della ragione sottostante per cui la discriminazione è stata denunciata.

Gli elementi addotti risultano dotati di notevole significatività in merito alla portata discriminatoria del comportamento aziendale:

innanzitutto, si ribadisce, il trasferimento è stato intimato dopo soli tre giorni dal compimento dell’anno di età da parte del bambino, e al termine di un’astensione dal lavoro di un anno e quattro mesi;

al rientro dal lavoro, la signora F è stata adibita alle  mansioni di cassiera, diverse da quelle precedentemente svolte (commessa alle vendite), che di lì a poco sarebbero state invocate come “utili” per far fronte al fabbisogno di Novara;

la sede di Castagnito non appariva certo necessitare di una riduzione di personale dal momento che, all’inizio dell’assenza della sig.F, la P aveva provveduto ad assumere a tempo indeterminato un altro commesso, il signor S F, tuttora in forza (v. verb. dich. 6.5.2010) e che presso quella sede hanno sempre operato e continuano ad operare quattro persone (v. anche dich. R).  Nel marzo del 2011 – a controversia ancora in corso avanti al tribunale di Alba, dopo il rigetto del reclamo contro l’ordinanza che respingeva il ricorso cautelare  – si è provveduto a reintegrare l’organico – depauperato del trasferimento della signora F – con l’assunzione di un’altra lavoratrice che, indipendentemente dalla forma contrattuale, è stata assegnata alle mansioni di commessa, mentre in precedenza, per ammissione dell’appellata, era stato utilizzato personale tramite agenzia di lavoro interinale (p.11 mem. cost. ex art. 416 c.p.c.). Tutto ciò tra l’altro contrasta con i dati contabili (del tutto generici) forniti dall’appellata, a proposito di un costante, e progressivo calo di vendite per quel negozio, che ad oggi mantiene la stessa forza lavoro di cui al momento del trasferimento;

l’andamento del fatturato è stato provato dall’appellata non attraverso la produzione di oggettivi dati contabili di bilancio, ma attraverso la predisposizione unilaterale di prospetti riassuntivi che han trovato conferma solo nelle generiche affermazioni dei dipendenti ancora in forza escussi sul punto. La produzione della copia di un estratto del  registro dei corrispettivi, limitato alle sedi di Castagnito e di Novara, non pare certo   assolvere all’onere di dimostrare (al fine di provare l’assenza di ogni discriminazione nei confronti della dipendente) la necessità del trasferimento: per quel che riguarda la sede di provenienza, si è già detto sopra; per quanto concerne la sede di Novara, osserva il collegio che presso la stessa, secondo le stesse allegazioni della P, risultano impiegati già dodici addetti, e non sono state prospettate ragioni dirimenti in base alle quali dover provvedere ad un trasferimento da una sede che poi è stata tempestivamente reintegrata nell’organico, e non ad una nuova assunzione;

nulla è stato dedotto a proposito del generale andamento aziendale, eventualmente ostativo ad un’assunzione aggiuntiva presso la sede di Novara: si tenga presente che, come risulta dall’organigramma prodotto dall’azienda (doc. 47), sono operative sette sedi in Piemonte ed una in Liguria, con circa sessantanove dipendenti (oltre ai responsabili ed agli addetti amministrativi e contabili, ed al personale stagionale). La teste M, impiegata amministrativa ha dichiarato che se si considera il fatturato di Castagnito con quello della sede di Alba aperta nell’ottobre del 2009, probabilmente non si registrerebbe alcun calo di vendite rispetto al periodo in cui era aperto solo Castagnito; inoltre, sempre a detta della teste, anche le sedi di Asti ed Alba erano in calo.

A fronte di dati di tale portata, l’azienda non ha motivato in alcun modo le ragioni per cui la scelta della dipendente da trasferire è caduta proprio su una lavoratrice madre, al rientro dalla maternità dopo una lunga assenza, che si pretendeva di inviare ad oltre 150 km di distanza dopo tre giorni dal primo compleanno di suo figlio: mentre, proprio in base al chiaro disposto legislativo, in presenza di elementi precisi e concordanti dedotti dalla lavoratrice, sarebbe spettato alla Paniate di dimostrare l’insussistenza della discriminazione.

Le omissioni, e in un certo senso, le stesse deduzioni avanzate dall’appellata, viceversa inducono la corte a ritenere positivamente provata la discriminazione diretta, non solo come effetto oggettivamente derivante dalle misure aziendali, ma come intenzione specifica sottostante ai singoli comportamenti.

Costituendosi nel giudizio di merito a seguito del procedimento d’urgenza, la P ha ribadito che le ragioni presupposto del provvedimento di trasferimento sono “riportabili alla necessità di collocare nel posto vacante in Novara un soggetto con attitudini e capacità atte a ricoprire le mansioni di cassiera” (p. 12 mem. cost.): per vero la signora Fu contesta di avere svolto in precedenza tali compiti, se non saltuariamente in alternativa a quelli suoi propri di commessa. Ma pur prescindendo da ciò, di certo stride con ogni ragionevolezza l’affermazione secondo cui il trasferimento della signora F si è reso necessario possedendo la predetta tali “attitudini e capacità atte a ricoprire le mansioni di cassiera”, che in realtà non richiedono alcuna specifica qualificazione o preparazione: sì che il motivo suona, più che a giustificazione, quale pretesto dietro cui coprire una misura palesemente irrazionale, come quella di spostare a 150 km di distanza una lavoratrice inquadrata al III livello del CCNL di settore: a meno, appunto, di ravvisarvi l’intento vistosamente discriminatorio, legato alla sua condizione personale.

Ancora: in corso di giudizio è stata smentita la ventilata chiusura della sede di Castagnito per mancato rinnovo del contratto di locazione, che pure al momento del disposto trasferimento era stata “una delle tante considerazioni prese in esame” per procedere al trasferimento della signora F. Lo stesso giudice di primo grado seguendo fedelmente le prospettazioni della resistente, ha superato l’obiezione della difesa attorea a proposito del successivo venir meno dell’eventualità, osservando che “la sussistenza delle ragioni legittimanti il trasferimento deve essere verificata con riguardo al momento in cui quest’ultimo viene adottato”: così dimenticando che al contrario, si era così dimostrato che il trasferimento non poteva essere messo in relazione con una decisione aziendale in realtà mai concretamente adottata. La disdetta del contratto di locazione non bastava evidentemente ancora per assumere una determinazione mai portata a compimento, e che comunque, ancor più, non potrebbe valere a far decidere il trasferimento della sola signora F, mentre tutti i suoi colleghi restavano al loro posto: salvo assumere, come chiave interpretativa, proprio la volontà di discriminare quella dipendente, e solo lei, per le ragioni collegate alla sua condizione di donna e di madre.

Del tutto acriticamente sono state accolte le difese datoriali a proposito della concreta offerta di un supporto alla sig. F al momento di affrontare le spese di trasloco e di trasferimento: secondo il giudice, infatti, la P avrebbe comunicato la sua disponibilità a corrispondere alla ricorrente tutte le indennità relative al trasferimento (p.6 sent.), quando, in realtà, con la lettera del 4.8.2010, la ditta ha espresso una disponibilità del tutto generica, proponendo anzichè il rimborso delle spese di trasloco, di provvedere allo stesso con propri mezzi, “con ogni miglior quantificazione delle ulteriori indennità qualora venga dimostrato il trasferimento della residenza e l’impossibilità di risoluzione anticipata della locazione in corso con le conseguenti perdite di pigione”. Anche in questo caso, si è voluto badare alla vicenda secondo un’ottica del tutto avulsa dalla considerazione della condizione della lavoratrice, costretta a lasciare la propria sede di lavoro, la propria abitazione e la necessaria rete di supporto per badare ad un bambino in tenerissima età,  per andare a 150 km di distanza a fare la cassiera per lo stesso datore di lavoro investendo somme non indifferenti per una nuova abitazione. L’imposizione, nel contesto aziendale in cui ci si muove, presenta tratti di evidente irragionevolezza, e nei fatti, risulta mirata direttamente a colpire quella lavoratrice, lo si ribadisce, proprio per le caratteristiche personali che presentava. Il dato unificante della discriminazione serve allora per ricondurre a diritto l’intera vicenda: non certo leggibile attraverso la meccanica ed asettica applicazione (peraltro nemmeno in sè condivisa dal collegio) dell’art. 2013 c.c., e della relativa possibilità di sindacato da parte del giudice del trasferimento del lavoratore, ma secondo un filo che credibilmente unisce i vari passaggi: dal trasferimento, alle sanzioni disciplinari, fino al licenziamento finale.

Questa corte si è già espressa in tema di rifiuto della lavoratrice colpita da discriminazione di riprendere l’attività lavorativa: rifiuto ritenuto giustificato ai sensi dell’art. 1460 c.c., che appunto autorizza una delle parti del contratto a rifiutare l’adempimento se l’altro, a sua volta, non adempie (v. sent. n.666/2010). Ancora di recente, la Corte di Cassazione (sent. n.4709/2012) ha ribadito il principio secondo cui “Il provvedimento del datore di lavoro avente ad oggetto il trasferimento di sede di un lavoratore, non adeguatamente giustificato a norma dell’art. 2103 cod. civ., determina la nullità dello stesso ed integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione di inadempimento (art. 1460 cod. civ.), sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l’ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio”.

Più in generale, sempre secondo la S.C., “Il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione “inadimplenti non est adimplendum”, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche allo loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse” (Cass., n.11430/2006; Cass., n.15796/2009)

Nel caso della signora F, l’inadempimento datoriale, concretizzatosi in un trasferimento illegittimo perchè discriminatorio (anche in quanto sostanzialmente ingiustificato), deve ritenersi abbia autorizzato la lavoratrice ad astenersi dalla ripresa del lavoro, proprio in considerazione del diverso valore degli interessi in gioco, delle diverse posizioni delle parti e della differente ripercussione delle loro condotte sul rispettivo assetto economico (e di vita).

Ciò comporta, ad avviso del collegio, l’illegittimità del licenziamento, perchè fondato su una giusta causa insussistente, e perchè venuto a completare una serie di azioni discriminatorie posta in essere nei confronti di una lavoratrice madre. Lungi dal provare la sussistenza di ragioni capaci di giustificare il primo dei provvedimenti, l’appellata è giunta sino alla espulsione della dipendente, motivandola facendo ricorso ad un’assenza che non integra altro che la legittima reazione alla violazione del suo diritto.

Anche in merito alla specifica impugnativa del licenziamento, il rigetto è stato favorito dall’avvenuta utilizzazione della tecnica del frazionamento della complessiva vicenda in singoli episodi: mentre il comportamento datoriale,  per le ragioni sin qui esposte, non può non risultare chiaramente discriminatorio nel suo complesso, sì che  discriminatorio – oltre che illegittimo – risulta il provvedimento espulsivo finale, fondato su giusta causa insussistente che si pretende di far discendere dalla pregressa discriminazione.

La ritenuta illegittimità del licenziamento pacificamente comporta l’applicazione del disposto dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: sì che la signora F ha diritto ad essere immediatamente reintegrata nel posto e a vedersi risarcire il danno, in misura corrispondente a tutte le mensilità perse di retribuzione (oltre all’integrale copertura contributiva).

A carico dell’appellata, integralmente soccombente, devono essere poste le spese di giudizio. Le stesse si liquidano come da dispositivo.

 

P . Q . M .

Visto l’art. 437 c.p.c.

in accoglimento dell’appello,

dichiara la nullità del trasferimento, delle sanzioni disciplinari e del licenziamento disposti nei confronti dell’appellante e, per l’effetto, condanna l’appellata a reintegrare l’appellante nel posto di lavoro presso l’unità locale di Castagnito, e a risarcire il danno da lei patito in misura pari alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva reintegrazione, oltre rivalutazione e interessi;

condanna l’appellata a rimborsare all’appellante le spese di entrambi i gradi, liquidate per il primo in euro 4.000,00 e per il presente grado in euro 5.000,00 oltre Iva e Cpa.

Così deciso all’udienza del 19.2.2013