Molestie,Tribunale di Firenze, sentenza del 16 ottobre 2013

 

TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE

Sezione lavoro

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

SENTENZA

Con ordinanza 28.05.12 a conclusione della fase sommaria ex art 1 comma 48 e 49 L. n. 92/12, era accolto il ricorso della lavoratrice, ritenendo la nullità del licenziamento intimatole con lettera 31.7.12, poi confermato con lettera 20.8.12, perché discriminatorio, in quanto aveva colpito la ricorrente, assunta come apprendista con mansioni di inserviente di mensa, in conseguenza a condotta (ingestione di sostanze velenose), quale atto autolesionistico che la medesima aveva tenuto sul luogo di lavoro perché molestata sessualmente dal tutor e non tutelata in alcun modo dal datore, che pure era a conoscenza della vicenda, in violazione dell’obbligo di protezione ex art. 2087 cc. Era quindi ordinata la reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro in mansioni, diverse dalle precedenti, ma adeguate al suo inquadramento durante il tempo necessario agli accertamenti sanitari relativi alle sue condizioni psicofisiche, con risarcimento retributivo dal recesso alla reintegra e regolarizzazione previdenziale e assicurativa, oltre accessori e spese di lite.

Premesso che il licenziamento era comunque illegittimo per violazione della procedura ex art. 7 L. 300/70 in quanto non preceduto da valida contestazione, la domanda di tutela reale era accolta (anche a a prescindere dal requisito occupazionale del datore) perché la condotta datoriale aveva violato l’art 25 Dlgvo n. 198/2006, con la conseguente applicazione dell’art. 18 comma 1 L. 300/1970 (così come modificato dalla Legge n. 92/12).

In particolare la ricorrente, in seguito al gesto di autolesionismo dalla stessa compiuto all’interno della mensa ove si svolgeva l’attività di impresa in regime di appalto, aveva agito ex art. 700 cpc chiedendo che fosse ordinato al datore di lavoro di porre fine alla sua sospensione cautelativa dal servizio disposta in conseguenza. Con ordinanza 5.7.12 il ricorso ex art. 700 cpc era stato respinto poiché, nonostante le molestie del collega risultassero confermate dall’istruttoria cautelare, non era emerso che all’epoca il datore fosse adeguatamente informato dell’intera vicenda, al puto tale da dover prendere provvedimenti ai sensi dell’art. 2087 cc.

Il licenziamento era quindi intimato con lettera 31.7.12, e confermato con lettera 20.8.12, per giustificato motivo soggettivo (inaffidabilità della lavoratrice in seguito al gesto di autolesionismo dalla stessa compiuto all’interno della mensa ove si svolgeva l’attività di impresa in regime di appalto), nonché oggettivo (richiesta della committente dell’appalto relativo al servizio di mensa di allontanare la stessa lavoratrice in quanto autrice del medesimo gesto). E tale licenziamento era ritenuto discriminatorio in quanto, dopo il giudizio cautelare che aveva fatto emergere il fatto, il datore di lavoro era ormai a conoscenza delle condotte abusive che la ricorrente aveva subito sul luogo di lavoro da parte del cuoco, e ciononostante non l’aveva tutelata in alcun modo, continuando anzi a privilegiare la posizione del molestatore accusato.

La srl A v B opponeva l’ordinanza ex art 1 comma 51 L. n. 92/12, negando:

– l’ illegittimità formale del licenziamento per mancanza di previa contestazione disciplinare, poiché il recesso seguì alle comunicazioni del giorno 31.07.2012 (lettera di preavviso di licenziamento) e 20.08.2012 (lettera di conferma del licenziamento), la prima delle quali avrebbe assolto lo scopo dell’art. 7 Statuto dei Lavoratori, di rendere nota al lavoratore la condotta ascritta dal datore a fini disciplinari;

– il carattere discriminatorio del licenziamento fondato sulla circostanza che il datore di lavoro, pur essendo a conoscenza dei fatti, avrebbe continuato a privilegiare la versione del lavoratore accusato, senza assolvere il suo obbligo di protezione nei confronti della lavoratrice. Infatti non aver ricevuto come verità assoluta la versione dei testimoni di controparte troverebbe la propria giustificazione nella stessa ordinanza che, respingendo il ricorso ex art. 700 cpc, li aveva ritenuti inattendbili. Il districarsi in vicende di rilievo penale, e la conseguente presa di posizione in favore di uno o l’altro dei due lavoratori, spettava solo alla magistratura e non al datore, il quale piuttosto (non prendendo posizione fra accusatrice ed accusato) si era correttamente attenuto al principio costituzionale di non colpevolezza ed al rispetto del contraddittorio nei confronti del molestatore (mancato in tutti i giudizi finora introdotti dalla lavoratrice nei confronti del datore), senza compiere quindi alcuna discriminazione contro la lavoratrice molestata.

– il nesso di causalità, che era onere della lavoratrice provare, tra le supposte molestie e il gesto autolesionismo;

– il rilievo contenuto nell’ordinanza opposta, secondo cui prima del licenziamento la società avrebbe dovuto verificare le condizioni psichiche della lavoratrice, dal momento che nessuna analisi avrebbe potuto garantire che il gesto non si sarebbe più ripetuto in futuro.

– il carattere ritorsivo del licenziamento, perché la società non lo aveva intimato a seguito del giudizio cautelare. Piuttosto, la condotta tenuta dalla parte datoriale, di attribuzione della lavoratrice a mansioni diverse prima, e di licenziamento poi, sarebbe dovuta esclusivamente alle esigenze dell’impresa di tutelare il suo rapporto con il committente e con gli altri lavoratori dipendenti.

Per queste ragioni, l’opponente chiedeva che, ritenuto legittimo il licenziamento, revocata l’ordinanza ex art. 1 comma 49 L. 92/12 e la domanda della lavoratrice fosse respinta.

N E H A, si costituiva ribadendo che:

– il licenziamento era illegittimo per violazione dell’art 7 L.300/1970 dal momento che nella duplicità di lettere di licenziamento la lavoratrice non aveva mai ricevuto una vera e propria contestazione disciplinare

– il licenziamento aveva natura discriminatoria (art 25 Dlgs. 198/2006) poiché ex art 2087 cc, il datore di lavoro, venuto a conoscenza delle vessazioni subite dalla ricorrente da parte del “tutor”, avrebbe dovuto adottare i provvedimenti necessari per tutelarne l’integrità morale e fisica, e verificare l’idoneità psichica della lavoratrice in vista del suo futuro rientro  lavorativo. In particolare, ciò non si sarebbe verificato, e sarebbe stata negata anche la richiesta della ricorrente di essere almeno adibita a mansioni diverse e inferiori. Il licenziamento discendeva da totale omissione del datore rispetto agli obblighi di protezione, ed era intimato a causa del gesto autolesionistico commesso dalla ricorrente in data 11.11.2011, pur sapendo il datore che esso era dovuto alle continue vessazioni subite in ambito lavorativo. Anziché punire il vero responsabile, la società avrebbe condannato la vittima, peraltro così esaudendo le richieste di allontanamento provenienti dello stesso molestatore.

– Il licenziamento sarebbe altresì discriminatorio in violazione dell’art 1345 cc perché posto in essere per ragioni riguardanti le condizioni di salute della vittima, di cui sarebbe stato corresponsabile lo stesso datore di lavoro

– infine il licenziamento della lavoratrice era anche ritorsivo, perché intervenuto dopo il rigetto del ricorso ex art. 700 cpc, a voler punire la lavoratrice per la sua iniziativa giudiziaria.

Per queste ragioni, l’opposta in tesi chiedeva che fosse respinta l’opposizione con conferma dell’ordinanza, ed in ipotesi che fosse dichiarato  illegittimo il licenziamento ex art 7 L. 300/1970, domanda rimasta assorbita in primo grado.

Motivi

Il licenziamento qui impugnato deve essere ritenuto discriminatorio per motivi di genere e di conseguenza, confermando sul punto l’ordinanza che aveva riconosciuto la tutela ex art. 18 comma 1 L. 300/70, l’opposizione ex art. 1 comma 51 L. 92/12 va respinta.

Le stesse parti convengono di ricavare i fatti rilevanti ai fini della presente decisione dai giudizi fra loro svolti. Infatti, non hanno chiesto nuove prove nella fase di opposizione, limitandosi entrambe a fare riferimento all’istruttoria svolta nel precedente giudizio ex art. 700 cpc, nel quale – seppur a fini diversi dalla odierna impugnazione del licenziamento – era già stata indagata la vicenda relativa alle molestie sessuali subite dalla lavoratrice, quale apprendista addetta alla mensa, da parte del cuoco suo tutor (vedi prova assunta all’udienza 21.5.12, i cui verbali sono stati riprodotti nel corso del presente giudizio di opposizione, ud. 1.10.13).

Per ricostruire la vicenda è decisiva la deposizione resa nel 700 cpc dalla collega di lavoro H H, a proposito del fatto che nel corso dell’anno 2011 il cuoco vessava in modo abituale e ripetuto non solo la lavoratrice ma anche la medesima teste, con insulti e minacce relative all’organizzazione dell’orario di lavoro. E soprattutto il cuoco era autore di ripetute proposte sessuali nei confronti di entrambe le lavoratrici alle quali, nonostante i loro costanti rifiuti, continuava ad offrire somme di denaro perché accettassero le sue proposte.

L’ulteriore deposizione resa nel 700 cpc dalla collaboratrice del datore L T non era in grado di smentire le varie molestie del cuoco nei confronti della lavoratrice, limitandosi essa negare che nel medesimo periodo avesse ricevuto dalla lavoratrice segnalazioni relative a vessazioni di qualsiasi tipo.

In conclusione devono ritenersi confermate le molestie anche sessuali subite nel corso dell’anno 2011 dalla lavoratrice quale apprendista, nell’ambito di una più complessiva condotta vessatoria anche professionale inflittale dal tutor.

Il gesto di autolesionismo compiuto dalla lavoratrice all’interno della mensa il giorno 11.11.2011 con ogni probabilità deve ritenersi causato, o quanto meno significativamente concausato, dalla condotta plurimolesta che nell’ambiente di lavoro essa subiva in modo ripetuto ed insistito da tempo, nonostante i suoi continui rifiuti, condotta peraltro inflitta dal tutor al quale essa era affidata come apprendista, e i cui effetti destabilizzanti sono ulteriormente avvalorati considerando la giovane età della lavoratrice (nata nel 1989). In altri termini lo stesso gesto si presenta come una manifestazione estrema di rabbia e/o di disperazione, comunque significativa del rifiuto di sottomettersi.

Non è decisivo stabilire se al momento del gesto (novembre 2011) il datore di lavoro fosse con certezza a conoscenza dei motivi personali della lavoratrice. Infatti, il licenziamento era intimato a grande distanza di tempo (luglio / agosto 2012) laddove nel frattempo, non foss’altro attraverso le prove assunte nel giudizio ex art. 700 cpc, il datore era evidentemente venuto a conoscenza dell’intera vicenda.

E allora, il nucleo della questione controversa consiste nello stabilire se il licenziamento, intimato dopo l’avvenuta conoscenza delle molestie (o comunque dopo che le medesime molestie avevano trovato conferma testimoniale in un giudizio), e fondato su GMO e GMS comunque connesso al gesto di autolesionismo,  rappresenti o meno condotta discriminatoria per motivi di genere.

La risposta affermativa parte dall’esame delle nozioni di riferimento, enunciate nel Dlgvo n. 198/06, Codice delle Pari Opportunità.

Ai sensi dell’art. 25 é “discriminazione diretta” qualsiasi provvedimento datoriale produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici in ragione del loro sesso, o comunque riservando loro un trattamento meno favorevole rispetto a quello di altro lavoratore in situazione analoga. Ai sensi dell’art. 26 sono considerate “discriminazioni” anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati posti in essere per ragioni connesse al sesso, che violano la dignità di una lavoratrice e creano un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Inoltre sono ritenute “ discriminazioni” altresì le molestie sessuali, quali comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica e verbale, che violano la dignità della lavoratrice e creano il medesimo clima.

E fino a qui la qualificazione normativa di discriminazione concerne la condotta del cuoco, realizzata nel contempo con vessazioni relative al rapporto di lavoro e con avances sessuali sgradite, reiterate ed insistite.

E ancora, ai sensi dell’art. 26, sono considerati “discriminazioni” i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice per il fatto di avere rifiutato di sottomettersi alle medesime molestie, ed in particolare i trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che, a loro volta, costituiscano reazione ad una protesta della lavoratrice volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento fra uomini e donne. Infine, sono nulli i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro delle vittime delle molestie adottati in conseguenza del rifiuto di sottomettersi.

Tale ulteriore qualificazione normativa va riferita alla condotta datoriale (quanto meno nel periodo successivo al ricorso ex art. 700 fino al licenziamento) consistita nel non avere tenuto nel debito conto la dimostrazione giudiziale delle gravi molestie subite nel 2011 dalla lavoratrice, ed il conseguente nesso di causalità fra le medesime e il gesto di autolesionismo dell’11.11.11, ed avere quindi fondato il licenziamento proprio su condotta della lavoratrice espressiva del rifiuto di sottomettersi alle molestie.

La disciplina speciale del Codice delle Pari opportunità ora illustrata mostra allora la particolare incongruenza delle motivazioni datoriali, ancora diffusamente ribadite nella presente opposizione.

Non è infatti in radice condivisibile l’argomento secondo il quale, a fronte della denuncia di una lavoratrice a proposito di molestie (anche sessuali) subite da un superiore sul luogo di lavoro, trattandosi di fatti reato, il datore debba attenersi al principio di non colpevolezza (penale) in favore del denunciato, astenendosi quindi dal prendere posizione sulla vicenda, anche dal punto di vista dei provvedimenti relativi al rapporto di lavoro sia con il molestatore che con la molestata. Né del resto ha senso invocare il principio del contraddittorio nei confronti del molestatore, dal momento che qui non si discute di provvedimenti disciplinari nei confronti di quest’ultimo, bensì di provvedimenti disciplinari contro la molestata.

Insomma è del tutto fuor di luogo invocare a fondamento del licenziamento “principi di civiltà giuridica che non possono esporre chi li osserva a un giudizio di partigianeria o di faziosità”. Al contrario la generale disciplina degli obblighi datoriali di protezione dell’integrità psico-fisica dei lavoratori (art. 2087 cc), e la speciale disciplina antidiscriminatoria in favore della lavoratrice molestata sessualmente sul luogo di lavoro (art. 25 e 26 Dlgvo cit.), impedivano assolutamente di risolvere il rapporto addebitando dal punto di vista oggettivo e soggettivo alla lavoratrice un atto di autolesionismo a sua volta espressione del rifiuto di sottomettersi a vessazioni professionali e sessuali.

In conclusione, qualificata come discriminazione per sesso sia la condotta molesta del tutor, sia quella del datore di lavoro a sua volta tenuta – dichiaratamente – per sanzionare la lavoratrice che aveva compiuto un atto di autolesionismo in conseguenza della medesima molestia, ne discende che il licenziamento è illecito e discriminatorio (art. 26 comma 3) e quindi nullo con le conseguenze di cui all’art. 18 comma 1 L. 300/70 (così come modificato dalla L. 92/12 riferibile ratione temporis al licenziamento).

Le spese di lite, liquidate come da D.M. 140/12, seguono la soccombenza

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita, così dispone:

visto l’art. 1 comma 57, respinge l’opposizione e conferma l’ordinanza opposta;

condanna l’opponente a rimborsare all’opposta le spese di lite, liquidate in € 3.300, oltre i.v.a. e c.p.a.

Sentenza resa ex articolo 429 cpc, pubblicata mediante lettura alle parti presenti ed allegazione al verbale.

Firenze, 16.10.2013                                                                                                         Il Giudice

  1. Roberta Santoni Rugiu