Discriminazione per nazionalità, Tribunale di Firenze, ordinanza collegiale del 21 giugno 2017

 

TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE

Sezione Lavoro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA

PARTE RECLAMANTE

O. M.

L’ALTRO DIRITTO ONLUS CENTRO DI DOCUMENTAZIONE SU CARCERE DEVIANZA E MARGINALITA’

PARTE RECLAMATA

 

Il Tribunale, in composizione collegiale, nelle persone dei magistrati:

dott. Vincenzo Nuvoli Presidente

dott.ssa Anita Maria Brigida Davia Giudice

dott.ssa Nicoletta Taiti Giudice rel. ed est.

sul reclamo ex art 669 terdecies cpc proposto dal Ministero della Giustizia avverso l’ordinanza in data 27.5.2017 del Tribunale di Firenze – sezione lavoro ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

La sig.ra O M e l’Associazione L’Altro diritto Onlus, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità, hanno promosso istanza cautelare nell’ambito del giudizio ex artt 44 D.Lgs. n. 268/1998, 28 d.l.vo n. 150/2011, 702 bis cpc, avente ad oggetto la dedotta condotta discriminatoria della P.A in relazione al bando del concorso indetto in data 18.11.2016 dal Ministero della Giustizia per 800 posti a tempo indeterminato (profilo di assistente giudiziario, area funzionale II, fascia economica F2), bando che richiedeva per la partecipazione il requisito della cittadinanza italiana.

Nel merito, hanno chiesto, previo accertamento della natura discriminatoria del bando nella parte (art. 3) in cui limita l’accesso alla selezione ai soli cittadini italiani, escludendo pertanto i cittadini comunitari, i cittadini stranieri in possesso dei requisiti di cui all’art. 38 D.Lgs. 165/2001, i titolari di carta blu e i familiari non comunitari di cittadini italiani, ordinarsi al Ministero della Giustizia di modificare il bando, eliminando la clausola in contestazione, ammettendo alla procedura concorsuale O M e gli altri candidati stranieri che hanno presentato domanda, riaprendo i termini per consentire la presentazione di ulteriori domande di ammissione.

In via cautelare, sul presupposto della condotta discriminatoria, le ricorrenti hanno chiesto l’ammissione con riserva, tanto di O M quanto degli altri candidati privi della cittadinanza italiana che avessero proposto domanda, alle prove preselettive e selettive, nonché la sospensione della procedura concorsuale sino alla definizione del giudizio di merito per permettere la rimessione in termini di coloro che, non essendo cittadini italiani, non avevano proposto domanda.

Il ricorso ex art. 700 cpc è stato accolto con ordinanza in data 27.5.2017, la quale ha disposto: a) l’ammissione alle prove preselettive e, se superate, a quelle selettive della ricorrente O M e di coloro che, in difetto del requisito della cittadinanza italiana, avevano presentato domanda, in entrambi i casi, in quanto rientranti in una delle categorie di cui all’art 38, comma 1 e comma 3 bis, D.Lgs. n. 165/2001; b) la sospensione della procedura concorsuale sino alla conclusione del giudizio di merito per permettere ai cittadini comunitari, e agli stranieri rientranti in una delle categorie di cui all’art 38, comma 1 e comma 3 bis, D.Lgs. n. 165/2001, di essere rimessi nei termini per presentare la domanda e per partecipare con riserva alle prove preselettive e, se superate, a quelle selettive.

Avverso tale ordinanza il Ministero della Giustizia ha proposto reclamo, con contestuale istanza di sospensione dell’ordinanza cautelare; con ordinanza in data 7.6.2017 è stata parzialmente sospesa l’esecuzione dell’ordinanza reclamata ai sensi dell’art 669 terdecies, ult. comma, cpc.

Il reclamo è stato quindi discusso dalle parti all’udienza del 21.6.2017.

A scioglimento della riserva formulata in tale sede, il Collegio – in relazione alle singole questioni di seguito riportate e in ordine alle quali vengono sintetizzate le posizioni delle parti come argomentate nella due fasi cautelari – osserva quanto segue.

GIURISDIZIONE .

È infondata l’eccezione sollevata sul punto dal Ministero della Giustizia.

Il Ministero reclamante ritiene che le impugnazioni dei bandi di concorso rientrino tra le materie in cui sussiste la giurisdizione del Giudice amministrativo, ai sensi dell’art 63, comma 4, D.Lgs. n. 165/2001, secondo cui: “Restano devolute alla giurisdizione del Giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”.

Secondo il reclamante il bando di concorso è atto riconducibile agli atti di macro-organizzazione ex art. 2 D.Lgs. n. 165/2001, atti che costituiscono espressione di potere pubblicistico, con conseguente giurisdizione del G.A.

Il Ministero della Giustizia ritiene altresì che la previsione del requisito della cittadinanza di cui al bando non abbia carattere discriminatorio: a tale proposito, il reclamante richiama: gli artt. 97, 98, 51 Cost., secondo cui possono accedere ai pubblici uffici solo i cittadini con i requisiti previsti dalla legge, e solo quest’ultima può parificare ai cittadini italiani i non cittadini; l’art. 70, comma 13, del D.Lgs. n. 165/2001, che pone il requisito della cittadinanza per l’accesso ai pubblici uffici, precisando che il requisito non è richiesto per i soggetti appartenenti all’Unione Europea, salvo le eccezioni di cui al DPCM 7.2.1994.

Assume infine che non può essere esaminata la condotta discriminatoria sic et simpliciter, ma appare necessario il sindacato sull’atto prodromico (cioè sul bando) unicamente sotto i profili dei vizi dell’atto amministrativo.

Parte reclamata, per contro, evidenzia come nel presente giudizio sia stata chiesta una tutela per condotte discriminatorie, con conseguente giurisdizione del Giudice ordinario, giurisdizione sussistente anche nelle ipotesi in cui si tratti di sindacare atti e/o i comportamenti posti in essere dalla P.A.; sotto tale profilo invoca la pronuncia della Suprema Corte (Cass. SS.UU. n. 3670/2011) che, in tale materia, ha ritenuto sussistere veri e propri diritti assoluti, derivanti dal fondamentale principio costituzionale di parità ex art 3 Cost., nonché dalle norme sovranazionali; ciò anche allorquando le condotte della P.A. si esplichino nell’ambito di procedimenti per il riconoscimento di utilità da parte della P.A., davanti alle quali il soggetto privato vanti una mera posizione di interesse legittimo e non di diritto soggettivo.

Il Collegio condivide le argomentazioni dell’ordinanza reclamata, laddove ha ritenuto la sussistenza della giurisdizione del G.O., essendo irrilevante il fatto che il comportamento discriminatorio dedotto consista nell’emanazione di un atto amministrativo, tenuto conto altresì che i principi affermati nella giurisprudenza di legittimità e il quadro normativo costituzionale, nazionale e sovranazionale depongono per la configurazione del diritto alla parità di trattamento come un diritto soggettivo assoluto (Cass. SS.UU. n. 3670/2011 cit.).

Ulteriore pronuncia della Suprema Corte (Cass. SS.UU. n. 7186/2011) ha ribadito che “anche quando [le discriminazioni] siano attuate nell’ambito di procedimenti per il riconoscimento da parte della pubblica amministrazione di utilità rispetto a cui il soggetto privato fruisca di una posizione di interesse legittimo e non di diritto soggettivo, la tutela del privato rispetto alla discriminazione possa essere assicurata secondo il modulo del diritto soggettivo e delle relative protezioni giurisdizionali”, e, inquadrando la medesima tutela nell’ambito dei diritti soggettivi assoluti, ha precisato che “………d’altra parte è lo stesso testo del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, con il suo riferimento incondizionato ai comportamenti sia dei privati che della pubblica amministrazione (comma 1), che non consente di escludere l’esperibilità delle azioni ivi previste solo perché la p.a. ha attuato la discriminazione in relazione a prestazioni rispetto a cui il privato non fruisce di una posizione di diritto soggettivo. Anche il D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 3, precisa che il relativo principio di parità di trattamento opera sia nel settore pubblico che in quello privato (comma 1), e fa particolare riferimento all’accesso all’occupazione e al lavoro “compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione” (lett. a) e all’accesso a ogni tipo di prestazione sociale (lett. e) e seguenti), mentre l’unica eccezione alla giurisdizione del giudice ordinario è prevista in favore della giurisdizione amministrativa esclusiva – in quanto tale estesa alla tutela dei diritti soggettivi – relativa al personale alle dipendenze della pubblica amministrazione in regime di diritto pubblico a norma del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 3, comma 1, (comma 7 del cit. art. 3)”.

LEGITTIMAZIONE AD AGIRE DELL’ASSOCIAZIONE.

Preliminarmente, si impongono alcune considerazioni su quanto dedotto dal Ministero reclamante nelle memorie depositate il 21.6.2017, con riferimento alla comunicazione U.N.A.R. (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) Dipartimento pari opportunità Presidenza Consiglio dei Ministri (prodotta da parte reclamata), da cui si evince che l’associazione L’Altro Diritto Onlus ha ottenuto la richiesta iscrizione nel “Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni“ di cui all’art. 6 del D.Lgs. n. 215/2003 di “Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica”.

Il reclamante assume che, da quanto risulta dal registro delle associazioni e degli enti che svolgono

attività nel campo della lotta alle discriminazioni di cui all’art. 6 D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215 pubblicato sul sito internet dell’U.N.A.R. – Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le pari opportunità, all’indirizzo http://www.unar.it, non risulta essere inserita l’associazione oggi reclamata, comparendo in tale elenco altra associazione, avente medesima sede e denominata “L’Altro diritto (Centro Adirmigranti)”.

Si ritiene dalla reclamante che, poiché l’art. 6 D.Lgs. n. 215/2003 prevede come requisito necessario affinché le associazioni possano ottenere l’iscrizione nel predetto elenco che lo statuto delle stesse “…preveda come scopo esclusivo o preminente il contrasto ai fenomeni di discriminazione e la promozione della parità di trattamento…”e poiché nello Statuto dell’associazione resistente non è indicata (si veda in particolare, l’art. 2, sul carattere e sulla finalità dell’associazione) la finalità della lotta alla discriminazione, dovrebbe ritenersi che l’associazione reclamata non sia la stessa che si è iscritta nel registro del citato art. 6, come peraltro attesterebbe la diversa denominazione (la reclamata è denominata “L’altro Diritto ONLUS Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità”; quella iscritta nella lista, “L’Altro Diritto Centro Adirmigranti”).

Il Collegio osserva come dalla documentazione prodotta dall’Associazione resistente sia desumibile la coincidenza tra l’associazione reclamata e quella che è iscritta nel registro di cui all’art. 6 D.Lgs. n. 215/2003.

Infatti, tanto la domanda 19.6.2014 di iscrizione al registro, quanto la successiva comunicazione 20.1.2015 di iscrizione fanno riferimento all’Associazione “L’Altro diritto Onlus”, con sede legale in Firenze, via delle Pandette n. 35 c/o la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università, stessa sede legale dell’Associazione presente nell’elenco U.N.A.R. e indicata quale “L’Altro Diritto (Centro adirmigranti)”. Nel verbale 12.12.2016 del direttivo de L’Altro Diritto ONLUS, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità, si riferisce di una segnalazione ricevuta “dagli operatori dell’Altro Diritto della rete di sportelli adirmigranti”, a riprova che, come dedotto dalla reclamata, il termine “adirmigranti” fa riferimento a un’articolazione interna dell’Onlus (nello Statuto, tra i compiti dell’Associazione vi è quello di attivare sportelli di informazione legale e giustizia riparatrice); ne costituisce ulteriore conferma la circostanza che l’indirizzo mail de ”L’Altro Diritto”, associazione che ha richiesto e ottenuto l’iscrizione, è adirmigranti@altrodiritto.unifi.it.

Sotto tale profilo, dovendosi ritenere provata l’iscrizione dell’Associazione reclamata nell’elenco di cui al primo comma dell’art. 5 D.Lgs. 215/2003, ne sussiste la legittimazione ad agire ai sensi di tale norma a sostegno della ricorrente O M.

Sotto diverso profilo, ad avviso del Collegio non è invece ravvisabile la legittimazione ad agire dell’Associazione reclamata, ai sensi dell’art. 5, terzo comma, D.Lgs. 215/2003, per la dedotta ipotesi di discriminazione collettiva.

In proposito, si osserva che il Ministero della Giustizia ha eccepito il difetto di legittimazione de L’Altro diritto Onlus, sostenendo che l’art. 5, comma 3, D.Lgs. n. 215/2003, nel prevedere la legittimazione delle associazioni inserite nell’elenco di cui al comma 1 ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione fa riferimento alla nozione di discriminazione dettata dall’art. 2 del D.Lgs. n. 215/2003, il quale limita l’efficacia della disposizione legislativa alle ipotesi di discriminazione diretta o indiretta per razza od origine etnica; secondo l’Amministrazione reclamante, poiché nella fattispecie oggetto di causa le ricorrenti deducono un diverso fattore di discriminazione (e cioè quello per ragioni di nazionalità), non sarebbe applicabile il citato art. 5, comma 3, mentre l’art. 44, comma 10, del D.Lgs. n. 268/1998 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in caso di discriminazione collettiva, legittima all’azione solo le rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale.

Per contro, L’Altro diritto Onlus deduce l’applicabilità dell’art 5, comma 3, D.Lgs. n. 215/2003 nonché l’art . 44 d.l.vo n. 268/1998 sulle discriminazioni per motivi di razza, origine etnica e nazionali, rilevando la legittimazione dell’Associazione a tutela di tutti i soggetti non specificamente individuabili, ma lesi anche solo in via potenziale; in particolare, richiama la recente giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. n. 11165/2017) che ha affrontato il tema della legittimazione ad agire delle associazioni per le discriminazioni collettive per ragioni di nazionalità in relazione alla normativa di cui al decreto legislativo 215/2003.

Osserva il Collegio che l’art 5 D.Lgs. n. 215/2003 (in tema di legittimazione ad agire), dopo avere previsto (al primo comma) la legittimazione ad agire delle associazioni e degli enti ad adiuvandum del soggetto passivo della discriminazione, al terzo comma recita: “Le associazioni e gli enti inseriti nell’elenco di cui al comma 1 sono, altresì, legittimati ad agire ai sensi dell’art. 4 nei casi di discriminazione collettiva, qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione”.

La norma in questione attribuisce la legittimazione con riferimento al precedente art. 4, il quale disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti “avverso gli atti e i comportamenti di cui all’art. 2”; articolo, quest’ultimo, che viene richiamato anche dal secondo comma del citato art. 4 (Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una delle discriminazioni di cui all’art 2 […]).

L’art. 2 definisce la nozione di discriminazione esordendo “ai fini del presente decreto, per principio di parità di trattamento, si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica…; per poi distinguere tra discriminazione diretta e indiretta, entrambe correlate al fattore discriminatorio della razza e origine etnica.

L’art. 1 del decreto legislativo in esame, nel definire l’oggetto della disciplina normativa, precisa a sua volta che tale decreto reca disposizioni relative “…. all’attuazione della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica”.

Peraltro, che il D.Lgs. 215/2003 si riferisca alle sole discriminazioni per ragioni di razza e di etnia, con esclusione di quelle per nazionalità, è espressamente palesato all’art. 3, nel quale viene definito l’“ambito di applicazione” del decreto.

Tale norma, oltre a prescrivere, al primo comma, che “il principio di parità di trattamento senza distinzione di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale, secondo le norme previste dall’art 4….”, al comma secondo, espressamente prevede: “il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relative all’ingresso, al soggiorno, all’accesso, all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei paesi terzi e degli apolidi…..”.

L’espressa limitazione della disciplina alle sole discriminazioni a causa della razza o dell’origine etnica è, del resto, conforme alla direttiva 2000/43/CE, della quale il D.Lgs. 215/2003 costituisce attuazione, che, all’art. 3, punto 2., precisa: La presente direttiva non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità […].

Alla stregua del tenore testuale del D.Lgs. 215/2003, che limita espressamente l’ambito della disciplina in esso prevista alle discriminazioni a causa della razza o dell’origine etnica, la legittimazione ad agire delle associazioni, ex art. 5, terzo comma, D.Lgs. 215/2003, per le ipotesi di discriminazione collettiva, deve ritenersi limitata alle discriminazioni per ragioni di razza o di etnia, e non può essere estesa al diverso fattore dedotto a fondamento della domanda svolta nel presente giudizio, nel quale viene azionata la discriminazione per ragioni di nazionalità (posto che il bando impone il requisito di cittadinanza italiana per l’accesso a impiego presso la P.A.).

La recente giurisprudenza di legittimità (Cass. 8.5.2017 n. 11165), invocata da parte resistente e richiamata nell’ordinanza reclamata, ha peraltro ritenuto che Nelle discriminazioni collettive in ragione del fattore della nazionalità, ex artt. 2 e 4 del d.lgs. n. 215 del 2003 ed art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998, sussiste la legittimazione ad agire in capo alle associazioni ed agli enti previsti dall’art. 5 d.lgs. n. 215 del 2003 (nello stesso senso, anche la coeva Cass. 8.5.2017 n. 11166).

Tale orientamento, partendo dalla considerazione che L’art. 43, 1 e 2 commi del t.u. sull’immigrazione considera la nazionalità tra i fattori di discriminazione vietati in ogni campo della vita sociale, con una previsione che comprende atti di qualsiasi tipo, inclusivi anche di offese ad interessi di tipo collettivo; e pertanto anche le discriminazioni definite collettive, afferma che Quando il d.lgs. 215/2003 (all’art.2, 2° comma) prevede, anzitutto, che sia “fatto salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2” , è a questa nozione generale che intende quindi fare riferimento ovvero alla discriminazione di natura diretta o indiretta, individuale o collettiva, ivi regolata come oggettiva, e giunge a concludere che quando, poi, all’art. 4, comma 1, il medesimo d.lgs. 215/2003 stabilisce che “la tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all’articolo 2 si svolge nelle forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico” è alle stesse discriminazioni (individuali e collettive, dirette ed indirette) ivi previste che intende rivolgersi, attraverso una previsione che riconnette logicamente lo strumento processuale alla nozione sostanziale.

In sostanza, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’art. 2, comma 2, D.Lgs. 215/2003, il quale detta la nozione di discriminazione, nel fare salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero,

approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, mutuerebbe la nozione di discriminazione ivi contenuta (basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose); pertanto, nonostante la limitazione dell’ambito di applicazione prevista, in particolare, dal citato art. 3, comma 2, D.Lgs. 215/2003, la legittimazione ad agire in relazione a discriminazione collettiva ai sensi dell’art. 5 potrebbe essere riferita anche a fattori di discriminazione (quali la nazionalità) diversi da razza od origine etnica.

Peraltro, secondo tale orientamento ermeneutico, non riconoscere la legittimazione attiva delle associazioni di cui all’art. 5 D.Lgs. n. 215/2003 nei casi di discriminazione collettiva per il fattore nazionalità si tradurrebbe in una ingiustificata eccezione rispetto alle innumerevoli fattispecie normative di attribuzione a enti esponenziali della legittimazione ad agire per la tutela di discriminazioni collettive, con conseguente ipotizzabile illegittimità costituzionale (per contrasto con gli artt. 3, comma 1 e 2, e 24 Cost.) della disciplina normativa di cui al D.Lgs. n. 215/2003.

Ad avviso del Collegio, l’autorevole precedente della Corte di legittimità non è condivisibile.

Va premesso, in proposito, che Nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercè l’esame complessivo del testo, della “mens legis” […] Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare […] (Cass. 6.4.2001 n. 5128).

Nel caso di specie, il tenore testuale del D.Lgs. 215/2003 è chiaro e univoco nell’escludere dall’ambito della sua applicabilità le fattispecie discriminatorie diverse da quelle a causa della razza o dell’origine etnica; a fronte di tale espressa limitazione del fattore di discriminazione disciplinato, l’art. 2, comma 2, del D.Lgs. n. 215/2003 (secondo cui E’ fatto salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) costituisce unicamente una conferma della perdurante vigenza della disciplina che, in relazione alle discriminazioni per i medesimi fattori di razza ed etnia, era stata dettata dall’art. 43, 1° e 2° co., D.Lgs. 286/1998, e che avrebbe potuto essere ritenuta abrogata dal D.Lgs. 215/2003, in quanto norma successiva.

Tale interpretazione della clausola di salvezza trova conferma nell’art. 29 L. 39/2002, contenente la delega per l’attuazione della direttiva 2000/43/CE (direttiva poi attuata con il decreto legislativo n. 215/2003), il quale prevede che l’esercizio della delega possa avvenire “…..anche attraverso la modifica e l’integrazione delle norme in materia di garanzie contro le discriminazioni, ivi compresi gli articoli 43 e 44 del testo unico…. di cui al d.l.vo n. 286/1998”; in tale contesto normativo, la conferma della vigenza dell’art. 43, 1° e 2° comma, è univocamente interpretabile come una espressa manifestazione del mancato esercizio della facoltà concessa al legislatore delegato di modificare la norma in questione, e della perdurante vigenza della stessa in relazione ai fattori di discriminazione disciplinati dal D.Lgs. 215/2003.

Conferma tale ricostruzione il coevo D.Lgs. n. 216/2003 (Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), il quale, nel dettare disposizioni relative all’attuazione della parita’ di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’eta’ e dall’orientamento sessuale, all’art. 2, comma 2, fa parimenti salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2.

Stante la natura cautelare del presente procedimento, non possono essere esaminati i dubbi di illegittimità costituzionale (anche per contrasto con i principi di derivazione comunitaria) che la citata pronuncia della Corte di cassazione prospetta nell’ipotesi di inapplicabilità dell’art. 5, 3° comma, D.Lgs. 215/2003 alle discriminazioni per nazionalità. Va peraltro rilevato, sul punto, che la sentenza emessa Corte di giustizia CE nel procedimento C-54/07 (Firma Feryn), al paragrafo 27 ha affermato che L’art.7 della direttiva 2000/43, pertanto, non si oppone in alcun modo a che gli Stati membri, nella loro normativa nazionale, riconoscano alle associazioni che abbiano un legittimo interesse a far garantire il rispetto della detta direttiva, ovvero all’organismo o agli organismi designati in conformità dell’art. 13 di quest’ultima, il diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare gli obblighi derivanti da tale direttiva senza agire in nome di un denunciante determinato ovvero in mancanza di un denunciante identificabile. Compete però solo al giudice nazionale valutare se la normativa interna contempli siffatta possibilità; la giurisprudenza comunitaria, pertanto, ha ammesso la possibilità che l’attuazione della direttiva 2000/43 possa avvenire senza la previsione di una legittimazione ad agire delle associazioni esponenziali per le ipotesi di discriminazione collettiva.

Allo stato, e nei limiti della sommaria delibazione richiesta dalla procedura, non può quindi ritenersi la legittimazione de L’Altro diritto Onlus ad agire per la dedotta discriminazione collettiva derivante dal bando del concorso per cui è causa, nella parte (art. 3) in cui limita l’accesso alla selezione ai soli cittadini italiani; il ritenuto difetto di legittimazione assorbe le ulteriori questioni sollevate in punto di rappresentanza processuale della medesima associazione, e determina l’inammissibilità della domanda cautelare svolta in relazione alla dedotta fattispecie di discriminazione collettiva ex art. 5, 3° comma, D.Lgs. 215/2003.

 

DOMANDA CAUTELARE PROPOSTA DA O. M.

È incontestato che O M abbia svolto le prove preselettive, a seguito dell’ammissione con riserva.

Tale circostanza, unitamente al fatto che la stessa avrebbe raggiunto un punteggio che non le consentirebbe di essere ammessa alle prove selettive, viene valutata dal Ministero come dimostrazione dell’insussistenza del periculum in mora; per contro, parte reclamata rileva che ad oggi il Ministero non ha proceduto ad alcuna valutazione delle domande di ammissione dei candidati, e ritiene pertanto non provato che il punteggio ottenuto non le consentirebbe l’ammissione alle prove selettive.

Ad avviso del Collegio, allo stato non è provata la sussistenza di un periculum dotato dei caratteri di attualità: è infatti pacifico che O M è stata ammessa, se pur con riserva, alla procedura concorsuale, e non è stato dedotto che ne sia stata esclusa (o sia in procinto di esserlo) per ragioni connesse alla mancanza del requisito della cittadinanza italiana. La circostanza che tutti i candidati siano stati ammessi con riserva della verifica dei prescritti requisiti conferma l’insussistenza del pregiudizio imminente e irreparabile previsto per la tutela cautelare.

Dal difetto del periculum in mora consegue l’infondatezza della domanda cautelare svolta da O M.

Per il complesso delle considerazioni suesposte, devono ritenersi assorbite tutte le ulteriori questioni di merito, e in particolare quella concernente l’accesso dei soggetti non in possesso di cittadinanza italiana agli impieghi presso la P.A., con particolare riferimento al profilo dell’assistente giudiziario.

Il reclamo del Ministero della Giustizia va quindi accolto, con revoca dell’ordinanza del Tribunale di Firenze in data 27.5.2017, e con rigetto del ricorso cautelare proposto da O M e dall’Associazione L’Altro Diritto ONLUS.

Trattandosi di procedimento cautelare in corso di causa, la liquidazione delle spese della presente fase viene rimessa alla definizione del giudizio di merito.

P.Q.M.

Il Tribunale, sul reclamo proposto ex art 669 terdecies c.p.c. dal Ministero della Giustizia con atto depositato in data 31.5.2017, così provvede:

in accoglimento del reclamo, revoca l’ordinanza del Tribunale di Firenze, Sezione lavoro, in data 27.5.2017, e respinge il ricorso cautelare proposto da O M e dall’Associazione L’Altro Diritto ONLUS; spese di lite al merito.

Manda alla Cancelleria per la comunicazione.

Così deciso, in Firenze, nella camera di consiglio del 21.6.2017

Il Giudice relatore Il Presidente

Dott.ssa Nicoletta Taiti Dott. Vincenzo Nuvoli