Discriminazione per nazionalità, Tribunale di Firenze, sezione lavoro, ordinanza del 26 giugno 2018

TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE

Sezione Lavoro

Nella causa civile iscritta al N.R.G. 1090/2017 promossa da:

XXXXXXXX (C.F. ), con il patrocinio dell’avv. SURACE ALIDA e dell’avv. VENTURA SILVIA (VNTSLV83A44L424R) Indirizzo Telematico; , elettivamente domiciliato in Indirizzo Telematicopresso il difensore avv. SURACE ALIDA

L’ALTRO DIRITTO ONLUS CENTRO DI DOCUMENTAZIONE SU CARCERE DEVIANZA E MARGINALITA’ (C.F. 94093950486), con il patrocinio dell’avv. SURACE ALIDA e dell’avv. VENTURA SILVIA (VNTSLV83A44L424R) Indirizzo Telematico; , elettivamente domiciliato in Indirizzo Telematicopresso il difensore avv. SURACE ALIDA

attore

contro

 

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (C.F. 97591110586), con il patrocinio dell’avv. AVVOCATURA DELLO STATO e dell’avv. , elettivamente domiciliato in VIA DEGLI ARAZZIERI 4 50129 FIRENZEpresso il difensore avv. AVVOCATURA DELLO STATO

convenuto

Il Giudice Dott.ssa Stefania Carlucci,

a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 20/06/2018, ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

La sig.ra                                    , cittadina albanese in possesso di permesso di soggiorno di lungo

periodo e l’associazione “L’altro diritto onlus – Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalita’”, con ricorso ai sensi dell’art. 44 d.lvo n. 298/96, 28 d.lvo n. 150/2011 e 702 bis c.p.c., previo accertamento della natura discriminatoria dell’art. 3 del bando di concorso indetto con D.M. 18/11/2016 per 800 posti a tempo indeterminato di assistente giudiziario (area funzionale II, fascia economica F2) nei ruoli del personale del Ministero della Giustizia, che prescrive il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso alla selezione pubblica, hanno chiesto: 1) di dichiarare la natura discriminatoria dell’art. 3 del bando di concorso citato nella parte che esclude l’accesso alla pubblica selezione dei cittadini comunitari, dei cittadini stranieri in possesso dei requisiti previsti dall’art. 38 d.lvo n. 165/2001, dei titolari di carta blu, e dei familiari non comunitari di cittadini italiani, ordinandosi al Ministero della Giustizia di cessare il comportamento discriminatorio e rimuoverne gli effetti, in particolare, di modificare il bando eliminando la clausola contestata, di ammettere alla procedura concorsuale la sig.ra e gli altri candidati stranieri che hanno presentato domanda, di riaprire i termini per la presentazione di ulteriori domande di ammissione; 2) di condannare il Ministero della Giustizia al risarcimento del danno non patrimoniale.

Parti ricorrenti esponevano che la sig.ra , in possesso di tutti i requisiti richiesti ad eccezione della cittadinanza, aveva presentato nei termini domanda di ammissione alla selezione pubblica e che l’associazione cit., iscritta al n. 365 del registro delle associazioni di cui all’art. 6 del d.lvo n. 215/2003 gestito dall’U.N.A.R., aveva invitato il Ministero a rimuove la clausola discriminatoria ed a prorogare la scadenza del termine, in modo da consentire ai soggetti privi di cittadinanza esclusi di presentare domanda.

In diritto allegavano la natura discriminatoria, diretta e/o indiretta, individuale e collettiva, in relazione al fattore protetto della nazionalità, della norma del bando che imponeva il requisito della cittadinanza italiana, vietata dal diritto dell’U.E e dal diritto interno, richiamando il quadro normativo di fonti diverse e la giurisprudenza della CGUE, in sintesi : 1) gli artt. 10 e 14 della Convenzione OIL n. 143/75 che impegna gli stati membri a promuovere la parità di trattamento in materia di occupazione e li facoltizza a limitare l’accesso a categorie di occupazione e funzioni, se necessario nell’interesse dello Stato; 2) il principio di non discriminazione quale principio generale del diritto dell’Unione, espresso nei Trattati e nel diritto derivato in relazione a fattori individuati, tra essi quello della nazionalità; 3) l’art. 45 TFUE che vieta le discriminazioni tra i lavoratori degli stati membri per l’impiego, ad esclusione degli impieghi nella P.A.; 4) la giurisprudenza restrittiva della CGUE, in punto di esclusione in ragione della nazionalità dall’accesso nella P.A., al solo lavoro pubblico che implichi l’esercizio, non occasionale o limitato, di poteri pubblici finalizzati alla tutela dell’interesse nazionale, da individuarsi in concreto; 5) la direttiva 2003/109/CE, recepita dal d.lvo n. 3/2007 che equipara i cittadini stranieri in possesso di permesso di soggiorno di lungo periodo CE ai cittadini nazionali; 6) la direttiva 2009/50/CE che equipara i soggetti titolari di carta blu ai cittadini stranieri regolarmente soggiornanti; 7) la direttiva 2004/38/CE, recepita dal d.lvo n. 30/2007 che prevede il diritto di svolgere lavoro subordinato e autonomo dei familiari non comunitari di cittadini comunitari e una tutela specifica in favore di familiari non comunitari di cittadini italiani; 8)le norme interne di diritto antidiscriminatorio di cui all’art. 2 d.lvo n. 286/98, agli artt. 43 e 44 d.lvo n. 286/98, all’art. 38 del d.lvo n. 165/20, che prevede il diritto ad accedere ai posti di lavoro presso le P.A., che non implicano l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale, dei cittadini comunitari e dei loro familiari non comunitari titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, dei cittadini di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno UE, o titolari dello status di rifugiato, o dello stato di protezione sussidiaria. In detto quadro l’elencazione tassativa del D.P.C.M. n. 174/94, richiamato dall’art. 38 cit., doveva, secondo le parti ricorrenti ritenersi contraria alla giurisprudenza restrittiva della CGUE.

In ordine al profilo professionale oggetto della pubblica selezione, hanno allegato che le mansioni affidate agli assistenti giudiziari non implicassero l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri in via non occasionale o limitata, né attenessero alla tutela dell’interesse nazionale in via prevalente ed essenziale.

Il Ministero della Giustizia in via pregiudiziale ha eccepito il difetto di giurisdizione dell’A.G.O. a favore del Giudice Amministrativo, atteso che le impugnazioni dei bandi di concorso per l’assunzione dei dipendenti pubblici rientrano tra le materie riservate alla giurisdizione del Giudice Amministrativo per espressa previsione dell’art. 63 comma 4 D.lvo n. 165/2001, stante l’insussistenza di discriminatorietà della previsione del requisito della cittadinanza italiana contenuta nel bando. In via preliminare ha eccepito: 1) il difetto di legittimazione processuale in capo alla associazione, richiamando l’art. 5 comma 3 d.lvo 215/2003, che non include il fattore della nazionalità tra quelli protetti dal divieto di discriminazione e l’art. 44 d.lvo n. 286/98, che attribuisce la legittimazione processuale nella azione antidiscriminatoria alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale; 2) la carenza di interesse alla pronuncia da parte della associazione con riferimento ai soggetti che, privi del requisito di cittadinanza, non hanno presentato domanda, in assenza di una loro iniziativa giudiziaria, mancando il presupposto dell’azione costituito da detta iniziativa giudiziaria; 3) la carenza di interesse alla pronuncia per la ricorrente, in assenza di provvedimento di esclusione dalle operazioni di preselezione e dalle prove, prevedendo il bando l’ammissione con riserva dei candidati alla prove concorsuali.

L’amministrazione resistente ha contestato la fondatezza del diritto, in quanto il requisito della cittadinanza per l’accesso agli uffici pubblici, previsto nel bando, era coerente con i principi costituzionali di cui agli artt. 97 e 98 Cost., era richiesto dall’art. 51 Cost., ed era regolato dalla normativa nazionale, in sintesi: dall’art. 70 comma 13 d.lvo n. 165/2001, che recepisce la disciplina di cui all’art. 2 del D.P.R. n. 3/1957 prescrittivo la cittadinanza quale requisito di ammissione all’impiego pubblico; dall’art. 2 D.P.R. n. 487/94 che ribadisce detta previsione; dall’art. 1 D.P.C.M. n. 174/1994 che individua le funzioni pubbliche per le quali non può prescindersi dal requisito della cittadinanza e, tra esse, i posti presso il Ministero della Giustizia, oltre, ai sensi dell’art. 2, alle funzioni svolte presso altre P.A. che comportano l’elaborazione, la decisione, l’esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi; dall’art. 38 d.lvo n. 165/2001 che ha riconosciuto l’accesso agli impieghi pubblici ai cittadini comunitari quando non implichino esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, o attengano alla tutela dell’interesse nazionale. Detta normativa nazionale era, secondo il Ministero, da ritenersi conforme alla interpretazione restrittiva della giurisprudenza della Corte di Giustizia dei limiti della libertà di circolazione (CGUE 17/12/1980 causa 149/79). Pertanto la richiesta del requisito della cittadinanza per l’accesso ai ruoli del Ministero della Giustizia costituiva esercizio di potere statuale discrezionale esercitato nei confronti di cittadini extracomunitari e comunitari, non rientrando tra i diritti fondamentali garantiti dall’ordinamento l’assunzione alle dipendenze di un determinato datore di lavoro, né alle dipendenze della P.A.

In concreto ha allegato che le mansioni affidate agli assistenti giudiziari, collaborando in compiti di natura giudiziaria, tecnica o ammnistrativa e implicando competenze strettamente connesse all’esercizio delle funzioni amministrative e la partecipazione all’esercizio di potestà di natura pubblica, perseguivano la tutela dell’interesse pubblico che giustificava il requisito della cittadinanza.

Il Ministero afferma il difetto di giurisdizione per essere l’impugnazione del bando di concorso ricompresa tra le materie devolute alla cognizione della Giurisdizione Amministrativa, stante la natura pubblicistica dell’atto, a fronte del quale sussistono solo posizioni di interesse legittimo. L’eccezione è infondata.

In tema di tutela avverso atti o comportamenti discriminatori vietati sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, essendo irrilevante che il comportamento discriminatorio dedotto consista nella emanazione di un atto amministrativo.

Secondo condivisibili principi affermati dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, il quadro normativo costituzionale (art. 3 Cost.), sovranazionale (Direttiva 2000/43/CE, 2000/78/CE, 2001/73/CE, 2006/54/CE) ed interno (art. 3 e 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215 nonché l’art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, a dette previsione devono aggiungersi inoltre l’art. 3 dlvo n. 216/2003, l’art. 3 L n. 67/2006, l’art. 55 quinquies d.lvo n. 198/2006, l’art. 28 d.lvo n. 150/2011), di riferimento, configura il diritto a non essere discriminati come un diritto soggettivo assoluto, la cui tutela è espressamente devoluta alla cognizione del giudice ordinario. In tali casi, il giudice deve valutare il provvedimento censurato, e, in caso di accertata discriminatorietà, disattenderlo, adottando i provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti (Cass. S.UU. ord. n. 3670/2011; conforme Cass. SS. UU. ord. n. 7186/2011, secondo la quale in tema di azione antidiscriminatoria si è in presenza di posizioni di “diritto soggettivo assoluto a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione posta in essere sia da privati che dalla P.A., senza che assuma rilievo, a tal fine, che la condotta lesiva sia stata attuata nell’ambito di procedimenti per il riconoscimento, da parte della P.A., di utilità rispetto a cui il privato fruisca di posizioni di interesse legittimo, restando assicurata una tutela secondo il modulo del diritto soggettivo e con attribuzione al giudice del potere, in relazione alla variabilità del tipo di condotta lesiva e della preesistenza in capo al soggetto di posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo a determinate prestazioni, di “ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”.)

Le ulteriori eccezioni preliminari formulate dalla resistente nella fase cautelare e nelle note autorizzate, segnatamente il difetto di legittimazione processuale della associazione attrice e il difetto di interesse alla pronuncia di entrambi le parti ricorrenti, trattandosi di eccezioni in senso lato, attinenti rispettivamente al contraddittorio e alle condizioni dell’azione quale requisito per la trattazione nel merito della domanda, sono da valutarsi, anche d’ufficio, dal giudice (ex multis Cass. sez. 3 sent. n. 21176/2015; Cass. sez. 3 n. 19268/2016).

Sostiene l’Amministrazione convenuta, che nessuna norma conferisca la legittimazione processuale alla Associazione ricorrente, non potendosi riconoscere in ragione dell’art. 5 comma 3 d.lvo n. 215/2003, che regolando l’azione discriminatoria collettiva in attuazione della direttiva 2000/43/CE relativa ai fattori della razza e dell’origine etnica, non include il fattore della nazionalità, né in forza dell’art. 44 d.lvo n. 286/98, che attribuisce la legittimazione processuale nella azione antidiscriminatoria solo alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Il giudicante non condivide l’assunto, ribadendosi gli argomenti già enunciati in sede di ordinanza ex art. 700, in corso di causa, in data 27/05/2017, ed in consapevole dissenso con le argomentazioni svolte dal Collegio, in sede ordinanza di reclamo cautelare in data 21/06/2017

La tutela antidiscriminatoria, sostanziale e processuale, è venuta ad esistere mediante un corpus normativo articolato, che richiede una interpretazione che riconosca la connessione tra le norme sostanziali e le norme processuali, in particolare tra gli artt. 2 e 4 del d.lvo 215/2003 e gli artt. 43 e 44 d.lvo n. 286/98.

Si rileva che l’art. 3 comma 2 d.lvo n. 215/2003, attuativo della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persona indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, esclude dall’ambito di applicazione le differenze di trattamento basate sulla nazionalità. Ciò tuttavia non vale ad espellere dall’azione antidiscriminatoria collettiva il fattore della nazionalità, limitandosi la previsione a precisare che detto fattore non è oggetto specifico del decreto legislativo attuativo della direttiva 2000/43/CE.

La nozione di discriminazione delineata dall’art. 2 d.lvo n. 215/2003 attiene ai fattori protetti della razza e della origine etnica, che si aggiungono ai fattori di discriminazione già vietati, ampliando e non restringendo la tutela. Detta previsione fa espressamente salve le disposizioni di cui all’art. 43 comma 1 e 2 d.lvo n. 286/98, che ricomprende tra i fattori di  discriminazione vietati, anche la nazionalità (oltre a razza, colore, ascendenza nazionale, o origine etnica, convinzioni e pratiche religiose).

Rinviando all’art. 43 comma 1 e 2 d.lvo n. 286/98, l’art. 2 comma 2 cit. fa evidentemente riferimento alla nozione sostanziale di discriminazione ivi contenuta, relativa ad ogni discriminazione oggettivamente ivi prevista, diretta e indiretta, derivante da ogni tipo di atto e comportamento, di privato o della pubblica amministrazione, lesiva dell’interesse individuale o collettivo. Stante la proiezione necessariamente collettiva del fattore protetto dal divieto di discriminazione, l’art. 44 comma 10 cit., appresta, nel contesto lavorativo, la legittimazione ad agire in capo alle rappresentante locali della organizzazione sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale.

Pertanto l’art. 4 d.lvo n. 215/2003 laddove stabilisce che l’azione civile avverso le discriminazione di cui all’art. 2 venga regolata dall’art. 28 d.lvo n. 150/2011 (tendenzialmente è il rito omogeneo nella materia), non può che riferirsi alla definizione sostanziale di discriminazione individuale e collettiva fatta salva dall’art. 2 cit.

In proposito ampia trattazione è stata svolta da recente pronuncia di legittimità, le cui motivazioni si condividono, anche con riferimento ai dubbi di costituzionalità, che deriverebbero, ai sensi dell’art. 3 e 24 Cost., dal mancato riconoscimento della legittimazione processuale in capo ad un ente esponenziale in caso di discriminazione collettiva in ragione della nazionalità, “sia per le differenze di trattamento processuale che verrebbero introdotte tra fattori di protezione che godono di protezione da parte dell’ordinamento” , “sia in relazione al fatto che il medesimo fattore di protezione della nazionalità, rileverebbe diversamente, rispetto alla legittimazione ad agire, se la discriminazione fosse commessa o meno in ambiente lavorativo.” (Cass. sez. L sent. n. 11165/2017).

Pertanto, condividendosi il principio di diritto enunciato da Cass. 11165/2017, (“Nelle discriminazioni collettive in ragione del fattore della nazionalità (d.lgs n. 215 del 2003 ex artt. 2 e 4, e art. 43 T.U. 286/1998) sussiste la legittimazione ad agire in capo alle associazioni ed agli enti previsti nel D.lgs. n. 215 del 2003, art. 5.”), adottandosi una lettura costituzionalmente orientata del complesso normativo, deve riconoscersi la legittimazione ad agire in capo alla Associazione ricorrente.

Non è da accogliersi l’ulteriore censura del Ministero, sollevata in sede di reclamo, che l’associazione sia priva del requisito della valida iscrizione al registro di cui all’art. 6 d.lvo n. 215/2003, assumendo che “L’altro Diritto onlus – Centro di documentazione su carcere devianza e marginalita’”, odierno ricorrente non coincida con “L’altro Diritto onluss” che compare nell’elenco U.N.A.R. ed iscritto al n. 365 del registro di cui all’art. 6 d.lvo n. 215/2003 . Deve ritenersi, come accertato dal collegio del reclamo, che dalla documentazione prodotta dall’associazione si desume la coincidenza tra la associazione ricorrente e quella iscritta al registro di cui all’art. 6 d.lvo n. 215/2003. Che si tratti della stessa associazione si evince dalla coincidente denominazione “L’altro Diritto onlus” (solo abbreviata nella domanda di iscrizione doc. 18 e quindi anche nella comunicazione della iscrizione doc. 2 e 19), dalla identità di sede (in Firenze, via delle Pandette 35 c/o la facoltà di Giurisprudenza), dalla coincidenza della persona del Presidente Prof. Emilio Santoro, che ebbe a presentare la domanda di iscrizione il 19/06/2014 (dimessosi il 29/12/2016, doc. 16, al quale è subentrato quale nuovo presidente la dr.ssa Sonia Ciuffoletti, che ha legittimamente conferito la procura in atti), dal contenuto dell’atto costitutivo del 27/09/1996 (doc. 17) e della modifica adottata il 10/07/2006 (doc. 16) da cui si trae che scopo della Associazione è (anche) la promozione di attività di informazione legale e giustizia riparativa in favore di migranti, da ricomprendersi nel campo della lotta alle discriminazioni. Risulta quindi accertato che l’Associazione ricorrente è iscritta al registro di cui all’art. 6 d.lvo n. 115/2003 delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni (doc. 2 e 19).

L’amministrazione convenuta ha inoltre contestato la carenza di interesse alla pronuncia della Associazione ricorrente con riferimento ai soggetti, che privi del requisito di cittadinanza, non hanno presentato domanda, in assenza di una loro iniziativa giudiziaria.

Detto profilo attiene più propriamente alle caratteristiche della tutela antidiscriminatoria esperita dagli enti collettivi, per la quale l’ordinamento regola, oltre ad un intervento ad adiuvandum del ricorrente, ai sensi dell’art. 5 comma 1 d.lvo n. 215/2003, in forza di delega del soggetto passivo della discriminazione, ove l’interesse leso è quello individuale, anche l’azione a tutela dell’interesse collettivo, ai sensi degli art. 5 comma 3 d.lvo n. 215/2003, da parte delle associazioni che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni, inseriti in apposito elenco presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Il comma 3 cit. espressamente prevede la legittimazione ad agire delle associazioni ed enti menzionati “nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione”, così fondando la legittimazione propria dell’ente esponenziale dell’interesse collettivo in ragione dello scopo che si prefigge, operando nel campo della lotta alle discriminazioni e della parità di trattamento. Ciò che caratterizza l’azione antidiscriminatoria collettiva è la lesione degli interessi del gruppo cui appartengono i soggetti vittima della condotta discriminatoria, la cui individualibilità soggettiva è irrilevante, essendo la condotta discriminatoria potenzialmente lesiva del diritto del singolo mediante la sua appartenenza al gruppo. Ciò rende irrilevante, nel caso in esame, la mancata iniziativa giudiziaria dei soggetti che privi della cittadinanza non hanno presentato domanda e non hanno promosso l’azione giudiziaria, in quanto e purché l’associazione sia portatrice dell’interesse collettivo leso.

In merito si richiama la giurisprudenza della CGUE (sent. 10/07/2008 causa C 54/07 Centrum voor gelijkheid en voor racismebestrijnding /Feryn, promossa da un organismo belga deputato a promuovere la parità di trattamento ), che sia pure con riferimento alla direttiva 2000/43/CE e ai fattori di discriminazione per etnia e razza ha affermato, nel caso di un datore di lavoro che dichiari pubblicamente che non assumerà dipendenti aventi un certa origine etnica o razziale, che: (punto 23) “non può dedursi che l’assenza di un denunciante identificabile permetta di concludere per l’assenza di un qualsivoglia discriminazione diretta ai sensi della direttiva 2000/43.” ; (punto 24) “l’obiettivo di promuovere una partecipazione più attiva sul mercato del lavoro sarebbe difficilmente raggiungibile se la sfera di applicazione della direttiva 2000/43 fosse circoscritta alle sole ipotesi in cui il candidato scartato per un posto di lavoro e che si reputi vittima di una discriminazione diretta abbia avviato una procedura giudiziaria nei confronti del datore di lavoro”; (25) la condotta sopra descritta configura una discriminazione diretta e “non presuppone un denunciante identificabile che asserisca di essere vittima di tale discriminazione”.

Pertanto sussiste anche l’interesse ad agire dell’Associazione ricorrente

L’Amministrazione convenuta ha contestato anche la carenza di interesse ad agire della

Sig.ra , poiché essendo stata ammessa con riserva, ai sensi dell’art. 3 del bando sarebbe priva di un interesse concreto ed attuale alla tutela giurisdizionale. In aggiunta, il Ministero ha dato atto che la complessa procedura è stata interamente espletata (prove preselettive, successive prove selettive, approvazione della graduatoria generale definitiva di merito e di quella dei vincitori del concorso, immissione in ruolo dei vincitori di parte degli idonei) e che tutti i candidati cittadini di altri Stati (6), ammessi con riserva alla prove preselettive, le hanno sostenute con esito negativo, compresa la ricorrente che ha conseguito la votazione di 43,50 su 50. In considerazione di questi sviluppi ha ribadito la carenza di interesse alla pronuncia, oltre alla infondatezza nel merito, poiché l’esclusione dalla procedura della sig.ra                      era conseguenza dell’esito negativo della prova preselettiva e non del

difetto del requisito della cittadinanza.

Il giudicante ritiene sopravvenuto il difetto di interesse ad agire della sigra                 , sussistente

al momento della introduzione del giudizio, in quanto, sebbene ammessa con riserva, potendo intervenire in ogni momento della procedura la verifica del requisito in discussione, ai sensi dell’ultimo periodo dell’ultimo comma dell’art. 3 del bando, poteva conseguire la sua esclusione dal concorso in ragione della sua nazionalità.

E’ dato pacifico che non sia intervenuto alcun provvedimento di esclusione della ricorrente (e degli altri candidati privi di cittadinanza che hanno presentato domanda) dalla ammissione alle prove preselettive, che questa vi ha preso parte con esito negativo e che non è intervenuto alcun provvedimento di esclusione per difetto del requisito della cittadinanza.

In tema di azione di mero accertamento, l’interesse ad agire, che rientra fra le condizioni dell’azione ai sensi dell’art. 100 c.p.c., la cui utilità, quindi, può maturare fino al momento della decisione, postula che colui che agisce si qualifichi titolare di diritti o di rapporti giuridici e non anche l’attualità della lesione del diritto, poiché è sufficiente uno stato di incertezza oggettiva sull’esistenza di un rapporto giuridico o sull’esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti, dovendosi ritenere che la rimozione di tale incertezza non rappresenti un interesse di mero fatto ma un risultato utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile se non con l’intervento del giudice.

La ricorrente (e gli altri candidati privi della cittadinanza che hanno presentato domanda), ha preso parte alla procedura, senza che ne sia stata esclusa in ragione del difetto del requisito contestato, avendo avuto, al pari degli altri candidati, acceso alle prove preselettive. Avendo avuto accesso alla procedura, ha conseguito il risultato che perseguiva attraverso questa iniziativa giudiziaria, ma essendo stata esclusa dalle ulteriori prove selettive, per l’esito negativo, la pronuncia del giudice non le apporterebbe alcun risultato utile.

Essendo sopravvenuta la carenza di interesse alla pronuncia il ricorso della sig.ra                      è inammissibile

Nel merito la domanda è fondata con le precisazioni che seguono.

Si osserva che il requisito della cittadinanza per l’accesso al lavoro nella pubblica amministrazione previsto da norme nazionali di diverso rango (art. 51 Cost., art. 2 del D.P.R. n. 3/1957, art. 2 D.P.R. n. 487/94 richiamato dall’ art. 70 comma 13 d.lvo n. 165/2001, art. 1 D.P.C.M. n. 174/1994,) ha subito restrizioni derivanti dal processo di integrazione europea, dal principio di libera circolazione all’interno dell’Unione e di non discriminazione, sulla base della nazionalità, tra i lavoratori degli stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione, le condizioni di lavoro (art. 45 TFUE ex 39 TCE)

L’ordinamento europeo prevede quale eccezione alla abolizione di ogni discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli stati membri, gli impieghi nella pubblica amministrazione (art. 45 paragrafo 4 TFUE). La portata applicativa di detta esclusione, ampia nella enunciazione letterale, è stata definita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in termini restrittivi.

Secondo la Corte la nozione di “pubblica amministrazione”, ai sensi dell’art. 45 paragrafo 4, deve avere un’interpretazione e applicazione uniformi, nella Comunità e non può essere rimessa alla completa discrezionalità degli stati membri (CGUE sent. 17/12/1979 Commissione CE/Regno del Belgio C 149/79 punto 12 e 18; CGUE sent,. 20/09/2003 Colegio de Oficiales del la Marina Mercante Espanola C 405/2001 punto 38). Trattandosi di deroga al principio fondamentale della libera circolazione e della parità di trattamento dei lavoratori comunitari, deve ricevere una interpretazione che ne limiti la portata a quanto è strettamente necessario per salvaguardare gli interessi che essa consente agli stati membri di tutelare (CGUE sent. 20/09/2003 Colegio de Oficiales della Marina Mercante Espanola C 405 punto 41). La deroga dell’art. 45 paragrafo 4 non trova applicazione a impieghi, che pur dipendendo dallo stato o da altri enti pubblici non implicano la partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente detta (CGUE sent. 17/12/1979 Commissione CE/Regno del Belgio C 149/79 punto 11; CGUE sent,. 20/09/2003 Colegio de Oficiales del la Marina Mercante Espanola C 405/2001 punto 40). La Corte di Giustizia ha quindi circoscritto detta deroga ai “posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche” in quanto “presuppongono, da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza” (CGUE sent. 17/12/1979 Commissione CE/Regno del Belgio C 149/79 punto 10; CGUE sent. 20/09/2003 Colegio de Oficiales del la Marina Mercante Espanola C 405/2001 punto 39).

Facendo applicazione di detti criteri la Corte di Giustizia ha ritenuto impieghi nella P.A. non ricompresi nella deroga al principio di parità di trattamento dei lavoratori comunitari: il tirocinio della professione di insegnante (Corte Giust. 3 luglio 1986, Lawrie- Blum, c- 66/85), i posti di ricercatore presso il CNR (Corte Giust. 16 giugno 1987, Commissione c. Italia, c- 225/85), i posti di lettore di lingua straniera nell’Università di Venezia (Corte Giust. 30 maggio 1989, Allué, c- 33/88), il lavoro di infermiere (Corte Giust.3 giugno 1986, Commissione c. Francia, c-307/84), vari impieghi esecutivi presso amministrazioni comunali (es.: falegname, aiuto giardiniere, elettricista; v. Corte Giust., 26 maggio 1982, Commissione c. Belgio, c- 149/79).

Secondo l’interpretazione sempre più rigorosa della Corte di Giustizia i pubblici poteri finalizzati alla tutela dell’interesse nazionale rilevanti ai fini della deroga di cui all’art. 45 paragrafo 4 si manifesterebbero nella posizione e mansione lavorativa che: 1) implichi l’esercizio di poteri di coercizione o d’imperio nei confronti dei terzi, 2) in funzione di interessi generali e non meramente tecnici o economici, 3) e purché siano esercitati in modo abituale e non rappresentino una parte molto ridotta dell’attività (CGUE sent. 20/09/2003 Colegio de Oficiales della Marina Mercante Espanola C 405/2001 punti 42, 44; CGUE sent. Anker C 47/2002 punto 63 CGUE; sent. 10/09/2014 Haralambidis punti 57, 58, 59 che ha ritenuto che l’esclusione generale dall’accesso dei cittadini di altri stati membri dalla funzione di Presidetente dell’Autorità Portuale, nello specifico di Brindisi, costituisce discriminazione fondata sulla nazionalità vietata dall’art. 45 TFUE).

Detta nozione restrittiva è espressione di un criterio funzionale, che cumula i due requisiti dell’impiego di pubblici poteri, come sopra intesi, e la tutela degli interessi generali dello Stato o delle pubbliche collettività.

In aggiunta si osserva che in pronunce intervenute in tema di discriminazione fondata sulla nazionalità, vietata dall’art. 49 TFUE (ex 43 TCR diritto di stabilimento), ove la Corte ha fornito l’interpretazione della nozione di pubblici poteri fondanti la deroga consentita dall’art. 51 paragrafo 1 (ex art. 45 TCE), ha ritenuto illegittimo il requisito della cittadinanza per l’accesso a determinate posizioni lavorative pubbliche o private collegate all’esercizio di pubblici poteri consistenti in: talune attività ausiliarie o preparatorie rispetto all’esercizio dei pubblici poteri (v. in tal senso, sentenze del 13 luglio 1993, Thijssen, C-42/92, EU:C:1993:304, punto 22; del 29 ottobre 1998, Commissione/Spagna, C-114/97, EU:C:1998:519, punto 38; del 30 marzo 2006, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, C-451/03, EU:C:2006:208, punto 47; del 29 novembre 2007, Commissione/Germania, C-404/05, EU:C:2007:723, punto 38, e del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo, C-438/08, EU:C:2009:651, punto 36), o determinate attività il cui esercizio, pur comportando contatti, anche regolari e organici, con autorità amministrative o giudiziarie, o addirittura una partecipazione, anche obbligatoria, al loro funzionamento, lasci inalterati i poteri di valutazione e di decisione di tali autorità (v., in tal senso, sentenza del 21 giugno 1974, Reyners, 2/74, EU:C:1974:68, punti 51 e 53), o ancora determinate attività che non comportano l’esercizio di poteri decisionali (v., in tal senso, sentenze del 13 luglio 1993, Thijssen, C-42/92, EU:C:1993:304, punti 21 e 22; del 29 novembre 2007, Commissione/Austria, C-393/05, EU:C:2007:722, punti 36 e 42; del 29 novembre 2007, Commissione/Germania, C-404/05, EU:C:2007:723, punti 38 e 44, nonché del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo, C-438/08, EU:C:2009:651, punti 36 e 41), di poteri di coercizione (v. in tal senso, in particolare, sentenza del 29 ottobre 1998, Commissione/Spagna, C-114/97, EU:C:1998:519, punto 37), o di potestà coercitiva (v., in tal senso, sentenze del 30 settembre 2003, Anker e a., C-47/02, EU:C:2003:516, punto 61, nonché del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo, C-438/08, EU:C:2009:651, punto 44) (così riassuntivamente indicate nella sentenza CGUE Commissione europea c Repubblica Ungherese 01/02/2017 c 392/2015 al paragrafo 108).

Le norme e le statuizioni della Corte di Giustizia prevalgono sulle norme nazionali contrastanti, vincolando ad una interpretazione conforme, o in caso di impossibilità, alla disapplicazione della norma interna.

Il quadro normativo nazionale in tema di accesso dei cittadini comunitari e di paesi terzi ai posti di lavoro pubblici è dettato dall’ art. 38, comma 1, d.lgs 165/2001 (così modificato dall’art. 7, comma 1, lett. b, L. 6 agosto 2013, n. 97 Legge europea 2013) che stabilisce, al comma 1 che “I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale“.

Il successivo comma 3 bis (anch’esso modificato dall’art. 7, comma 1, lett. b, L. 6 agosto 2013, n. 97 Legge europea 2013 ) prevede che le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applica“ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria”.

La L. n. 97/2013 ha esteso l’accesso al pubblico impiego ed i limiti previsti per i cittadini UE (introdotto con la riforma del pubblico impiego del 93) a determinate categorie di cittadini di paesi terzi (familiari di cittadini UE non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, cittadini di Paesi terzi lungosoggiornanti, titolari dello status di rifugiato, titolari dello status di protezione sussidiaria). L’estensione della disciplina è piena, con la conseguenza che i cittadini terzi appartenenti a dette categorie sono ammessi all’accesso al lavoro pubblico alle stesse condizioni riconosciute ai cittadini comunitari. L’identità di regime applicabile impone che i criteri elaborati dalla Corte di Giustizia con riferimento ai cittadini UE debbano essere applicati in modo uniforme anche ai cittadini terzi appartenenti alle categorie citate.

Al di fuori di queste categorie non è possibile estendere l’accesso al pubblico impiego agli stranieri, non esistendo un principio generale di ammissione dello straniero non comunitario al lavoro pubblico (su questa tema si veda la recente Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., n. 18523/2014). In conclusione sul punto, l’accesso al pubblico impiego secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza comunitaria deve applicarsi ai cittadini comunitari, ai cittadini di paesi terzi familiari dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ai cittadini di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria.

Ai sensi del comma 2 dell’art. 38 cit. è rimesso al D.P.C.M. ai sensi dell’art. 17 L. n. 400/88 l’individuazione dei posti e delle funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all’accesso dei cittadini di cui al comma 1. In assenza dell’adozione di nuovo regolamento, il risalente D.P.C.M. n. 174/94 ha individuato i posti per i quali non può prescindersi dal requisito della cittadinanza sulla base di un criterio organizzativo-settoriale, comprendendo : lett. a) e b) la categoria dei dirigenti delle Amministrazioni dello Stato e strutture periferiche, enti pubblici non economici, Regioni e enti locali, Banca d’Italia; lett. c) le carriere (le magistrature, avvocati e procuratori i dello stato); lett. d) intere Amministrazioni statuali (ruoli civili e militari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministeri degli Affari Esteri, dell’Interno, della Giustizia, della Difesa, delle Finanze). Prevede inoltre le funzioni per le quali è richiesto il possesso della cittadinanza (quelle che “comportano l’elaborazione, la decisione, l’esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi” e funzioni di controllo e legittimità”), riserva sottoposta alla decisione, motivata caso per caso, da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Il criterio organizzativo posto dal comma 1 del DPCM cit., applicato nel bando in esame, secondo il quale tutti i posti appartenenti al ruolo civile del Ministero della Giustizia richiedono il requisito della cittadinanza, così escludendo i cittadini UE (e gli altri cittadini di paesi terzi sopra indicati), senza ulteriori distinzioni in ordine alle specifiche mansioni e posizioni lavorative, non pare compatibile con la giurisprudenza Comunitaria illustrata e con l’elaborata nozione restrittiva e funzionale, che presuppone in modo abituale e non occasionale, l’esercizio di pubblici poteri, inteso come esercizio di poteri di imperio o di coercizione collegati a funzioni di interesse pubblico generale

Si rende quindi necessario, conformandosi alla interpretazione comunitaria, valutare in concreto, (e non in astratto), se un determinato posto presso la P.A. costituisca o meno esercizio di pubblici poteri nei termini sopra illustrati.

Il CCNL del personale non dirigenziale del Ministero della Giustizia del 29.7.2010, colloca la figura professionale dell’Assistente Giudiziario nella II area funzionale (assieme a Conducente di automezzi, Operatore giudiziario, Assistente alla vigilanza dei locali e al servizio automezzi, Cancelliere, Contabile, Assistente informatico, Assistente linguistico, Ufficiale Giudiziario).

L’ all’allegato A ne definisce le specifiche professionali, richiedendo: “conoscenze teoriche e pratiche di medio livello; discreta complessità dei processi e delle problematiche da gestire; capacità di coordinamento di unità operative interne con assunzione di responsabilità dei risultati; relazioni con capacità organizzative di media complessità”.

Quanto al contenuto della figura professionale dell’Assistente Giudiziario stabilisce che è propria dei “lavoratori che svolgono, sulla base di istruzioni, anche a mezzo dei necessari supporti informatici, attività di collaborazione in compiti di natura giudiziaria, contabile, tecnica o amministrativa attribuiti agli specifici profili previsti nella medesima area e attività preparatoria o di formazione degli atti attribuiti alla competenza delle professionalità superiori, curando l’aggiornamento e la conservazione corretta di atti e fascicoli. In relazione all’esperienza maturata in almeno un anno di servizio gli stessi possono essere adibiti anche all’assistenza del magistrato nell’attività istruttoria o nel dibattimento, con compiti di redazione e sottoscrizione dei relativi verbali”.

Si evince quindi che detta figura professionale opera sempre sulla base di istruzioni, in collaborazione in altrui compiti di natura giudiziaria, contabile, tecnica o ammnistrativa. Prepara o forma atti attribuiti alle professionalità superiori. Curando l’aggiornamento e la conservazione di atti e fascicoli, compie operazioni. Quando svolge assistenza al magistrato, provvedendo alla redazione e sottoscrizione dei verbali nell’attività istruttoria, dibattimentale o nella fase delle indagini, che costituiscono atti pubblici, l’attività viene esercitata interamente sotto la vigilanza e la direzione del magistrato, in compiti ausiliari e privi di discrezionalità.

Nelle mansioni che l’assistente giudiziario è chiamato a svolgere sono ricompresi la ricezione di istanze per l’iscrizione all’albo dei periti e dei consulenti tecnici, la certificazione, tramite la propria sottoscrizione, del deposito di memorie nel processo civile e degli atti nel processo in cui presta assistenza (es. costituzione di parte civile nel processo penale e costituzione del convenuto nel processo civile), il rilascio di copia autentica del verbale dal medesimo redatto.

Tuttavia parte dell’attività certificativa indicata occupa, anche secondo il Ministero una porzione ridotta e del tutto occasionale rispetto a quella in collaborazione, preparatoria e assistenza, in quanto, “il rilascio di copie conformi e la ricezione in deposito degli atti provenienti sia dal giudice che dall’utenza deve essere limitato solo ai casi urgenti ed indifferibili nella contingente assenza di altri profili professionali di norma preposti a tali attività” (si legge in questi termini la nota inviata dal Ministero della Giustizia in data 11.2.2014 al Tribunale di Roma – Prot. n. 116/1/10014/GM/I). Si tratta quindi di una mansione priva del requisito di abitualità richiesto dalla giurisprudenza comunitaria.

Il Ministero, in sede di reclamo, ha inoltre allegato come in concreto l’assistente giudiziario venga adibito anche ai seguenti compiti: consegnatari dei mobili e degli arredi degli uffici (e delle collezioni ufficiali di leggi, regolamenti e pubblicazioni), ausiliario nel servizio di videoconferenza compresa l’attività certificativa, attività del deposito degli atti nell’ambito del processo civile telematico, spedizione telematica degli atti penali da notificare, previa apposizione della firma digitale. Quando svolge compiti di consegnatario, l’assistente giudiziario compie operazioni. Nello svolgimento degli adempimenti nel processo telematico civile o nella spedizione telematica di atti penali l’attività accessoria è del tutto priva di discrezionalità. Le attività certificative esercitate hanno sempre carattere accessorio rispetto ad atti che sono riferibili a terzi (magistrato) o a profili professionali sovraordinati.

Da ultimo il Ministero ha allegato che le declaratorie del CCNLsiglato il 29/07/2010 siano state interessate da un accordo di rimodulazione dei profili professionali in data 26/04/2017, da adottarsi con D.M., in vista del superamento delle declaratorie. Quanto al profilo dell’assistente giudiziario l’unica modifica apportata al contenuto professionale, è il requisito di un anno di anzianità di servizio per essere adibiti all’assistenza al magistrato e l’aggiunta “Le attività precedenti possono essere svolte in modalità telematica”. Dette circoscritte modifiche non hanno alcuna incidenza sostanziale sugli aspetti del profilo professionale esaminati, tanto più che l’accordo di rimodulazione citato, riserva espressamente al diverso profilo professionale di Cancelliere, ridenominato Cancelliere Esperto, “il rilascio di copie conformi e di ricezione di atti, anche in modalità telematica, e tutte le altre attività che la legge attribuisce al cancelliere. A coloro che sono risultati idonei alla procedure selettive di cui all’art. 21 quater del decreto-legge n. 83 del 27 giugno 2015 n. 83 convertito, con modificazioni, alla legge 6 agosto 2015 n. 132 e a coloro che abbiano maturato 2 anni di anzianità nel presente profilo alla data del presente accordo, può essere affidata attività di collaborazione qualificata al magistrato nell’ambito dell’Ufficio per il processo e nei servizi analoghi, al fine di assicurare il coordinamento delle attività e dei servizi nell’ambito di tale modalità organizzativa”.

Alla luce di tali considerazioni, emerge che il profilo professionale di assistente giudiziario rappresenti un’attività ausiliaria, preparatoria all’esercizio di pubblici poteri. Sebbene il suo esercizio comporti la partecipazione obbligatoria al funzionamento dell’amministrazione della giustizia, (con particolare riguardo ai compiti di redazione e sottoscrizione dei verbali), non costituisce comunque partecipazione diretta e specifica all’esercizio dei pubblici poteri in quanto i contatti con l’autorità giudiziaria lasciano inalterati i poteri di valutazione e di decisione di stretta pertinenza di quest’ultima. Si tratta quindi di un profilo professionale, quello di assistente giudiziario, che rimane escluso dal processo decisionale che si esprime nel provvedimento giurisdizionale ed è privo di qualsiasi potere di natura discrezionale, in ogni restante sua mansione.

Si evidenzia infine che, anche se può essere preclusa la progressione di carriera allo straniero qualora le funzioni di livello più elevato implichino il compimento di pubblici poteri a tutela dell’interesse nazionale (cfr. Corte Giust. , 16 giugno 1987, Commissione c. Italia, C – 225/85), l’art. 39, par. 4, TFUE non permette di riservare ai cittadini UE un trattamento discriminatorio rispetto ai nazionali una volta che l’accesso ad un impiego nella P.A sia stato consentito (cfr. Corte Giust. , 12 febbraio 1974, Sotgiu , C – 152/73) né tanto meno questo può ritenersi legittimato in virtù di una potenziale futura progressione di carriera.

Pertanto, una volta accertato che il profilo professionale in esame non implica l’esercizio di pubblici poteri a tutela dell’interesse nazionale secondo la nozione comunitaria, non si può non rilevare la natura discriminatoria dell’art. 3 del bando per assistente giudiziario nella parte in cui richiede quale requisito partecipativo necessario il possesso della cittadinanza italiana.

L’esclusione dalla procedura concorsuale dei cittadini comunitari e degli stranieri rientranti in una delle categoria previste dall’art. 38 comma 1 e comma 3 bis d.lvo n. 165/2001 è stata determinata solo dalla nazionalità, senza che ciò possa essere giustificato da valide ragioni dovute alla natura dell’attività lavorativa o al contesto in cui questa viene espletata.

La vicenda concreta degli effetti della clausola discriminatoria appare del tutto esaurita, come risulta dall’espletamento del concorso pubblico, che si è concluso con l’approvazione della graduatoria definitiva di merito, con provvedimento in data 14/11/2017 del Direttore generale del Personale e della Formazione e la pubblicazione dell’avviso nella Gazzetta Ufficiale n. 87 del 14/11/2017, cui è seguita l’immissione in possesso delle funzioni dei vincitori presso le sedi di servizio l’08/01/2018.

La tutela accordabile è quella risarcitoria, considerato che con l’esaurimento della procedura concorsuale si è consolidato il danno, di natura collettiva, nei confronti dei cittadini comunitari e degli stranieri rientranti in una delle categoria previste dall’art. 38 comma 1 e comma 3 bis d.lvo n. 165/2001 che, non individuabili in modo diretto, hanno omesso di presentare domanda a causa della clausola in esame. Si tratta di un pregiudizio non patrimoniale, legalmente tutelato, alla parità di trattamento nell’accesso alla procedura concorsuale oggetto della causa. Il danno in esame ha natura di danno comunitario, il cui risarcimento deve determinarsi in conformità ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità, dissuasività (Cass. sez. L sent. n. 27481/2014; Cass. Sez L sent. n. 13655/2015), quale danno presunto e con valenza sanzionatoria (Cass. SS.UU. sent. n. 5072/2016). In via equitativa, tenuto conto dell’ampia platea dei potenziali discriminati, del profilo professionale e del numero dei posti oggetto del bando si determina nella misura di € 30.000,00.

Le spese di lite sono compensate tra le parti, attesa la novità delle questioni di diritto trattate e gli indirizzi giurisprudenziali difformi, anche per la fase cautelare.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso di                                         per sopravventa carenza di interesse ad agire.

In parziale accoglimento del ricorso, dichiara il carattere discriminatorio della condotta del Ministero della Giustizia in relazione al “Concorso pubblico a 800 posti a tempo indeterminato per il profilo professionale di Assistente giudiziario, area funzionale II, area economica F2, nei ruoli del personale del Ministero della giustizia”, pubblicato sulla G.U. n. 92 del 22/11/2016, nella parte in cui all’art. 3 prevede tra i requisiti per l’accesso al concorso la cittadinanza italiana, con esclusione dei cittadini degli Stati membri della UE e delle categorie di stranieri indicate dall’art. 38 comma 1 e comma 3 bis D.lvo n. 165/2001;

condanna il Ministero della Giustizia al pagamento a favore di L’altro diritto onlus – Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalita’ della somma di € 30.000,00 a titolo di risarcimento del danno.

Le spese di lite sono interamente compensate, anche nella fase cautelare.

Si comunichi.

Firenze, 26 giugno 2018

Il Giudice

Dott.ssa Stefania Carlucci