Concessione assegno maternità, Discriminazione Razziale, Corte d’Appello di Torino, sentenza del 7 novembre 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE D’APPELLO DI TORINO

SEZIONE LAVORO

Composta da:

Dott. Federico GRILLO PASQUARELLI PRESIDENTE Rel.

Dott.ssa Caterina BAISI CONSIGLIERE

Dott. Piero ROCCHETTI CONSIGLIERE

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nella causa di lavoro iscritta al n. 86/2018 R.G.L. promossa da:

I.N.P.S. – Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, c.f. 80078750587, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in Torino, via Arcivescovado n. 9, nell’Ufficio Legale Distrettuale dell’Istituto presso l’avv. Franca Borla che lo rappresenta e difende, unitamente e disgiuntamente

all’avv. Franco Pasut, per procura generale alle liti del 21.7.2015 a rogito notaio Paolo Castellini di Roma

APPELLANTE

CONTRO

I R, c.f. …, ., rappresentata e difesa dall’avv. Marina Siniscalco ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Novara, via Crespi n. 2/A, per procura in calce alla memoria di costituzione in appello

APPELLATA

Oggetto: Altre controversie in materia di previdenza obbligatoria

CONCLUSIONI

Per l’appellante: come da ricorso depositato il 6.2.2018

Per l’appellata: come da memoria depositata il 24.10.2018

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

  1. I. ha chiamato in giudizio l’INPS e il Comune di Novara davanti al Tribunale di Novara esponendo di essere cittadina extracomunitaria (nigeriana), titolare di permesso di soggiorno per lavoro subordinato dall’8.10.2010, valido per due anni; di avere presentato al Comune, il 25.5.2012, domanda di concessione dell’assegno di maternità di base ex art. 74 D.Lgs. 151/2001 in relazione alla nascita della figlia I F E, avvenuta in Novara il 15.4.2012, essendo in possesso dei relativi requisiti reddituali; che il Comune aveva respinto la domanda unicamente per il mancato possesso da parte sua della carta di soggiorno ovvero dello status di rifugiato politico o di titolare di protezione sussidiaria.

Affermando l’illegittimità del diniego della prestazione, per contrasto, tra gli altri, con il principio di parità di trattamento tra cittadini dei Paesi UE e stranieri extracomunitari in materia di prestazioni di sicurezza sociale, ha chiesto la condanna del Comune di Novara alla concessione e dell’INPS all’erogazione della prestazione.

Costituendosi in giudizio, l’INPS e il Comune di Novara hanno contestato il fondamento della domanda, chiedendone il rigetto.

Il Tribunale, con sentenza n. 272/2017, pubblicata il 21.12.2017, ha accolto il ricorso.

Propone appello l’INPS; la sig.ra  I resiste al gravame, mentre il Comune di Novara è rimasto contumace.

All’udienza del 7.11.2018 la causa è stata discussa oralmente e decisa come da dispositivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Tribunale ha accolto il ricorso ritenendo che l’art. 74 D.Lgs. 151/2001 – che prevede la concessione dell’assegno di maternità, in presenza di determinati requisiti reddituali del nucleo familiare, “per ogni figlio nato dal 1° gennaio 2001 … alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie o in possesso di carta di soggiorno” – contrasti sia con il principio di non discriminazione sancito dall’art. 14 CEDU sia con il principio di parità di trattamento tra cittadini dei Paesi UE e stranieri extracomunitari nel settore della sicurezza sociale, sancito dall’art. 12 della Direttiva UE 2011/98, e debba essere disapplicato dal giudice ordinario nella parte in cui richiede, agli stranieri extracomunitari, il possesso della carta di soggiorno anziché la semplice presenza legale nel territorio dello Stato.

L’INPS deduce l’assenza di ragioni di contrasto tra l’art. 74 D.Lgs. 151/2001, da un lato, e gli artt. 14 CEDU e 12 Direttiva UE 2011/98 dall’altro, i quali non sarebbero riferibili alla prestazione oggetto di causa e consentirebbero alle autorità nazionali di introdurre limitazioni all’estensione dei benefici.

L’appello è infondato.

L’art. 74 D.Lgs. 151/2001 istituisce, oggettivamente, una disparità di trattamento tra due gruppi di soggetti, il primo costituito dalle madri italiane o cittadine dei Paesi UE – le quali, in presenza di determinati requisiti reddituali, hanno diritto alla concessione dell’assegno di maternità – ed il secondo costituito dalle madri straniere extracomunitarie le quali, pur se in possesso degli stessi requisiti reddituali, secondo il disposto della norma hanno diritto alla prestazione solo all’ulteriore condizione di essere titolari di carta di soggiorno.

La legittimità di tale oggettiva disparità di trattamento tra italiani e stranieri deve essere valutata alla luce della Direttiva 2011/98/UE in materia di permesso unico di soggiorno, che ha stabilito “un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro”.

L’art. 12 (“Diritto alla parità di trattamento”) della Direttiva prevede che “1. I lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c), beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne:”, tra l’altro, “e) i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004”.

I “lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c)” sono, rispettivamente, “b) i cittadini dei paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi  dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002” e “c) i cittadini dei paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi”.

La sig.ra  I rientra indubbiamente nel campo di applicazione della Direttiva ai sensi della lettera c), in quanto – alla data di presentazione della domanda amministrativa di assegno di maternità (25.5.2012) – era titolare di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato rilasciato l’8.10.2010, valido fino all’8.10.2012 (v. doc. 2 appellata).

Parimenti, è indubbio che l’assegno di maternità previsto dall’art. 74 D.Lgs. 151/2001 è prestazione che rientra nei “settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004”: l’art. 1 del Regolamento, lett. z), infatti, così definisce la nozione di “prestazione familiare”: “tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni di nascita o di adozione menzionati nell’allegato 1” (nell’allegato 1 sono elencate alcune specifiche prestazioni, previste dalle legislazioni di alcuni Paesi membri: nessuna prestazione è menzionata per l’Italia).

Pare pertanto evidente che l’assegno di maternità rientri nella categoria delle prestazioni familiari previste dal citato Regolamento, essendo destinato, specificamente, “a compensare i carichi familiari”.

Se ne trae conferma dalla sentenza 21.6.2017, C-449/16, Martinez Silva, della Corte di Giustizia UE che – pronunciandosi sull’assegno previsto dall’art. 65 L. 448/1998 a favore dei nuclei familiari con tre figli minori – ha chiarito che “una prestazione può essere considerata come una prestazione di sicurezza sociale qualora sia attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita per legge, e si riferisca a uno dei rischi espressamente elencati nell’articolo 3, paragrafo 1, del Regolamento n. 883/2004”, ed ha ricordato “che le modalità di finanziamento di una prestazione e, in particolare, il fatto che la sua attribuzione non sia subordinata ad alcun presupposto contributivo sono irrilevanti per la sua qualificazione come prestazione di sicurezza sociale”; occupandosi, in particolare, dell’ANF previsto dall’art. 65 L. 448/1998, la CGUE ha rilevato che “tale prestazione (…) viene concessa prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente, in base a una situazione definita per legge. Dall’altro lato, l’ANF consiste in una somma di denaro versata ogni anno ai suddetti beneficiari e destinata a compensare i carichi familiari. Si tratta dunque proprio di una prestazione in denaro destinata, attraverso un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli” ed ha pertanto concluso che “l’ANF costituisce una prestazione di sicurezza sociale, rientrante nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j) (recte, lettera z), n.d.e.), del Regolamento n. 883/2004” (v. par. 20-25 della sentenza).

Le stesse considerazioni possono svolgersi, evidentemente, per l’assegno di maternità previsto dall’art. 74 D.Lgs. 151/2001: anch’esso, infatti, è concesso “in base a una situazione definita per legge”, ossia sulla base di requisiti oggettivi (la nascita di un figlio ed il mancato superamento di limiti di reddito stabiliti per legge) e “prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale” della pubblica Amministrazione; anch’esso consiste in “una prestazione in denaro destinata, attraverso un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento” del figlio neonato della beneficiaria; anch’esso, conseguentemente, è una prestazione di sicurezza sociale “rientrante nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera z), del Regolamento n. 883/2004”.

A tutto ciò consegue, indiscutibilmente, che l’assegno di maternità previsto dall’art. 74 D.Lgs. 151/2001 rientra fra le prestazioni in relazione alle quali deve essere assicurato – alle lavoratrici madri, cittadine di Paesi extra-UE, che siano titolari, come l’appellata, di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato – “lo stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano”, ai sensi della clausola di parità di trattamento contenuta nel sopra riportato art. 12 della Direttiva 2011/98/UE.

La norma nazionale che concede l’assegno di maternità alle madri straniere extracomunitarie a condizione che siano in possesso di carta di soggiorno (mentre non lo concede alle madri extracomunitarie titolari di permesso di soggiorno per lavoro subordinato) si pone, oggettivamente, in contrasto frontale con il principio di parità di trattamento sancito dal citato art. 12 della Direttiva 2011/98/UE.

Il compito del giudice nazionale, in casi come questo, è di verificare se la norma comunitaria sia direttamente applicabile, di valutare la possibilità di dare alla norma nazionale un’interpretazione conforme alla norma comunitaria e, in caso negativo, quello di disapplicare la norma nazionale contrastante con il precetto comunitario.

A questi fini, occorre considerare che l’Italia ha dato solo una parziale attuazione alla Direttiva 2011/98/UE, con il D.Lgs. 40/2014, senza recepire il disposto dell’art. 12 della Direttiva, ed omettendo, quindi, di garantire la parità di trattamento ivi prevista; tale omissione non può, ovviamente, vanificare l’efficacia diretta dell’art. 12, trattandosi di una norma assolutamente chiara (“I lavoratori dei paesi terzi … beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano”), di una norma incondizionata, non richiedendo alcuna espressa disposizione nazionale per la sua attuazione nell’ordinamento interno, e di una norma che verte in tema di rapporti verticali, tra lo Stato e i soggetti privati; infine, il termine per il recepimento della Direttiva negli ordinamenti nazionali (che era il 25.12.2013: v. art. 16) è scaduto da tempo.

È vero che la Direttiva mantiene in capo agli Stati membri una limitata facoltà di deroga, perché lo Stato può decidere che la parità di trattamento, proprio “per quanto concerne i sussidi familiari, non si applichi ai cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi” (v. art. 12, par. 2, lettera b) della Direttiva): ma, da un lato, lo Stato italiano non si è avvalso di tale facoltà di deroga (e ciò è confermato da CGUE 21.6.2017, C-449/16, Martinez Silva, cit.: v. par. 28-30) e, d’altro lato, la deroga non avrebbe potuto riguardare l’appellata che, già alla data di presentazione della domanda amministrativa, era titolare di un permesso di soggiorno che le consentiva di lavorare in Italia per un periodo superiore a 6 mesi.

Deve pertanto riconoscersi che la clausola di parità di trattamento di cui all’art. 12 della Direttiva 2011/98/UE è direttamente applicabile nell’ordinamento nazionale; che essa impone un trattamento paritario, nell’erogazione dell’assegno di maternità, tra lavoratrici madri italiane e lavoratrici madri cittadine di Paesi extra-UE legalmente soggiornanti in Italia a fini lavorativi; che non vi sono margini per un apprezzamento circa le ragioni che hanno mosso il legislatore nazionale ad introdurre il regime differenziato; che non è possibile dare della norma nazionale un’interpretazione conforme alla norma comunitaria, trattandosi di disposizioni di contenuto incompatibile.

È noto, infine, che l’obbligo di applicazione diretta delle  Direttive autoesecutive, indipendentemente dal recepimento da parte dello Stato nell’ordinamento interno, grava su tutti i soggetti competenti a dare esecuzione alle leggi, tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi della pubblica Amministrazione (quali sono, nel caso in esame, sia l’INPS sia il Comune di Novara): tanto i giudici nazionali quanto gli organi amministrativi, infatti, sono tenuti ad applicare integralmente il diritto dell’Unione e a tutelare i diritti che quest’ultimo conferisce ai singoli, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (v., in tal senso, CGUE 22.6.1989, C-103/88, Costanzo, punti 30-33, CGUE 11.1.2007, C-208/05, ITC, punti 68-69, e CGUE 14.10.2010, C-243/09, Fuß, punti 61-63).

Un ulteriore e consistente argomento a sostegno della disapplicazione dell’art. 74 D.Lgs. 151/2001 è, poi, desumibile dall’ordinanza n. 95/2017 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 74 sollevate dai Tribunali di Reggio Calabria e di Bergamo in controversie del tutto analoghe a quella oggetto del presente giudizio. La Corte Costituzionale ha motivato la dichiarazione di inammissibilità stigmatizzando l’omessa indicazione, da parte dei giudici remittenti, “dei motivi che osterebbero alla non applicazione del diritto interno in contrasto con il diritto dell’Unione Europea”, facendo specifico riferimento proprio all’art. 12 della Direttiva 2011/98/UE.

Ciò significa che, una volta appurato che l’art. 74 D.Lgs. 151/2001 contrasta con l’art. 12 della Direttiva 2011/98/UE, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare il diritto interno e a dare piena applicazione al diritto dell’Unione, senza sollevare questione di legittimità costituzionale della norma nazionale.

L’appello deve pertanto essere respinto; le spese del presente grado seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo.

Al rigetto dell’appello consegue, ex lege (art. 1, commi 17-18, L. 228/2012), la dichiarazione che l’appellante è tenuto all’ulteriore pagamento di un importo pari a quello del contributo unificato dovuto per l’impugnazione.

P.Q. M.

Visto l’art. 437 c.p.c.,

respinge l’appello;

condanna l’INPS a rimborsare all’appellata le spese del presente grado, liquidate in euro 1.830,00 oltre rimborso forfettario, Iva e Cpa;

dichiara la sussistenza delle condizioni per l’ulteriore pagamento, a carico dell’appellante, di un importo pari a quello del contributo unificato dovuto per l’impugnazione.

Così deciso all’udienza del 7.11.2018

IL PRESIDENTE est.

Dott. Federico Grillo Pasquarelli