Corte di Giustizia – Vera Egenberger Le intricate questioni delle discriminazioni fondate sul fattore religioso: la tutela offerta alle vittime è reale o solo apparente? Dott.ssa Elisa Di Geronimo

Negli ultimi anni è sentita sempre con più forza la necessità di apprestare una tutela adeguata alle vittime delle discriminazioni per motivi religiosi.

Questa attenzione è strettamente collegata ad alcuni motivi, quali la incessante crescita dei flussi migratori provenienti dai Paesi terzi verso l’Europa, la crescente globalizzazione delle economie e dei mercati, ma anche l’allargamento degli Stati membri dell’Unione. Per questo il fenomeno delle discriminazioni razziali è spesso difficile da scindere da quello delle discriminazioni religiose, discriminazioni che vanno di pari passo con il fenomeno della xenofobia e dell’emarginazione, quando, in modo peculiare, la discriminazione si eleva a odio razziale nei confronti di alcune popolazioni migranti o di minoranze etniche storicamente insediate in una determinata area geografica.

Se questo è il contesto in cui le discriminazioni fondate sulla religione si collocano, grande attenzione deve essere data alle giustificazioni, ammesse anche dal diritto dell’Unione europea, ai trattamenti astrattamente qualificabili come discriminatori, ma posti in essere all’interno di organizzazioni ideologicamente orientate, come le Chiese e gli istituti religiosi. È proprio questo il contesto in cui si colloca la sentenza della Corte di Giustizia del 17 aprile 2018 (C-414/16), da cui conviene partire per questa riflessione.

Il caso nasce dalla controversia che vede contrapposte da una parte la sig.ra Vera Egenberger e dall’altra l’Evangelisches Werk für Diakonie und Entwicklung eV (Opera della Chiesa evangelica per la Diaconia e lo Sviluppo), in relazione ad una domanda di risarcimento del danno proposta dalla sig.ra Egenberger a motivo di una discriminazione fondata sul fattore religioso di cui riteneva di essere stata vittima. Infatti, l’Evangelisches Werk aveva pubblicato un’offerta di lavoro per un progetto relativo alla stesura di una relazione parallela con oggetto la Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. In essa veniva specificato, oltre a quelli che sarebbero stati i compiti da svolgere, che i candidati avrebbero dovuto precisare l’appartenenza a una confessione religiosa. La ricorrente, pur avendo superato la prima selezione, non avendo indicato di appartenere ad alcuna Chiesa, venne esclusa dalla seconda fase. La stessa faceva notare che colui che si era aggiudicato il posto aveva espressamente indicato di essere un “cristiano evangelico della Chiesa regionale di Berlino”.

Non ci sono dubbi che, alla base dell’esclusione della donna dalla selezione, ci fosse un motivo religioso (la non aderenza ad alcuna confessione religiosa specificata nell’offerta di lavoro), ma la questione si sposta su un altro fronte: la verifica della legittimità della giustificazione al trattamento discriminatorio posto in essere. La convenuta, infatti, in virtù del potere di autodeterminazione della Chiesa e richiamando direttamente il diritto interno (art. 9, par. 1, AGG, di recepimento dell’art. 4, par. 2, D. n. 2000/78), si appellava alla pacifica e costante giurisprudenza tedesca in ordine allo stesso art. 9 AGG, che sosteneva che il controllo giurisdizionale doveva limitarsi ad un mero “controllo di plausibilità sulla base delle regole della coscienza ecclesiale” (punto 31): se la stessa Chiesa si fosse preoccupata di individuare le attività che presentavano una certa prossimità con la proclamazione del messaggio della medesima (come in questo caso) da tutte le altre possibili attività, il controllo del giudice non sarebbe potuto scendere nel merito di queste scelte, precluse in vista proprio dell’autodeterminazione della Chiesa, potendo effettuare, al massimo, un mero controllo formale.

Il dubbio principale sollevato dal giudice del rinvio in merito alla questione sottopostole, a cui sono poi collegate tutte le altre, è se il datore di lavoro (la Chiesa) ha o meno la facoltà di definire autonomamente in maniera vincolante se una determinata religione di un candidato rappresenti un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

La conclusione cui arriva la Corte è di tutta evidenza: indipendentemente dalle scelte operate dalla Chiesa o da un’altra organizzazione la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, il giudice deve poter procedere ad un controllo giurisdizionale effettivo al fine di assicurarsi che, nel caso di specie, siano soddisfatti i criteri di cui all’art. 4, par. 2, D. n. 2000/78 (punto 55). Questo vuol dire che la legittimità di una differenza di trattamento basata sulla religione, come anche sulle convinzioni personali, deve essere subordinata alla oggettiva e verificabile esistenza di un nesso di causalità tra il requisito per lo svolgimento dell’attività lavorativa imposta dal datore e l’attività in questione (punto 63).

La Corte sottolinea, solennemente, che è obbligo del giudice nazionale, anche nell’ambito di una controversia tra privati, disapplicare una disposizione nazionale che non possa essere interpretata in modo conforme all’art. 4, par. 2, D. n. 2000/78. In nome dell’obbligo di interpretazione conforme del diritto interno al diritto dell’Unione imposto, in modo diffuso, ai giudici nazionali, ricade su di essi il dovere di modificare, se del caso, anche una giurisprudenza consolidata, se questa porta a interpretare il diritto interno in modo incompatibile con la normativa europea (punto 72).

Il passaggio di tutto rilievo è però esplicitato al punto 76 della sentenza: “Il divieto di ogni discriminazione fondata sulla religione o le convinzioni personali riveste carattere imperativo in quanto principio generale del diritto dell’Unione. Sancito all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, tale divieto è di per sé sufficiente a conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale nell’ambito di una controversia che li vede opposti in un settore disciplinato dal diritto dell’Unione”.

La Corte riconosce l’effetto diretto orizzontale di una disposizione quale quella dell’art. 21 Carta di Nizza, efficacia che può essere direttamente richiamata anche dal singolo nell’ambito di una controversia tra privati.

Tale effetto diretto orizzontale del principio di non discriminazione era già stato sancito in materia di discriminazioni per età nella sentenza Kücükdeveci (Corte di Giustizia UE, grande sez., 19 gennaio 2010, C-555/07). Ivi, la Corte, richiamando le conclusioni già assodate nella sentenza Mangold, aveva riconosciuto che la normativa nazionale aveva introdotto un trattamento sfavorevole per i dipendenti entrati in servizio prima dei venticinque anni di età, creando disparità illegittime tra persone aventi la medesima anzianità a seconda dell’età in cui erano state assunte.

In ossequio a questa giurisprudenza, la Corte richiama lo stesso principio di diretta operatività di un principio generale di diritto dell’Unione, quale il divieto di discriminazione per motivi religiosi.

Questa soluzione, che nel caso concreto sottoposto alla Corte porta a concludere nel senso che il giudice nazionale, anche quando sia impossibile interpretare il diritto interno in maniera conforme al summenzionato art. 4, par. 2, D. n. 2000/78, deve apprestare una tutela giuridica ai singoli in forza degli artt. 21 e 47 Carta di Nizza (efficacia diretta orizzontale),  disapplicando all’occorrenza qualsiasi disposizione nazionale contraria (punto 82), potrebbe essere rilevante anche in vista della decisione che a breve dovrà essere presa dalla Cassazione in merito al ricorso promosso contro la sentenza della Corte d’Appello di Trento del 23 febbraio 2017.

Il caso presenta delle affinità con quello appena analizzato: è la vicenda di un’insegnate di una scuola paritaria di ispirazione religiosa cattolica, a cui non sarebbe stato rinnovato il contratto, alla scadenza, diversamente da come era accaduto gli anni precedenti, a causa della sua presunta tendenza omosessuale. Anche in questo caso il datore di lavoro dava giustificazione a questo suo comportamento invocando il perseguimento e il rispetto di progetti educativi conformi alla natura cattolica dell’Istituto, con cui il presunto orientamento sessuale della donna si poneva in contrasto: proprio con riferimento alla compatibilità della persona-insegnate con il progetto educativo perseguito dalla scuola, la donna non vide rinnovato il suo contratto.

È il caso di una discriminazione, questa volta mossa in ragione del fattore orientamento sessuale, operato all’interno di un’organizzazione di tendenza quale è l’istituto paritario delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù. Nuovamente viene in rilievo il grande tema della giustificazione ai trattamenti discriminatorio posti in essere all’interno di istituti religiosi.

Nel nostro diritto interno, il divieto di discriminazione religiosa incontra, ad avviso della giurisprudenza e della dottrina, una parziale sfera di non operatività nel caso in cui il datore di lavoro possa essere qualificato come “organizzazione di tendenza”, ex art. 3.5, d.lgs. n. 216/2003: il legislatore si è preoccupato di specificare che la giustificazione risiede solo limitatamente al fattore caratterizzante e identificante la tendenza, cioè in questo caso religione e convinzioni personali. L’orientamento sessuale non può essere assimilato alle convinzioni personali o alle scelte religiose, motivi che, per la natura dell’attività svolta dall’ente e per il contesto in cui si svolgeva, potevano essere considerati requisiti essenziali, legittimi e giustificati ai fini di quell’attività. Non essendo l’orientamento sessuale del lavoratore, dunque, espressivo di regole etiche contrastanti con quelle imposte dall’organizzazione datoriale, il comportamento tenuto dalla direttrice è comunque da qualificare come discriminatorio.

Il legislatore italiano, con il d.lgs. n. 216/2003, ha notevolmente ampliato la suddetta sfera di non operatività. Non possono, infatti, essere considerate discriminatorie le differenze di trattamento fondate sulla religione – o comunque in generale fondate sul fattore che caratterizza la tendenza – allorché ricorrano i seguenti tre requisiti: a) le differenze siano fondate sulla professione di una determinata religione o credenza, che rappresenta l’orientamento seguito dalla medesima organizzazione di tendenza; b) esse siano praticate nell’ambito di enti religiosi o di altre organizzazioni pubbliche o private, che sono appunto l’organizzazione di tendenza; c) la professione di quella determinata religione o credenza costituisca requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento delle attività professionali di tali enti o organizzazioni, in considerazione della natura delle attività o del contesto in cui esse sono espletate.

Tale formulazione sembra ammettere la possibilità di deroghe anche nel caso in cui l’appartenenza ideologica o confessionale del prestatore possa risultare essenziale e determinante alla luce del contesto in cui l’attività datoriale viene svolta: è come se fosse possibile, per i singoli datori di lavoro, costituire un ambiente operativo religiosamente omogeneo, perché nel caso in cui i prestatori, appartenenti a credi diversi da quello professato dal datore, influissero negativamente sul corretto svolgimento dell’attività produttiva nel suo complesso, il datore potrebbe legittimamente prendere un provvedimento, anche definitivo, nei loro confronti.

Declinata in questo senso tale norma rappresenta un grande passo all’indietro nella lotta alla discriminazione religiosa, quasi come l’interpretazione che si era consolidata nell’ordinamento tedesco in merito alla normativa interna di giustificazione ai trattamenti discriminatorio posti in essere all’interno delle organizzazioni ideologicamente orientate.

Ma se questa disposizione deve essere interpretata alla luce del diritto dell’Unione e della interpretazione che di esso viene data dalla Corte di Giustizia, la sentenza che ha visto protagonista la sig.ra Egenberger può risultare molto utile: se il principio ex art. 21 Carta di Nizza esplica un effetto diretto orizzontale, risultando esplicare la sua forza operativa anche nei rapporti tra privati, le difese mosse dall’istituto religioso in questione risultano essere vane. Anche se non fosse possibile interpretare il diritto interno in modo conforme all’art. 4, par. 2, D. n. 2000/78, ai singoli spetta una tutela giuridica che trova fondamento direttamente negli artt. 21 e 47 Carta di Nizza, che comporta, inevitabilmente, la disapplicazione di qualsiasi altra normativa nazionale in contrasto.

Se questo è l’orientamento da accogliere, anche la prossima pronuncia della Cassazione in merito al caso poco sopra richiamato non dovrebbe avere problemi ad essere confermato e consolidato. Le ripercussioni, anche in materia di discriminazione per gli altri fattori di differenziazioni vietati, sono evidenti, oltre che attesi.

L’ambito di applicazione della normativa antidiscriminatoria per motivi fondati sulla religione e sulle convinzioni personali riguarda ormai tutti i momenti caratterizzanti il rapporto di lavoro: dalle aree dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, a quelle della formazione e dell’orientamento professionali, come la specifica tutela da apprestare in caso di licenziamento posto in essere essenzialmente per questo motivo.

Un ambito interessante da vagliare è proprio quello inerente alla conciliabilità delle pratiche religiose con l’adempimento della prestazione lavorativa: i comportamenti tanto lavorativi quanto non lavorativi possono in qualche modo arrivare ad incidere sul corretto svolgimento della prestazione che il singolo è chiamato a espletare. Questo perché la propria confessione religiosa può tradursi non solo in regole confessionali, ma può imporre un determinato abbigliamento, può arrivare a imporre una certa alimentazione, come può arrivare anche a scandire i tempi di riposo e quelli in cui è possibile espletare qualsiasi attività.

Il diritto dell’Unione prevede una protezione più limitata contro la discriminazione fondata sulla religione o la convinzione personale rispetto alla CEDU. L’art. 9 CEDU, rubricato “libertà di pensiero, di coscienza e di religione”, tutela questo diritto autonomamente, riconoscendo che ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, diritto che include anche la libertà di cambiare religione o credo, come la libertà di manifestare la propria religione e il proprio credo, tanto individualmente quanto collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. La sua formulazione ricorda molto l’art. 19 Cost., in cui viene sancito che “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.

La CEDU insiste sulla libertà di manifestare la religione o il proprio credo, mentre il nostro art. 19 Cost. parla semplicemente di “fede religiosa”. I tre termini hanno un significato parzialmente diverso: la CEDU specifica ulteriormente il termine perché vuole, nello stesso articolo, tutelare tanto la libertà religiosa in positivo che in negativo (espressa dal termine credo, idoneo a ricomprendere entrambe le diciture), anche perché nel Consiglio d’Europa sono ricompresi tanti Paesi con tradizioni e culture diverse. È vero però che, di fatto, anche i nostri costituenti, parlando di libertà religiosa, hanno guardato tanto alla libertà in positivo che a quella in negativo.

Le restrizioni poste dalla CEDU a tale libertà sono espresse nel secondo comma dell’art. 9: “La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altri”. All’art. 19 Cost. si menziona solo il fatto che i riti non devono essere contrari al buon costume, ma è necessario fare una importante precisazione: non è la libertà religiosa che può essere contraria al buon costume, ma sono i riti che non gli devono essere contrari. La CEDU specifica, dunque, che la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non possono essere oggetto di restrizione, salvo che queste non siano stabilite dalla legge, costituiscano misure necessarie in una società democratica, tali misure siano necessarie per la tutela della pubblica sicurezza, per la protezione dell’ordine pubblico, la salute o la morale pubblica, la protezione dei diritti o delle libertà altrui.

Il particolare abbigliamento che caratterizza, ma che viene anche imposto al singolo individuo che decide di aderire a una determinata confessione religiosa, è stato al centro di numerose pronunce delle corti europee. La Corte EDU è stata investita tanto di casi sul turbante, simbolo religioso tipico degli appartenenti alla religione Sikh, che di casi sul velo, simbolo religioso tipicamente islamico.

Per quel che riguarda le sentenze relative ai turbanti, degne di nota sono le decisioni in merito ai casi che hanno interessato il sig. X contro il Regno Unito[1] e il sig. Phull[2] e il sig. Mann Sigh[3] contro la Francia. In tutte e tre le fattispecie i ricorrenti sono di religione Sikh, la quale impone loro di indossare sempre il turbante.

Nel primo caso il sig. X è un cittadino indiano che vive stabilmente nel Regno Unito. Tra il 1973 e il 1976 fu perseguito, condannato e multato venti volte per non aver indossato il casco durante i suoi spostamenti con la motocicletta, casco imposto come obbligatorio dalla legislazione interna. Il ricorrente lamenta di non averlo potuto indossare per evitare di trasgredire le regole imposte dalla sua religione.

Il sig. Phull è un cittadino britannico, di religione Sikh, che a Strasburgo viene fermato all’aeroporto, dove avrebbe dovuto prendere un aereo per tornare a casa, per effettuare dei controlli di sicurezza. Al momento in cui gli venne chiesto di togliersi il turbante per effettuare i dovuti controlli il ricorrente rifiuta per evitare di disobbedire ai precetti religiosi da lui seguiti.

Il sig. Mann Singh è un britannico che nella sua prima patente di guida non presentava il turbante nella foto di riconoscimento. Quando la patente gli venne rubata, è costretto a chiederne un duplicato e a quel punto le autorità britanniche esigono che lui presenti una foto senza turbante, cosa che il ricorrente rifiutò in ossequio ai comportamenti religiosi da lui seguiti.

I tre casi possono essere analizzati insieme perché tutti presentano il richiamo alla stessa base normativa, l’art. 9 CEDU. I tre ricorrenti sostengono fortemente che il turbante, tipico abbigliamento imposto dalla confessione di appartenenza, ma anche simbolo religioso, fosse estrinsecazione più ampia del loro diritto al libero esercizio della libertà religiosa, che si manifesta proprio tramite quel simbolo, che diventa contemporaneamente il cuore della loro religione e il centro della loro identità. La Corte EDU viene chiamata a valutare se gli Stati di volta in volta chiamati in causa hanno limitato e precluso l’esercizio della loro libertà religiosa, sapendo che ai sensi del secondo comma dell’art. 9 alcune limitazioni sono possibili se stabilite espressamente dalla legge, se costituiscono misure necessarie in una società democratica, o se tali misure sono necessarie per la tutela della pubblica sicurezza, per la protezione dell’ordine pubblico, la salute o la morale pubblica, la protezione dei diritti o delle libertà altrui.

In tutti e tre i casi la Corte conclude riconoscendo che non c’è stata violazione del dettato normativo: le richieste fatte ai ricorrenti erano legittime perché necessarie e proporzionate al raggiungimento degli scopi previsti nello stesso art. 9.2 CEDU. Nel primo caso la Corte ha stimato che in nome della pubblica sicurezza è possibile e doveroso chiedere al seguace della religione Sikh di togliersi il turbante per indossare il casco da motociclista. Nel secondo caso la stessa Corte ha dichiarato che, anche se la religione in questione costringe i suoi seguaci a indossare il turbante in ogni momento della loro vita, a questi è possibile chiedere di toglierlo per effettuare dei controlli sull’identità della persona. Anche nel caso del sig. Mann Singh la conclusione è simile: la foto d’identità senza il turbante in testa è necessaria alle autorità incaricate per garantire la sicurezza pubblica e la protezione dell’ordine pubblico, in particolare nel quadro dei controlli effettuati in relazione alle disposizioni del codice della strada, per identificare il conducente e per accertare il suo diritto di condurre il veicolo. La Corte ha inoltre sottolineato, a tal proposito, che la regolamentazione contestata si è mostrata più esigente in materia a causa anche dell’aumento dei rischi di frode e di falsificazione delle patenti di guida.

Sempre con riferimento agli abiti da indossare, al centro di numerosi dibattiti e controversie in materia di discriminazione religiosa si pone la questione del velo islamico, accessorio tipicamente femminile. Le critiche più significative cui si è prestato il ragionamento della Corte EDU riguardano la necessità, in una società democratica, di adottare misure restrittive in relazione al fondamentale diritto di libertà religiosa. Nella giurisprudenza della stessa Corte, sulla scia della sentenza Handy-Side[4], si è affermato il concetto di “margine nazionale di apprezzamento”, inteso come riconoscimento di un potere discrezionale sostanzialmente insindacabile degli Stati nella restrizione dei diritti protetti dalla Convenzione[5].

I casi Bulut[6] e Karaduman[7], entrambe studentesse universitarie, sono simili e vengono risolti nello stesso modo dalla Corte EDU. L’oggetto della controversia è il mancato rilascio del diploma da parte dell’università per non conformità della foto di identità della titolare (ritratta con il velo) ai regolamenti universitari ispirati ai principi laici e repubblicani. Nei documenti attestanti il titolo accademico loro si rifiutano di apparire senza velo, in quanto espressione della loro libertà religiosa. Dall’altro lato si pone il fermo rifiuto dell’università di rilasciare il diploma, dato che le ragazze vogliono apparire con la testa coperta in violazione del regolamento universitario. Le libertà in conflitto sono il diritto alla libertà religiosa, in quanto il fatto che le due ragazze vogliano indossare il velo islamico è espressione della loro dimensione religiosa personale, e il diritto dell’università che afferma essere ispirata a principi laici, pubblici, repubblicani, e che chiede che sia rispetta questa sua dimensione, affermando che rilascerà il diploma solo se le ragazze accetteranno di farsi fotografare senza velo. Tradotto il tutto in termini giuridici, le questioni possono essere sintetizzate nel rispetto della libertà di religione ex art. 9.1 CEDU e la compatibilità di tale diritto con le legittime limitazioni che possono esserle imposte ex art. 9.2 CEDU. La Corte conclude in entrambi i casi con l’irricevibilità del ricorso, riconoscendo legittime le imposizioni dell’università per il rilascio del diploma. Tali limitazioni assicurano, in modo proporzionato, il rispetto dei diritti e delle libertà altrui, ma rispondono anche a esigenze di pubblica sicurezza. Questo perché la foto apposta sul diploma svolge una funzione identificativa: se non si conosce o non si ha la possibilità di riconoscere l’identità della persona cui si sta rilasciando il diploma, possono sorgere problemi da un punto di vista di sicurezza pubblica.

Altro caso interessante che ha sempre interessato i giudici di Strasburgo è Dahlab contro Svizzera[8]. La sig.ra Dahlab, cittadina svizzera, insegnate di una scuola materna, è, quando viene assunta, di religione cattolica. Successivamente si converte all’islamismo e per adempiere ai precetti della sua religione comincia a presentarsi anche a scuola con il velo. In tal modo manifesta la sua nuova appartenenza confessionale e il rispetto delle norme del Corano. Nel frattempo la donna resta incinta, si assenta dal lavoro e rientra solo alla fine della maternità a scuola. Nel maggio del ’95 l’ispettore scolastico fa presente al provveditorato agli studi che la signora si presentava regolarmente a scuola e svolgeva il suo servizio con il velo, aggiungendo anche che nessuno dei genitori si era mai lamentato di ciò. Nel 1996 si tiene un incontro tra la sig.ra Dahlab e il direttore scolastico, che le chiede di non indossare più il velo in quanto incompatibile con le leggi svizzere in materia di educazione. Da questo momento in poi comincia il contenzioso: la donna si rifiuta di togliere il velo, simbolo della sua appartenenza al credo islamico, perché ritiene di manifestare liberamente in tal modo la sua libertà religiosa; il direttore, al contempo, arriva addirittura ad approvare una circolare in cui vieta quel tipo di abbigliamento. La ricorrente, davanti alla Corte EDU, afferma di essere stata anche discriminata ex art. 14 CEDU, in quanto un uomo, appartenente alla religione islamica, non essendo obbligato a manifestare la propria adesione religiosa in maniera particolare, cioè indossando alcun indumento religioso, non sarebbe stato trattato nello stesso modo. La Corte, valutati tutti gli elementi del caso, ha decretato per la legittimità del divieto di indossare il velo islamico imposto alla ricorrente, allo scopo di preservare il principio di neutralità dell’educazione primaria pubblica. Il fatto che la legislazione nazionale imponga la laicità negli edifici scolastici pubblici non può essere considerata motivo di discriminazione religiosa sul luogo di lavoro, in quanto risultato del bilanciamento tra il principio di laicità e il diritto alla libertà religiosa della donna lavoratrice.

Anche a livello europeo non sono mancati casi interessanti inerenti al divieto di indossare il velo per le prestatrici di lavoro. Il primo riguarda una controversia che vede schierati da una parte la sig.ra As. Bo. e l’associazione per la tutela dei diritti dell’uomo e dall’altra la Micropole SA, in merito al licenziamento da parte della Micropole della ricorrente principale, che si rifiutava di togliere il velo quando svolgeva la sua attività lavorativa, quella di ingegnera progettista, nelle relazioni con i clienti di quella stessa impresa[9]. Questa richiesta era stata avanzata esplicitamente dalla direzione aziendale a seguito di una segnalazione di un cliente che era stato infastidito dall’uso di quell’indumento religioso da parte della donna. I giudici del Lussemburgo arrivano a qualificare il comportamento del datore di lavoro come discriminazione diretta basata sulla religione ai sensi della direttiva n. 2000/78/CE. In tale direttiva non è stata specificata la nozione di “religione”, ritenendovi inclusa tanto la libertà delle persone di manifestare pubblicamente la propria fede, come appunto nel caso di una lavoratrice che decide di indossare il velo, tanto la tutela del foro interiore, cioè la tutela delle proprie convinzioni personali. Gli Stati membri hanno la possibilità di stabilire, a livello interno, che una determinata differenza di trattamento, basata su un fattore di differenziazione vietato, non costituisca una discriminazione vietata se, per la natura dell’attività lavorativa svolta o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento della stessa, sempreché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato. Gli stessi giudici, di conseguenza, hanno ritenuto che ai sensi dell’art. 4, n. 1, D. n. 2000/78, “la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa”[10]. La direttiva europea rinvia infatti a “un requisito oggettivamente dettato dalla natura o dal contesto in cui l’attività lavorativa in questione viene espletata” e in questo ambito non possono esser fatte assolutamente rientrare le considerazioni soggettive, quali – come nel caso di specie – la volontà del datore di lavoro di tener conto dei desideri particolari del cliente[11].

Altro il caso[12] di una donna musulmana, assunta con contratto a tempo indeterminato presso l’impresa G4S, che fornisce servizi di ricevimento e accoglienza a clienti tanto del settore pubblico che del settore privato, in qualità di receptionist. All’epoca, presso la G4S, veniva applicata una regola non scritta, ma successivamente messa anche per iscritto nel regolamento aziendale, in virtù della quale i dipendenti non potevano indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Al momento in cui ella comunica ai superiori di voler indossare il velo islamico durante l’orario di lavoro, la direzione le risponde che tale suo atteggiamento non sarebbe stato tollerato in quanto era segno visibile della sua inclinazione religiosa, un qualcosa che si poneva in contrasto con la neutralità cui si attendeva l’impresa. Poiché la ricorrente aveva insistito nelle sue idee, la donna venne licenziata proprio per violazione del divieto, esteso a tutti i dipendenti, di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestazioni di qualsiasi rituale che ne derivi. Per l’avvocato generale Kokott, decisione accolta dalla Corte, un simile atto datoriale non può essere qualificato come discriminazione diretta in quanto mancherebbe a monte il presupposto per equiparare il trattamento connesso all’uso del simbolo religioso a una differenza di trattamento fondata sulla religione. In questo caso non è infatti possibile individuare due gruppi trattati diversamente proprio in base al fattore religioso. Tale divieto aziendale viene applicato indistintamente a tutti, indipendentemente dalla religione cui aderiscono e indipendentemente dalle convinzioni personali cui mostrano di aderire, proprio in ossequio alla scelta fatta a livello aziendale di preservare una politica di neutralità. Non solo non si tratta di discriminazione diretta, ma anche ricostruendo la fattispecie in termini di discriminazione indiretta, essa potrebbe essere legittimamente giustificata dal fatto di voler perseguire una determinata finalità: attuare appunto una politica aziendale di neutralità politica, filosofica o religiosa. Secondo questa Corte la volontà del datore di dare ai clienti una immagine di neutralità rientra nella libertà di impresa e ha carattere legittimo, in particolare, come in questo caso, se nel perseguimento di tale obiettivo sono coinvolti quei dipendenti che entrano in contatto con la clientela.

Il fatto che il regolamento aziendale non sia stato qualificato come direttamente discriminatorio si fonda su un solo presupposto: il fatto che esso venga applicato genericamente a tutti. Scendendo più nello specifico forse si poteva argomentare in modo diverso e con un occhio più critico. Tale divieto, che si manifesta in modo così neutro e generale, potrebbe essere diretto più nello specifico a colpire quelle religioni che richiedono l’uso di simboli visibili, come appunto il velo. “Il fatto di porre sullo stesso piano, di equiparare, le diverse religioni non implica la neutralità della norma, proprio perché non tiene conto delle differenti prescrizioni delle religioni stesse”[13]. Ciò non significa, naturalmente, che il datore di lavoro non possa dotarsi di norme prescrittive di abbigliamento uguali per tutti, ma esse devono avere contenuto positivo, e non meramente negativo.

Le conclusioni tratte da una lettura congiunta delle due sentenze sono però preoccupanti: basta che l’azienda adotti un regolamento aziendale particolare perché sia risolto in radice l’uso di simboli religiosi quali il velo islamico? Ritengo che a monte manchi una lettura delle possibili conseguenze che potranno scaturire da questa stessa decisione in ambito sociale.

Non mancano casi che hanno interessato anche in nostri giudici di merito. Davanti al Tribunale di Lodi[14] si è presentato il caso di una ragazza musulmana, cittadina italiana, ma figlia di genitori egiziani, studentessa di scienze dei beni culturali, cui viene negata la possibilità di svolgere mansioni di volantinaggio in occasione di una fiera, in quanto le viene richiesto di togliersi il velo e lei rifiuta in quanto lo considera simbolo religioso, manifestazione della sua libertà religiosa. La ricorrente chiede il riconoscimento del carattere discriminatorio del comportamento della convenuta società, invocando la tutela offerta dall’art. 43 TU Immigrazione, dall’art. 2 d.lgs. n. 216/2003, dall’art. 4 direttiva n. 2000/78, come anche dall’art. 14 CEDU e dall’art. 21 Carta di Nizza. Allo stesso modo la convenuta si difende sostenendo che l’esclusione della candidata era stata giustificata dal fatto che erano richieste per il servizio di hostess delle caratteristiche estetiche ben precise, tra cui l’obbligo di indossare una certa divisa e che i capelli non venissero coperti. Il fatto che la ragazza si dimostrasse indisponibile nel togliere il velo la escludeva automaticamente dalle possibili candidate.

Il giudice di primo grado conclude con l’inesistenza di qualsiasi discriminazione: non si configurerebbe alcuna discriminazione diretta in quanto è stata accertata l’inesistenza di qualsiasi volontà di escluderla in quanto musulmana, ma non si configurerebbe neanche una discriminazione indiretta in quanto la condotta della società non può essere definita neanche indirettamente discriminatoria. L’esclusione della ricorrente dalla selezione non può dirsi infatti ingiustificata, ma trovava ragione nella legittima richiesta del selezionatore di presentare al cliente candidate aventi caratteristiche di immagine non compatibili con la richiesta di indossare, durante la prestazione lavorativa, un copricapo, qualunque esso fosse. Per avvalorare ulteriormente questo assunto, la mancanza di discriminatorietà nell’esclusione della candidata sarebbe stata dimostrata dal fatto che l’interlocutrice della ricorrente le aveva chiesto, non escludendola in modo immediato, se fosse disponibile a togliersi il velo mostrando i capelli. L’unico elemento che fa scartare la ricorrente tra le scelte operate dalla società non era dato né dalla sua religione, né dal fatto che usasse il velo, ma solo esclusivamente dal fatto che la sua chioma fosse coperta.

Il caso è stato portato davanti alla Corte d’Appello[15], che ha ribaltato tali conclusioni, dando piena ragione alla ricorrente. Prima di tutto viene chiarito che la nozione di discriminazione è oggettiva, non essendo richiesta un’analisi degli elementi soggettivi della convenuta, quale la volontà di discriminare. Essendo il velo un abbigliamento che caratterizza l’appartenenza a una determinata confessione religiosa, quella appunto musulmana, l’esclusione da un posto di lavoro a causa di questo costituisce una discriminazione diretta in ragione dell’appartenenza religiosa. A questo si aggiunge che il fatto che la testa rimanesse scoperta non era stato qualificato da nessun documento quale requisito essenziale e determinante della prestazione. Emerge chiaramente che il diritto all’identità religiosa è un elemento essenziale delle società democratiche e deve essere sempre garantito anche quando ciò comporti il sacrificio di esigenze del datore di lavoro non altrettanto rilevanti, come per esempio quelle estetiche.

Un caso ancora più recente è quello portato davanti al Tribunale di Milano[16] a seguito della delibera approvata dalla Regione Lombardia sul “rafforzamento delle misure di accesso e permanenza nelle sedi della giunta regionale e degli enti società facenti parte del sistema regionale”. Dopo i gravi episodi di terrorismo che ci sono stati e con la volontà di rafforzare le misure di sicurezza, nella predetta delibera viene vietata la possibilità di utilizzare caschi protettivi o qualsiasi altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona presso enti specificamente individuati all’art. 1 della legge, quali le Aziende Ospedaliere, le ASST e altri enti pubblici. Inoltre era previsto che venissero affissi cartelli all’ingresso di numerosi uffici pubblici che riportassero la scritta “per ragioni di sicurezza è vietato l’ingresso con volto coperto”, accompagnati da tre immagini con persone con casco, passamontagna e burqa, ciascuno barrato da una crocetta. Le associazioni ricorrenti contestano prima di tutto il fatto che la regione Lombardia avesse posto a fondamento della direttiva in esame soltanto le esigenze di sicurezza pubblica, materia riservata alla competenza esclusiva dello Stato – materia pertanto su cui la Regione non aveva alcuna competenza – e subito dopo il fatto che il provvedimento, anche se non espressamente richiamato, era principalmente rivolto a vietare l’uso di copricapi dettati da motivi religiosi, come il burqa ed il niqab, simboli che rientravano nell’ambito delle manifestazioni del credo religioso islamico. Il giudice riconosce che il divieto di accesso presso uffici ed enti pubblici a viso coperto comporta, in concreto, uno svantaggio maggiore per le donne che, per tradizione o per professare il proprio credo religioso, indossano il velo, prevalentemente nelle forme del burqa (velo che copre interamente il volto della donna, con una griglia all’altezza degli occhi) e del niqab (velo che copre tutto il volto, lasciando scoperti solo gli occhi). Ma è anche vero, e non può essere sottovalutato questo aspetto, che il predetto svantaggio risulta essere oggettivamente giustificato da una finalità legittima: la necessità di garantire l’identificazione e il controllo al fine di pubblica sicurezza. Le misure indicate dalla regione, peraltro, appaiono appropriate e necessarie. Il divieto di indossare qualsiasi mezzo che renda difficoltoso il riconoscimento della persona – qualsiasi mezzo che non necessariamente si concretizza nel velo – interessa, esclusivamente, le persone che accedono e permangono all’interno di determinati luoghi pubblici e per il tempo strettamente necessario alla permanenza in detti luoghi. Tale capo di abbigliamento è considerato nella sua oggettività dunque. Questo giudice conclude pertanto nel ritenere che quanto previsto dalla regione resistente sia strettamente necessario per il conseguimento delle finalità perseguite, fugando ogni dubbio sulla discriminatorietà della disposizione.

La panoramica di casi in questione serve a sottolineare che sotto il profilo delle differenziazioni per motivi religiosi la strada da percorrere per garantire maggiori ed efficaci tutele alle vittime è ancora lunga e tortuosa. Certo, una pronuncia come quella della Corte di Giustizia in merito al caso della sig.ra Vera Egenberger può essere un buon inizio: affermare la diretta operatività di un principio generale quale quello sancito all’art. 21 Carta di Nizza, può permettere di assicurare l’esistenza non solo di un apparente divieto di discriminazione per motivi religiosi, aggirabile tramite un semplice regolamento interno, neutro, di un’azienda, ma di un effettivo divieto, da contemperare soltanto con il regime delle deroghe, ammesse anche dal diritto europeo. Ciò dà ulteriore conferma del fatto che la maggiore ampiezza dello stesso divieto dipende molto dal lavoro svolto della giurisprudenza, come più in generale da tutti i giuristi, che risultano essere sempre più sensibili all’argomento in questione.

[1] Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione, 12 luglio 1978, causa X c. Regno Unito.

[2] Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione, 11 gennaio 2005, causa Phull c. Francia.

[3] Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione, 13 novembre 2008, causa Mann Singh c. Francia.

[4] Corte europea dei diritti dell’uomo, 7 dicembre 1976, causa Handyside c. Regno Unito. Il caso trae origine dalla condanna del sig. Handyside, da parte delle Inner London Quarter Sessions, per la pubblicazione di un libro contente immagini giudicate oscene. Il ricorrente aveva fatto ricorso alla Corte di Strasburgo lamentando una violazione del proprio diritto alla libertà di espressione di cui all’art. 10 CEDU. Si trattava in quel caso di bilanciare la libertà di espressione con le esigenze della morale: si chiede in particolare fino a che punto sia giusto consentire l’esplicazione della manifestazione delle proprie idee e fino a che punto occorra, invece, tutelare la morale. La Corte afferma in questo caso: “It is not possible to find in the domestic law of the various Contracting States a uniform European conception of morals. The view taken by their respective law of the requirements of morals varies from time to time and from place to place, especially in our era which is characterized by a rapid and far reaching evolution of opinions on the subject. By reason of their direct and continuous contact with the vital forces of their countries, State authorities are in principle in a better position than the international judge to give an opinion on the exact content of these requirements […]”. Se non è possibile trovare negli Stati membri una concezione uniforme della morale, la visione delle rispettive leggi interne sui requisiti della morale cambia continuamente. È in questo senso che le autorità statali si trovano in linea di principio in una posizione migliore rispetto al giudice internazionale per esprimere un parere sul contenuto esatto di questi requisiti. La Corte riconosce per la prima volta che in presenza di una pluralità di concezioni morali è necessario lasciare agli Stati un margine di apprezzamento nell’applicazione dell’art. 10 CEDU. Oltre alla libertà di espressione molte applicazioni del margine di apprezzamento si ritrovano in norme quali quelle relative al diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8), alla libertà di pensiero, coscienza e religione (art. 9), alla libertà di riunione e associazione (art. 11) e al diritto al matrimonio (art. 12), nonché dell’art. 1 del Protocollo 1, relativo al diritto di proprietà. In questa analisi mi interessa trattare di come il margine di apprezzamento venga piegato in ragione dell’art. 9 CEDU. In tal senso vedi I. Anrò, Il margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo, in “La funzione giurisdizionale nell’ordinamento internazionale e nell’ordinamento comunitario. Atti dell’incontro di studio tra giovani cultori delle materie internazionalistiche – VII edizione, Torino, 9-10 ottobre 2009”, a cura di F. Costamagna, A. Oddenino, E. Ruozzi, A. Viterbo, L. Mola, L. Poli, Napoli, Editoriale Scientifica, pp. 9-11.

[5] A. Boncompagni, Il velo islamico di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo tra laicità e pluralismo, in “Rivista di Studi Politici Internazionali”, 2007, LXXIV, fasc. 1, p. 109. L’autore continua dicendo che tale potere discrezionale riconosciuto agli Stati presenta delle forti analogie con il principio di sussidiarietà dell’Unione europea. È guidato e influenzato inoltre dall’analisi di fattori quali la morale e il contesto storico, politico e culturale. “In particolare, nella materia in esame la Corte ha rilevato che non esiste una concezione uniforme del significato della religione nella società… In virtù di tale ragionamento, la Corte ha rifiutato di assumere decisioni in astratto in questa materia, limitandosi, caso per caso, a pronunciarsi sui fatti in causa”.

[6] Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione, 5 maggio 1993, causa Bulut c. Turchia.

[7] Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione, 5 maggio 1993, causa Karaduman c. Turchia.

[8] Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione, 15 febbraio 2001, causa Dahlab c. Svizzera.

[9] Corte di Giustizia UE, grande sez., 14 marzo 2017, C-188/15.

[10] Punto 41.

[11] V. Nuzzo, La Corte di Giustizia e il velo islamico, in “Rivista Italiana di Diritto del Lavoro”, 2017, XXXVI, fasc. 2, pp. 436-437.

[12] Corte di Giustizia UE, grande sez., 14 marzo 2017, C-157/15.

[13] Ivi, pp. 447-450.

[14] Tribunale Lodi, ordinanza, sez. lav., 3 luglio 2014.

[15] Corte d’Appello Milano, 4 maggio 2016.

[16] Tribunale Milano, 20 aprile 2017.