Discriminazione razziale, negazione assegno nucleo familiare, Corte d’Appello di Torino, sentenza del 13.09.2017

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI TORINO
SEZIONE LAVORO

Composta da:
Dott. Federico GRILLO PASQUARELLI  PRESIDENTE Rel.
Dott. Piero ROCCHETTI   CONSIGLIERE
Dott.ssa Caterina BAISI    CONSIGLIERE
ha pronunciato la seguente

 S E N T E N Z A

nella causa di lavoro iscritta al n. 496/2017 R.G.L. promossa da:

B.G. S., c.f. rappresentato e difeso dagli avv.ti Alberto Guariso e Livio Neri del foro di Milano ed elettivamente domiciliato presso il loro studio in Milano, viale Regina Margherita n. 30, per procura depositata congiuntamente al ricorso introduttivo

APPELLANTE

CONTRO

I.N.P.S. – Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, c.f., in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Tommaso Parisi e Franca Borla per procura generale alle liti del 21.7.2015 a rogito notaio Paolo Castellini di Roma, ed elettivamente domiciliato in Torino, via Arcivescovado n. 9, presso l’Ufficio Legale della sede distrettuale dell’Istituto

APPELLATO

Oggetto: altre ipotesi

CONCLUSIONI

Per l’appellante: come da ricorso depositato il 22.6.2017

Per l’appellato: come da memoria depositata il 1°.8.2017

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

S B G ha chiamato in giudizio l’INPS davanti al Tribunale di Alessandria con ricorso ex art. 28 D.Lgs. 150/2011 esponendo di essere cittadino extracomunitario, titolare di permesso di soggiorno per lavoro subordinato dal 9.06.2011 e, dal 28.12.2015, di “permesso unico lavoro” ex D.Lgs n. 40/2014, attuativo della Direttiva UE 2011/98; di avere lavorato come collaboratore familiare dal 1°.5.2013 al 31.12.2015; di avere presentato domanda all’INPS in data 7.12.2015, chiedendo il pagamento dell’assegno per il nucleo familiare per i periodi 1°.1 – 30.6.2014 e 1°.7.2014 – 30.06.2015, inserendo nel proprio nucleo familiare la moglie e i due figli minori, all’epoca tutti residenti in Sri Lanka e, dal gennaio 2016, trasferitisi in Italia; di avere l’INPS respinto la domanda e di avere vanamente proposto ricorso amministrativo.

Affermando che il differente trattamento riservato dalla legge nazionale ai familiari residenti all’estero, a seconda della nazionalità italiana o straniera del lavoratore beneficiario degli assegni, confligge con il principio di parità di trattamento sancito dall’art. 12 della Direttiva UE 2011/98, ha chiesto di dichiarare il carattere discriminatorio della condotta tenuta dall’INPS consistente nell’aver negato il suo diritto di percepire l’ANF con riferimento alla moglie e ai due figli residenti in Sri Lanka e, per l’effetto, di condannare l’INPS al pagamento in suo favore di euro 4.649,94, a titolo di assegno per il nucleo familiare per il periodo 1°.1.2014 – 30.6.2015.

L’INPS, costituendosi, ha contestato il fondamento della domanda, chiedendone il rigetto.

Il Tribunale, con ordinanza del 26.5.2017, ha respinto il ricorso.

Propone appello il sig. B G; l’INPS resiste al gravame.

All’udienza del 13.9.2017 la causa è stata discussa oralmente e decisa come da dispositivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Tribunale ha respinto il ricorso sulla base delle seguenti considerazioni:

 

– in relazione all’assegno per il nucleo familiare, l’art. 2, co. 6 bis, del D.L. 69/1988, conv. in L. 153/1988, stabilisce che “Non fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata

convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia”: mentre al cittadino familiare è consentito risiedere all’estero e per ciò solo far parte del nucleo familiare, per poter ottenere il beneficio economico in questione, lo stesso non può dirsi per lo straniero, cui viene richiesta o una condizione di reciprocità col Paese d’origine o la stipula di una convenzione internazionale tra Italia e relativo Stato in materia di trattamenti di famiglia;

– la presentazione della domanda amministrativa per l’ANF è basata su autocertificazioni relative alla sussistenza dei requisiti di vivenza a carico e di reddito necessari al

convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia”: mentre al cittadino familiare è consentito risiedere all’estero e per ciò solo far parte del nucleo familiare, per poter ottenere il beneficio economico in questione, lo stesso non può dirsi per lo straniero, cui viene richiesta o una condizione di reciprocità col Paese d’origine o la stipula di una convenzione internazionale tra Italia e relativo Stato in materia di trattamenti di famiglia;

– la presentazione della domanda amministrativa per l’ANF è basata su autocertificazioni relative alla sussistenza dei requisiti di vivenza a carico e di reddito necessari al riconoscimento della prestazione: il presupposto dell’efficacia probante di tali dichiarazioni è che su di esse possano essere effettuati controlli a campione dall’Amministrazione;

– questo meccanismo può operare nei confronti dei cittadini, verso cui l’Amministrazione spiega le proprie verifiche, anche se residenti all’estero (essendovi anagrafe della popolazione italiana ivi residente e potendo essere svolte indagini verso cittadini attraverso ambasciate e consolati); lo stesso non può dirsi per gli stranieri residenti all’estero, verso i quali l’autorità italiana non ha alcun potere di verifica;

– la differenziazione legislativa rimane, dunque, nei limiti della ragionevolezza e non costituisce discriminazione;

– nemmeno in giudizio il ricorrente ha provato i requisiti

reddituali e di vivenza a carico dei propri familiari.

Con il primo motivo di appello il sig. B G denuncia l’erroneità dell’ordinanza impugnata nella parte in cui il Tribunale ha operato una valutazione di ragionevolezza delle differenze di trattamento tra italiani e stranieri nell’accesso agli ANF, pur in presenza di un vincolo alla parità di trattamento previsto da una norma comunitaria direttamente applicabile (l’art. 12 della Direttiva UE 2011/98): deduce che la clausola di parità di trattamento invocata impone un trattamento paritario nella erogazione degli ANF e, dunque, anche nella possibilità di inserire nel nucleo i familiari residenti all’estero, non residuando alcun margine per un apprezzamento circa le ragioni che hanno mosso il legislatore nazionale ad introdurre il regime differenziato.

Il motivo è fondato.

L’art. 2 del D.L. 69/1988, conv. in L. 153/1988 – che ha abolito gli assegni familiari ed istituito l’assegno per il nucleo familiare, prestazione che “compete in misura differenziata in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare” (comma 2) – stabilisce, al comma 6, che “Il nucleo familiare è composto dai coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e dai figli ed equiparati (…) di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro (…)”.

Tale nozione legale di “nucleo familiare” fa riferimento al solo legame familiare, senza alcun richiamo alla residenza o alla convivenza: il familiare fa parte del nucleo, ai fini del diritto agli ANF, per il solo fatto di avere un determinato grado di parentela (coniuge non separato, figlio minore, ecc.) e per la sussistenza di un reddito complessivo del nucleo familiare inferiore al limite stabilito dalla legge, indipendentemente dal fatto che il familiare sia convivente e sia residente sul territorio nazionale.

L’irrilevanza sia della convivenza anagrafica, sia della residenza del familiare sul territorio nazionale è confermata dal fatto che, in sede di conversione in legge, le parole “ed è concesso per i componenti del nucleo familiare che abbiano la residenza nel territorio nazionale”, contenute nel testo originario dell’art. 2, comma 2, del Decreto Legge 69/1988, sono state soppresse (v. art. 1, comma 1, della legge di conversione 153/1988): ciò rende evidente che l’assegno per il nucleo familiare viene concesso anche in relazione ai familiari non residenti sul territorio nazionale, purché titolari di un reddito inferiore ai limiti di legge.

Diversa, però, è la situazione degli stranieri residenti in Italia: per essi la disciplina è contenuta nell’art. 2, comma 6 bis, che, come detto, così dispone: “Non fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia (…)”.

Risulta, dunque, evidente che il regime dell’ANF, per quanto riguarda i familiari residenti all’estero, è oggettivamente diverso per gli italiani e per gli stranieri, ed è meno favorevole per questi ultimi, i quali – a differenza dei primi – non possono percepire l’assegno nel caso in cui il loro familiare, benché rientrante tra quelli di cui al comma 6 dell’art. 2, risieda all’estero.

La legittimità di tale oggettiva disparità di trattamento tra italiani e stranieri deve essere valutata alla luce della Direttiva 2011/98/UE in materia di permesso unico di soggiorno, che ha stabilito “un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro”.

L’art. 12 (“Diritto alla parità di trattamento”) della Direttiva prevede che “1. I lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c), beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne:”, tra l’altro, “e) i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004”.

I “lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c)” sono, rispettivamente, “b) i cittadini dei paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002” e “c) i cittadini dei paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi”.

Il sig. B G rientra indubbiamente nel campo di applicazione della Direttiva ai sensi della lettera c), in quanto – alla data di presentazione della domanda amministrativa di ANF (7.12.2015) – era titolare di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato rilasciato il 15.09.2013, poi sostituito, dal 28.12.2015, dal “permesso unico lavoro” ex D.Lgs n. 40/2014 (v. doc. 2 appellante).

Parimenti, è indubbio che l’ANF è prestazione che rientra nei “settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004”: l’art. 1 del Regolamento, lett. z), infatti, così definisce la nozione di “prestazione familiare”: “tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni di nascita o di adozione (…)”. Pare pertanto evidente che l’assegno per il nucleo familiare rientri nella categoria delle prestazioni familiari previste dal citato Regolamento, essendo destinato, specificamente, “a compensare i carichi familiari”.

Se ne trae conferma dalla sentenza 21.6.2017, C-449/16, Martinez Silva, della Corte di Giustizia UE che – pronunciandosi

sull’assegno previsto dall’art. 65 L. 448/1998 a favore dei nuclei familiari con tre figli minori – ha chiarito che “una prestazione può essere considerata come una prestazione di sicurezza sociale qualora sia attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita per legge, e siriferisca a uno dei rischi espressamente elencati nell’articolo 3, paragrafo 1, del Regolamento n. 883/2004”, ed ha ricordato “che le modalità di finanziamento di una prestazione e, in particolare, il fatto che la sua attribuzione non sia subordinata ad alcun presupposto contributivo sono irrilevanti per la sua qualificazione come prestazione di sicurezza sociale”; occupandosi, in particolare, dell’ANF previsto dall’art. 65 L. 448/1998, la CGUE ha rilevato che “tale prestazione (…) viene concessa prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente, in base a una situazione definita per legge. Dall’altro lato, l’ANF consiste in una somma di denaro versata ogni anno ai suddetti beneficiari e destinata a compensare i carichi familiari. Si tratta dunque proprio di una prestazione in denaro destinata, attraverso un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli” ed ha pertanto concluso che “l’ANF costituisce una prestazione di sicurezza sociale, rientrante nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j) (recte, lettera z), n.d.e.), del Regolamento n. 883/2004” (v. par. 20-25 della sentenza).

Le stesse considerazioni possono svolgersi, evidentemente, per la prestazione per cui è causa, ossia per l’ANF previsto dall’art. 2 del D.L. 69/1988, conv. in L. 153/1988, che è del tutto affine all’altro ANF di cui sopra: anch’esso, infatti, è concesso “in base a una situazione definita per legge”, ossia sulla base di requisiti oggettivi (la vivenza a carico di familiari entro un determinato grado di parentela ed il mancato superamento di limiti di reddito stabiliti per legge) e “prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale” della pubblica Amministrazione; anch’esso consiste in “una prestazione in denaro destinata, attraverso un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento” dei familiari a carico del beneficiario; anch’esso, conseguentemente, è una prestazione di sicurezza sociale “rientrante nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera z), del Regolamento n. 883/2004”.

A tutto ciò consegue, indiscutibilmente, che l’ANF di cui all’art. 2 D.L. 69/1988, conv. in L. 153/1988, rientra fra le prestazioni in relazione alle quali deve essere assicurato – ai lavoratori di Paesi terzi che siano titolari, come l’appellante, di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato – “lo stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano”, ai sensi della clausola di parità di trattamento contenuta nel sopra riportato art. 12 della Direttiva 2011/98/UE.

La norma nazionale che, solo per gli stranieri, concede l’ANF unicamente in relazione ai familiari residenti sul territorio nazionale (mentre, agli italiani, la stessa prestazione è concessa anche in relazione ai familiari residenti all’estero) si pone, oggettivamente, in contrasto frontale con il principio di parità di trattamento sancito dal citato art. 12 della Direttiva 2011/98/UE.

Compito del giudice nazionale, in casi come questo, non è quello di valutare la “ragionevolezza” della disparità di trattamento riscontrata, come ha ritenuto di fare il Tribunale, ma di verificare se la norma comunitaria sia direttamente applicabile, di valutare la possibilità di dare alla norma nazionale un’interpretazione conforme alla norma comunitaria e, in caso negativo, quello di disapplicare la norma nazionale contrastante con il precetto comunitario.

A questi fini, occorre considerare che l’Italia ha dato solo una parziale attuazione alla Direttiva 2011/98/UE, con il D.Lgs. 40/2014, senza recepire il disposto dell’art. 12 della Direttiva ed omettendo, quindi, di garantire la parità di trattamento ivi prevista; tale omissione non può, ovviamente, vanificare l’efficacia diretta dell’art. 12, trattandosi di una norma assolutamente chiara (“I lavoratori dei paesi terzi … beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano”), di una norma incondizionata, non richiedendo alcuna espressa disposizione nazionale per la sua attuazione nell’ordinamento interno, e di una norma che verte in tema di rapporti verticali, tra lo Stato e i soggetti privati; infine, il termine per il recepimento della Direttiva negli ordinamenti nazionali (che era il 25 dicembre 2013: v. art. 16) è scaduto da tempo.

È vero che la Direttiva mantiene in capo agli Stati membri una limitata facoltà di deroga, perché lo Stato può decidere che la parità di trattamento, proprio “per quanto concerne i sussidi familiari, non si applichi ai cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi” (v. art. 12, par. 2, lettera b) della Direttiva): ma, da un lato, lo Stato italiano non si è avvalso di tale facoltà di deroga (e ciò è confermato da CGUE 21.6.2017, C-449/16, Martinez Silva, cit.: v. par. 28-30) e, d’altro lato, la deroga non avrebbe potuto riguardare l’appellante che, già alla data di presentazione della domanda amministrativa, era titolare di un permesso di soggiorno che gli consentiva di lavorare in Italia per un periodo superiore a 6 mesi.

Deve pertanto riconoscersi che la clausola di parità di trattamento di cui all’art. 12 della Direttiva 2011/98/UE è direttamente applicabile nell’ordinamento nazionale; che essa impone un trattamento paritario, nell’erogazione degli ANF, tra lavoratori italiani e cittadini di Paesi terzi legalmente soggiornanti a fini lavorativi e, dunque, impone di considerare nel nucleo familiare di questi ultimi anche i familiari residenti all’estero; che non vi sono margini per un apprezzamento circa le ragioni che hanno mosso il legislatore nazionale ad introdurre il regime differenziato; che non è possibile dare della norma nazionale un’interpretazione conforme alla norma comunitaria, trattandosi di disposizioni di contenuto incompatibile.

È noto, infine, che l’obbligo di applicazione diretta delle Direttive autoesecutive, indipendentemente dal recepimento da parte dello Stato nell’ordinamento interno, grava su tutti i soggetti competenti a dare esecuzione alle leggi, tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi della pubblica Amministrazione (qual è, nel caso in esame, l’INPS): sia i giudici nazionali sia gli organi amministrativi, infatti, sono tenuti ad applicare integralmente il diritto dell’Unione e a tutelare i diritti che quest’ultimo conferisce ai singoli, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (v., in tal senso, CGUE 22.6.1989, C-103/88, Costanzo, punti 30-33, CGUE 11.1.2007, C-208/05, ITC, punti 68-69, e CGUE 14.10.2010, C-243/09, Fuß, punti 61-63).

Restano assorbiti il secondo ed il terzo motivo di appello, con i quali si deduce l’erroneità dell’ordinanza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che la disparità di trattamento tra italiani e stranieri prevista dall’art. 2, comma 6 bis, cit. trovi giustificazione nella diversa possibilità di controllo della condizione reddituale dei familiari del lavoratore richiedente l’ANF e nella parte in cui ha ritenuto che l’eventuale esigenza di ulteriore documentazione potesse precludere l’accertamento del diritto alla parità di trattamento.

Con il quarto motivo, l’appellante deduce l’erroneità dell’ordinanza nella parte in cui ha ritenuto che egli non avrebbe provato il reddito dei propri familiari e il conseguente mancato superamento dei limiti reddituali.

Il motivo è fondato.

Ogni questione sulla sussistenza del requisito reddituale è assorbita dal fatto che l’INPS, costituendosi nel giudizio di primo grado, non ha mosso alcuna contestazione sulla dichiarazione reddituale del sig. B G, sicché il dato del mancato superamento del limite di reddito complessivo del nucleo familiare deve ritenersi definitivamente acquisito al processo.

Con l’ultimo motivo l’appellante censura l’ordinanza nella parte in cui ha escluso la sussistenza di una discriminazione.

Il motivo è fondato.

L’appellante è stato escluso da un beneficio a causa della sua nazionalità (l’art. 2, comma 6 bis, cit. comporta che solo gli stranieri, a differenza degli italiani, non possono percepire l’ANF nel caso in cui il loro familiare risieda all’estero).

La nazionalità è certamente un fattore di discriminazione vietato (ex art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ed ex 43 T.U. immigrazione) e la prestazione richiesta rientra nel settore della sicurezza sociale, ove il principio di parità di trattamento tra diverse nazionalità è garantito da una norma espressa (l’art. 12 della Direttiva 2011/98).

A tutto ciò consegue che la mancata concessione ai cittadini di paesi terzi, titolari di permesso di soggiorno in Italia ai fini lavorativi, i cui familiari a carico siano residenti all’estero, dell’assegno per il nucleo familiare previsto dall’art. 2 D.L. 69/1988, conv. in L. 153/1988, costituisce discriiminazione collettiva per ragioni di nazionalità, per violazione della clausola di parità di trattamento prevista dall’art. 12 della Direttiva 2011/98/UE nel settore della sicurezza sociale, in relazione alle prestazioni familiari.

Non resta, pertanto, che disapplicare la norma nazionale contrastante con la disposizione comunitaria direttamente efficace, e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta tenuta dall’INPS consistente nell’aver negato all’appellante l’assegno per il nucleo familiare per il periodo 1.1.2014 – 30.6.2015; l’INPS dovrà cessare la condotta discriminatoria e deve essere condannato a pagare all’appellante euro 4.649,94 (il quantum non è contestato), oltre interessi legali.

Le spese di entrambi i gradi seguono la soccombenza, liquidate come da dispositivo.

P.Q. M.

Visto l’art. 702 quater c.p.c.,

in accoglimento dell’appello,

dichiara il carattere discriminatorio della condotta tenuta dall’INPS consistente nell’aver negato all’appellante l’assegno per il nucleo familiare per il periodo 1.1.2014 – 30.6.2015;

ordina all’INPS di cessare la condotta discriminatoria e, per l’effetto, condanna l’INPS a pagare all’appellante euro 4.649,94 oltre interessi;

condanna l’INPS a rimborsare all’appellante le spese di entrambi i gradi, liquidate per il primo in euro 2.000,00 e per il presente grado in euro 2.500,00 oltre rimborso forfettario, Iva e Cpa, con distrazione a favore del difensore.

Così deciso all’udienza del 13.9.2017