Doppio turno di lavoro, discriminazione indiretta di genere, Tribunale di Bologna, decreto del 31 dicembre 2021

TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA

Sezione Lavoro

Nella causa iscritta al n. r.g. 862/2021 promossa da:

UFFICIO CONSIGLIERA DI PARITÀ REGIONE EMILIA ROMAGNA

RICORRENTE

contro

L G S.R.L

RESISTENTE

Il Giudice dott. Chiara Zompì,

letti gli atti e udite le parti;

a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 25.11.2021;

ha pronunciato il seguente

DECRETO

Ai sensi dell’art. 37 D. Lgs. n. 198/2006

Con ricorso proposto, in data 28.4.2021, ai sensi dell’art. 37, commi 2 e 4, D. Lgs.vo 198/2006 (Codice delle Pari Opportunità), l’Ufficio della Consigliera Regionale di Parità per la Regione Emilia Romagna conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Bologna in funzione di giudice del lavoro, la società L G S.R.L, per l’accertamento della natura discriminatoria, nei confronti delle lavoratrici madri con figli minori, dell’orario di lavoro su turni recentemente adottato dalla convenuta.

In particolare la Consigliera, premesso di agire iure proprio ex art. 37 cit. a tutela dei diritti delle lavoratrici madri che svolgevano, attualmente alle dipendenze della predetta L G S.R.L (di seguito anche “LG”), mansioni di “addette al magazzino” logistico 15.1 di proprietà della società Y N P, sito presso l’interporto a Bologna, esponeva:

– che dette lavoratrici, tutte addette al magazzino logistico della Y N P, nota società di vendita on line di abbigliamento e accessori di alta moda, fino al 2.1.2020 risultavano in carico alla cooperativa Mr J, poi messa in liquidazione coatta amministrativa;

– che, a seguito della messa in liquidazione della Mr J, la Y N P aveva affidato il servizio di movimentazione merci al C G S soc. Coop. che aveva assunto la veste di general contractor e affidato l’effettiva esecuzione delle operazioni appaltate alla associata LG la quale aveva garantito l’assunzione di tutti i lavoratori presenti nell’anagrafica della cooperativa uscente Mr J con mantenimento di inquadramento, livello retributivo e anzianità già riconosciuti;

– che pertanto, a partire dal 2.1.2020, la LG aveva assorbito la maggior parte del personale in forza alla Mr J (fatta eccezione per una decina di lavoratori che rifiutavano l’assunzione), e segnatamente 130 dipendenti, successivamente ridottisi a 123 per effetto di dimissioni volontarie;

– che, sotto la gestione precedente alle dipendenze della Mr J, gli addetti al magazzino 15.1 Y N P avevano sempre osservato un orario di lavoro cd. “centrale” e segnatamente dalle 8.30 alle 17.30;

– che invece, in occasione del passaggio alle dipendenze della LG, ai dipendenti era stato prospettato sin da subito – e poi imposto – un nuovo orario di lavoro che, al termine di un periodo transitorio di 3 mesi, a regime sarebbe stato organizzato su due turni: il primo con inizio alle 5.30 e termine alle 13.30; il secondo con inizio alle 14.30 e termine alle 22.30;

– che, nell’immediatezza, molte dipendenti madri avevano rifiutato il passaggio a LG ovvero avevano rassegnato successivamente le proprie dimissioni, essendo nella assoluta impossibilità di trovare, nei tre mesi di tempo prospettati, una qualche soluzione per la cura dei figli minori;

– che, poco dopo il subentro nell’appalto della LG, si era verificata la nota emergenza pandemica da Covid-19 e il conseguente blocco delle attività produttive nel marzo 2020;

– che, alla ripresa delle attività produttive, in data 7 maggio 2020, la LG aveva sottoscritto un accordo con i sindacati confederali per l’inserimento dei dipendenti nel preannunciato doppio turno di lavoro con impegno fino al 16 maggio 2020 a “osservare e rilevare insieme agli OOS e RSA l’andamento e l’impatto sui lavoratori della turnazione”, impegno che però era stato nei fatti disatteso non avendo l’azienda, nei mesi successivi, predisposto alcun monitoraggio e/o verifica con i sindacati;

– che, perdurando l’organizzazione di lavoro di cui sopra, le lavoratrici interessate si erano rivolte al sindacato S.I. Cobas il quale, tramite la propria dirigente, aveva chiesto un confronto all’azienda in relazione alla effettiva temporaneità della misura organizzativa adottata dall’azienda;

– che a tale richiesta la società aveva risposto che il “congelamento” del turno centrale aveva carattere temporaneo, trattandosi di disposizione strettamente correlata all’emergenza epidemiologica da Covid-19, precisando però anche che, una volta cessata tale emergenza, i soli lavoratori in possesso dei requisiti normativi e documentali tali da imporre un rientro in eventuale turno centrale sarebbero stati adibiti a tale turno, mentre per tutti gli altri la turnazione su due fasce sarebbe divenuta definitiva;

– che successivamente il clima in azienda era divenuto sempre più teso e le lavoratrici madri, costrette a imporre ai figli onerosissimi sacrifici per mantenere il lavoro, avevano deciso di assumere una serie di iniziative di protesta tra cui manifestazioni e scioperi, a fronte delle quali l’azienda aveva assunto iniziative di tipo ritorsivo, quali ad esempio una serie di contestazioni disciplinari di dubbia fondatezza;

– che alcune lavoratrici avevano quindi sollecitato l’intervento dell’Ufficio della Consigliera di Parità, che aveva organizzato vari incontri con l’azienda, proponendo soluzioni conciliative, all’esito dei quali la LIS aveva però affermato di non potere rispristinare l’orario di lavoro con turno centrale per non meglio specificate né comprovate “esigenze aziendali /organizzative”;

– che, nel marzo 2021, la convenuta aveva poi raggiunto, rispettivamente in data 8 marzo e 13 marzo, due inteste con le parti sindacali, cui avevano partecipato anche la committente Y N P e le altre aziende della “filiera” dell’appalto della logistica Y N P, concordando “una serie di azioni positive aggiuntive e migliorative rispetto agli obblighi minimi di legge e/o CCNL di settore”, che però si rivelavano in concreto del tutto inadeguate a tutelare le esigenze delle lavoratrici madri.

Su tali premesse, la Consigliera ricorrente lamentava la grave portata discriminatoria dei provvedimenti aziendali sull’orario e gli effetti penalizzanti dei patti siglati in data 8 marzo e 13 marzo da L G S.R.L, sul rilievo che detti provvedimenti organizzativi e gli accordi adottati dall’azienda ponevano le lavoratrici madri di figli minori in una posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri dipendenti, che pur seguendo orari simili non avevano figli o non avevano figli minori.

Deduceva infatti che la conciliazione della cura dei minori risultava evidentemente impraticabile con gli orari imposti dal datore di lavoro e che l’adozione della misura organizzativa del doppio turno non rispondeva ad un legittimo obiettivo, né vi è alcuna evidenza che tale misura fosse necessaria al suo raggiungimento; che il mutamento dell’orario di lavoro aveva colto nella pandemia la sua giustificazione ex post, ma in realtà era già preordinato e che aveva assunto natura definitiva.

Concludeva pertanto chiedendo: “accertare e dichiarare la natura discriminatoria dei comportamenti assunti dalla L G S.R.L e segnatamente della imposizione anche ai lavoratori con figli minori di 12 anni dei turni di lavoro di cui alla narrativa, nonché degli effetti penalizzanti e discriminatori degli accordi sottoscritti l’8 marzo 2021 e il 12.3.2021 e per l’effetto ordinare all’azienda di non darvi applicazione e conseguente, anche a rimuovere gli effetti della accertata discriminazione, ordinarle di procedere alla immediata assegnazione delle dipendenti con figli minori dei 12 anni all’orario di lavoro centrale 8.30-17.30 o altrimenti diverso orario compatibile con la cura dei figli minori;

– adottare ogni altro provvedimento ritenuto idoneo ad assicurare la cessazione della discriminazione accertata e a rimuoverne gli effetti ivi compresa la pubblicazione della sentenza su uno o più quotidiani locali e/o nazionali a spese della convenuta;

– condannare la Cooperativa convenuta al risarcimento del danno da liquidarsi a favore dell’Ufficio ricorrente nella misura ritenuta di giustizia secondo equità da destinare alla promozione di attività e alla tutela della parità di genere”.

Il tutto con vittoria di spese.

Si costituiva in giudizio la L G S.R.L contestando la fondatezza, in fatto e in diritto, del ricorso e in particolare esponendo:

che era stata condotta un’accurata ispezione dall’ITL di Bologna che aveva concluso i propri accertamenti dichiarando l’assoluta insussistenza di qualsivoglia discriminazione, diretta e/o indiretta, ai danni delle lavoratrici denuncianti per il tramite del sindacato Si.Cobas;

che l’organizzazione del lavoro su due turni era dettata dalla necessità di garantire la piena sicurezza sul lavoro delle operatrici e degli operatori, sia in epoca ordinaria, sia tanto più in epoca Covid, dovendosi tenere conto che il rispetto delle prescrizioni dei Protocolli nazionali anti-covid non consentiva la permanenza nel magazzino n. 15.1 dell’Interporto di un numero complessivo superiore a 61 persone;

– che essa azienda aveva posto in essere significative azioni positive e compensative per mitigare gli effetti negativi a carico delle lavoratrici madri derivanti dall’adozione del doppio turno di lavoro in epoca pandemica, azioni che erano state condivise in due accordi sindacali (8 e 12 marzo 2021) siglati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (Cgil, Cisl e Uil) sia a livello nazionale di comparto sia a livello aziendale;

che il comportamento aziendale era sempre stato improntato a grande rispetto e collaborazione verso tutte le istituzioni chiamate in causa dalla denuncia SiCobas, compreso l’Ufficio del Consigliere di parità, cui era stato fornito tutto il materiale richiesto e ogni più utile ragguaglio.

Esponeva la società convenuta che la sua forza lavoro era costituita per oltre il 70% da donne e per oltre il 40% da lavoratrici / lavoratori con carichi di figli, sicché ogni legittima iniziativa volta a favorire la genitorialità doveva necessariamente tenere presente gli impatti complessivi sull’organizzazione del lavoro generati dall’adozione della misura.

Proseguiva esponendo che essa società operava all’interno di una filiera produttiva, da cui risultava condizionata sia nelle modalità sia nella tempistica di effettuazione delle lavorazioni, tanto più in un periodo di emergenza pandemica; e che esistevano numerose altre situazioni particolari di lavoratrici e lavoratori con peculiari carichi di famiglia e/o benefici ex l. n. 104/92 e/o prescrizioni limitative specifiche di ordine sanitario e/o amministrativo, che andavano parimenti tutelate.

Precisava che il passaggio da un turno unico centrale a due turni 6-14 e 14-22 si sarebbe dovuto realizzare nell’arco dei sei mesi successivi al subentro di essa LIS nell’appalto, ma era stato anticipato a causa dell’avvento del Covid-19 e della necessità di garantire il distanziamento sociale e l’attuazione di tutte le prescritte misure di prevenzione e contenimento del contagio; il che aveva anche costretto l’azienda ad anticipare di mezz’ora il primo turno e di posticipare di mezz’ora il secondo turno per evitare assembramenti e consentire la sanificazione dei locali e delle attrezzature tra un turno e l’altro.

Esponeva che, dagli accordi sindacali conclusi, pur preservandosi il principio generale del doppio turno, erano scaturite tante operazioni individuali di riduzione temporanea e concordata dell’orario di lavoro, che avevano consentito di realizzare una provvisoria conciliazione dei tempi di vita e lavoro delle lavoratrici e lavoratori con speciali carichi familiari, pur in periodo pandemico e senza perdita del posto di lavoro.

Concludeva pertanto chiedendo il rigetto del ricorso, sia cautelare sia nel merito, spese rifuse.

La causa veniva istruita con l’escussione degli informatori indotti dalle parti.

All’esito del deposito telematico di note conclusive scritte, all’udienza del 25.11.2021 il giudice,

udite le parti, riservava la decisione.

——————————–

Nulla quaestio circa la legittimazione ad agire della Consigliera di Parità della Regione Emilia Romagna.

Sul punto basti rammentare che, con riguardo alle discriminazioni indirette di carattere collettivo, “la consigliera o il consigliere regionale e nazionale di parità possono proporre ricorso in via d’urgenza davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti, il giudice adito, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, ove ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, con decreto motivato e immediatamente esecutivo oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all’autore della discriminazione la cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, ivi compreso l’ordine di definizione ed attuazione da parte del responsabile di un piano di rimozione delle medesime. Si applicano in tal caso le disposizioni del comma 3. Contro il decreto è ammessa, entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti, opposizione avanti alla medesima autorità giudiziaria territorialmente competente, che decide con sentenza immediatamente esecutiva.” (art. 37, co. 4 succitato).

Nel caso di specie, la domanda proposta, alla luce del complessivo e univoco tenore dell’atto introduttivo nonché delle espresse conclusioni rassegnate in ricorso, è senz’altro da qualificarsi come volta all’accertamento di una discriminazione indiretta di carattere collettivo.

Ciò chiarito, deve ora procedersi all’esame dell’eccezione di parte resistente, di inammissibilità del ricorso (o comunque infondatezza dello stesso) per carenza di attualità della condotta datoriale asseritamente lesiva.

La L G S.R.L ha infatti eccepito che la richiesta di parte ricorrente, di assegnazione a turno unico centrale di tutte le lavoratrici madri con figli di età inferiore ai 12 anni, già non accoglibile in condizioni ordinarie, a maggior ragione non lo sarebbe in “epoca Covid”, in quanto, come ricavabile dalla documentazione sulla sicurezza sul lavoro versata in atti, durante tutto il periodo emergenziale, tenuto conto che delle prescrizioni dei Protocolli nazionali anti-covid, non sarebbe consentita la permanenza nel magazzino assegnato in Interporto n. 15.1 ad un numero complessivo di persone superiore a 61; di tal che non vi sarebbe alternativa all’articolazione dell’attività lavorativa su due turni, come disposta dall’azienda, con previsione della necessaria ora “cuscinetto” fra le ore 13.30 e le 14.30, per consentire il cambio turno del personale ed evitare assembramenti.

Sul punto di osserva che la Consigliera ricorrente ha attivato il procedimento previsto dall’art. 37, comma 4, D.lgs. n. 198/2006, strutturato secondo il modello processuale contemplato dall’art. 28 St. lav. per il giudizio di repressione della condotta antisindacale che presuppone un situazione di urgenza connessa alla necessità di inibire una condotta lesiva in essere, che risulti tuttora persistente e idonea a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio del diritto rivendicato (cfr. ex multis Cass., 13860/2019).

Pertanto, essendo lo strumento processuale richiamato volto alla repressione immediata di una condotta discriminatoria, deve sussistere, come correttamente rilevato da parte resistente, il requisito dell’attualità della condotta, in quanto il rimedio che si vuole ottenere, secondo la previsione del legislatore, è la cessazione del comportamento e la rimozione degli effetti, fino a quel momento prodotti dal comportamento sanzionato.

Nel caso di specie, ritiene però il giudicante che, diversamente da quanto sostenuto dalla società convenuta, il requisito della attualità della condotta sussista in quanto, se è vero che l’organizzazione dell’orario di lavoro due turni 5.30-13.30 e 14.30-22.30 è legata a contingenti necessità di rispetto delle misure anti-covid, è altrettanto vero che la società ha espressamente dichiarato che la organizzazione su due turni è prevista come strutturale (seppure con il diverso orario 6-14 e 14-22) ed è destinata a restare in vigore anche dopo la cessazione dello stato di emergenza (vedasi pag 8 della memoria di costituzione, ove si legge: “Di guisa che l’attuale turnazione 5.30-13.30 e 14.30-22.30 cesserà di certo nel momento in cui verrà meno la necessità di garantire il rispetto delle misure anti-covid; non è pertanto l’orario che opererà a regime, ritornandosi al modello prospettato dall’azienda e condiviso con i sindacati, 6-14 e 14-22, fatte salve le deroghe ed i trattamenti di miglior favore posti in essere, in una logica di conciliazione dei tempi di vita e lavoro, a favore delle lavoratrici madri dagli accordi sindacali 8 marzo e 12 marzo 2021”).

Dal chiaro tenore delle stesse difese della convenuta emerge quindi che la modifica dell’orario di lavoro, con passaggio da un turno unico centrale e due turni consecutivi, non è motivata dalla necessità di dare applicazione alla normativa emergenziale per il contenimento della nota epidemia da COVID 19, ma risponde a ragioni organizzative di carattere permanente ed è quindi destinata a restare in vigore (con una modifica di soli 30 minuti in ingresso e in entrata) anche dopo la cessazione dello stato di emergenza.

L’istruttoria svolta ha inoltre consentito di accertare che la modifica dell’orario di lavoro, con passaggio a due turni consecutivi alternati, è stata annunciata ai dipendenti, in assemblea, già alla fine del dicembre 2019, ben prima dell’insorgenza della pandemia, quindi è pacifico e dimostrato che si tratta di misura che risponde ad una precisa scelta imprenditoriale e riposa su motivazioni – di cui si dirà meglio in seguito – che nulla hanno a che vedere con la situazione epidemiologica.

L’interesse alla pronuncia è pertanto sicuramente attuale perché si discute dell’articolazione dell’orario di lavoro a regime, rispetto al quale l’attuale situazione emergenziale è appunto tale e, quindi, provvisoria.

Venendo al merito, giova anzitutto precisare che gli esiti dell’accertamento ispettivo condotto dall’ITL, più volte invocati a propria difesa dalla società resistente, che appaiono certamente utili per ricostruire gli aspetti fattuali della vicenda oggetto di causa e utilizzabili nel presente procedimento quali elementi di prova, non risultano tuttavia dirimenti rispetto al thema decidendum, ossia alla lamentata discriminazione indiretta.

Ciò in quanto l’ITL, in conformità con le proprie prerogative e funzioni istituzionali, si è limitato, come risulta per tabulas (doc. 4 res.), ad effettuare una verifica circoscritta alle situazioni segnalate nella richiesta di intervento avanzata dal sindacato SICOBAS (relativa a dimissioni intervenute, anche a seguito del nuovo orario di lavoro introdotto da LIS GROUP, lavoro notturno lavoratrici madri, CCNL applicato e inquadramento, lavoro part time, regime delle pause).

La circostanza che gli ispettori della ITL Bologna abbiano concluso escludendo la presenza di dimissioni di massa discriminatorie (“si comunica che non si è trovato riscontro dell’esistenza di decine di dimissioni per motivi discriminatori, risultando invece 7 dimissioni volontarie, 6 delle quali rassegnate da persone che hanno trovato nuova occupazione”- doc. 4 res.) ed escludendo altresì violazioni della normativa sul lavoro notturno e delle previsioni del CCNL in punto alle pause retribuite, se da un lato sgombra il campo da ogni eventuale profilo di illiceità e/o irregolarità della condotta della resistente – peraltro non specificamente dedotto da parte ricorrente – dall’altro non basta, di per sé, a dimostrare l’insussistenza di una fattispecie di discriminazione indiretta.

La verifica della eventuale sussistenza di una ipotesi di discriminazione di genere indiretta, infatti, implica valutazioni che prescindono dalla violazione di norme di legge; e questo perché, com’è noto e meglio si dirà in seguito, la discriminazione indiretta si realizza attraverso una condotta, una prassi, un atto aziendale di per sé leciti, e quindi conformi alle normative a tutela dei lavoratori in generale (e delle lavoratrici donne e madri in particolare), che però realizzano l’effetto di porre una categoria di lavoratori, quella portatrice del cd fattore di rischio (nel caso di specie, rappresentato dalla genitorialità e in specie dalla maternità) in una situazione di particolare svantaggio.

Un accertamento di tal fatta non è stato condotto dai funzionari dell’ITL né poteva utilmente essere esperito in quella sede, trattandosi di accertamento estraneo all’oggetto dell’attività ispettiva e che presuppone l’esercizio di un sindacato (sugli effetti concreti della condotta datoriale, sulla legittimità delle finalità perseguite dal datore e sulla opportunità dei mezzi a tale finalità impiegati) riservato all’autorità giudiziaria.

Parimenti non dirimente rispetto al thema decidendum risulta poi la circostanza, pacifica e documentata, che la LIS Group abbia concluso due accordi sindacali (del 8 e 12 marzo 2021), di filiera e d’azienda, con le OOSS (Cgil, Cisl e Uil) maggiormente rappresentative sia a livello nazionale di comparto sia a livello aziendale, accordi aventi ad oggetto azioni positive aggiuntive e migliorative in favore di alcune categorie di lavoratori fra cui, ma non solo, le lavoratrici madri.

Sul punto basti osservare che la sottoscrizione dei predetti accordi – comunque dimostrativa di una certa attenzione della LIS Group alle problematiche connesse all’adozione del nuovo orario di lavoro – di per sé non vale ad elidere l’eventuale discriminatorietà della condotta datoriale, che, se provata, sussiste a prescindere dal fatto che il datore di lavoro abbia concordato con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative misure correttive e/o compensative.

Non può quindi condividersi l’assunto difensivo della società resistente, secondo cui difetterebbe il fumus boni iuris delle domande attoree sulla scorta, tra le altre motivazioni, “della impossibilità giuridica di sostituzione del Giudice alle parti sociali maggioritarie in azienda quanto alla valutazione degli strumenti e misure più opportune per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro delle lavoratrici madri di figli in età pre-scolare, trattandosi di materia di competenza esclusiva sindacale rispetto alla quale il Giudice ha solo la facoltà di verificarne l’effettiva genuinità e condivisione, non di invalidarne e/o travalicarne i contenuti, fra l’altro interferendo indebitamente sui rapporti interni alle organizzazioni sindacali”: ed invero qui non si discute di relazioni sindacali, che esulano completamente dall’oggetto del giudizio, ma di discriminazione indiretta la quale – se accertata, sulla scorta dei presupposti di legge che di seguito si andranno ad esporre – è vietata anche laddove abbia trovato l’avallo delle OOSS maggioritarie.

Venendo quindi al punto centrale della vertenza, ossia alla dedotta discriminazione di genere, si premette che la nozione di discriminazione sia diretta che indiretta è stabilita dall’art. 25 del D. Lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) che, nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla LEGGE 5 novembre 2021, n. 162, applicabile alla fattispecie ratione temporis, così disponeva:

Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché’ l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.

2. Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

2-bis. Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché’ di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti.”

Sulla scorta della disposizione normativa sopra riportata, si è in presenza di una discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere le persone appartenenti alle categorie tipizzate (i.e. portatrici dei fattori di rischio tipici) in una situazione di particolare svantaggio, a meno che

non sussistano una finalità legittima e il carattere di appropriatezza e necessità dei mezzi impiegati per conseguirla (v. art. 25 d.lgs. n. 198/2006).

E’ stato osservato che, mentre nel caso di discriminazione diretta è la condotta, il comportamento tenuto, che determina la disparità di trattamento, nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l’effetto di un atto, di un patto di una disposizione di una prassi in sé legittima; di un comportamento che è corretto in astratto e che, in quanto destinato a produrre i suoi effetti nei confronti di un soggetto con particolari caratteristiche, che costituiscono il fattore di rischio della discriminazione, determina invece una situazione di disparità che l’ordinamento sanziona (Cass. 25/07/2019, n. 20204). Allo stesso modo, la Corte EDU ha affermato che «una differenza di trattamento può consistere nell’effetto sproporzionatamente pregiudizievole di una politica o di una misura generale che, se pur formulata in termini neutri, produce una discriminazione nei confronti di un determinato gruppo» (Cedu, sentenza 13 novembre 2007, D.H. e a. c. Repubblica ceca [GC] (n. 57325/00), punto 184; Cedu, sentenza 9 giugno 2009, Opuz c. Turchia (n. 33401/02), punto 183. Cedu, sentenza 20 giugno 2006, Zarb Adami c. Malta (n. 17209/02), punto 80).

E’ stato altresì chiarito che la discriminazione opera obiettivamente ovvero in ragione dei mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (cfr Cass. 5 aprile 2016 n. 6575).

In ordine alla nozione di discriminazione indiretta, deve quindi evidenziarsi come la stessa alberga non nel trattamento – che è uguale – ma negli effetti – che sono diversi perché diverse sono le situazioni soggettive dei destinatari del trattamento: ciò che rileva è solo l’effetto del trattamento discriminatorio, la sua conseguenza sul piano oggettivo, essendo, viceversa, del tutto irrilevante l’intento soggettivo dell’agente, sia per l’individuazione della condotta vietata, sia, correlativamente, per l’individuazione delle cause di esclusione della fattispecie illecita.

Va poi rammentato, in punto di distribuzione dell’onere della prova, che ai sensi dell’art. 28, co.4, del D. Lgs 150 del 2011, nelle controversie in materia di discriminazione, fra cui quelle di cui all’articolo 37 del decreto legislativo 198 del 2006, “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione.

Ne discende che nell’ambito del giudizio antidiscriminatorio l’attore ha soltanto l’onere di fornire elementi di fatto, anche di carattere statistico, idonei a far presumere l’esistenza di una discriminazione: qualora il dato statistico fornito dal ricorrente indichi una condizione di svantaggio per un gruppo di lavoratori, è onere del datore di lavoro dimostrare che le scelte sono state invece effettuate secondo criteri oggettivi e non discriminatori.

Quanto all’agevolazione probatoria in favore del soggetto che lamenta la discriminazione è stato evidenziato (cfr. Cass. 27.9.2018 n. 23338, Cass. 12.10.2018 n. 25543) che le direttive in materia (n. 2000/78, così come le nn. 2006/54 e 2000/43), come interpretate della Corte di Giustizia, ed idecreti legislativi di recepimento impongono l’introduzione di un meccanismo di agevolazione probatoria o alleggerimento del carico probatorio gravante sull’attore “prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza della discriminazione” (cfr. Cass. n. 14206 del 2013, in materia di discriminazione di genere). Ciò consente di ritenere, quindi, che, nel regime speciale applicabile nei giudizi antidiscriminatori, si configuri un’inversione, seppure parziale, dell’onere probatorio. Tutto ciò premesso, ritiene il Tribunale che, sia pure nei limiti della sommarietà della cognizione propria della presente fase urgente, nel caso di specie la Consigliera ricorrente abbia provato che la nuova organizzazione dell’orario di lavoro adottata dalla LIS determina, nel suo complesso, una discriminazione indiretta in danno dei genitori lavoratori (soggetti portatori del fattore di rischio costituito dalla maternità o paternità, v. art. 25, co. 2-bis d.lgs. n. 198/2006), e, in particolare, delle lavoratrici madri (soggetti che cumulano il fattore di rischio costituito dal sesso femminile con il fattore di rischio costituito dalla maternità).

In particolare, a parere del giudicante, l’istruttoria orale ha provato con certezza che il nuovo orario di lavoro adottato dalla convenuta non solo possa svantaggiare, ma effettivamente e concretamente svantaggi i suddetti gruppi tipizzati rispetto ai dipendenti non genitori, rendendo estremamente difficoltosa – se non francamente impossibile – la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e la fruizione degli istituti giuridici a ciò preposti, esponendo, altresì, gli stessi figli minori a gravi disagi e ad alterazioni dei ritmi e abitudini di vita, potenzialmente forieri di conseguenze sul loro benessere psico-fisico.

Sul punto la teste L D, dipendente L e madre di figli minori in tenera età, ha riferito: “Il nuovo orario non è compatibile con le mie esigenze personali e famigliari, perché prima portavo i bambini a scuola prima di andare a lavorare e li andavo a prendere dopo la fine dell’orario lavorativo, adesso non ce la faccio. Io ho due figli, una di 9 e uno di 7. Sono sposata, mio marito fa l’operaio in fonderia e lavora su turni, la mattina dalle 6 alle 14 e l’altro turno dalle 14 alle 22 e poi fa anche il turno di notte dalle 22 alle 6 di mattina. Dopo che è subentrata la L, abbiamo dovuto organizzarci in vari modi: alcune settimane, quando i suoi turni lo consentono, mi aiuta mio marito, le altre settimane ho dovuto mettermi d’accordo con una ragazza che però non accetta di venire a casa nostra alle 5 di mattina, quindi io sveglio i bambini alle 4.30, li metto in macchina e li porto a casa di questa ragazza, a volte i bambini si riaddormentano, a volte non riescono. Poi è la ragazza che li porta a scuola e io li vado a prendere. Questo quando faccio il turno della mattina. Invece, quando faccio il turno del pomeriggio, io li porto a scuola la mattina e la ragazza va a prenderli all’uscita di scuola, se li porta a casa sua perché anche lei ha due bambini e poi vado a prenderli io quando esco dal lavoro. A volte li trovo svegli, a volte li trovo che stanno già dormendo, perché sono circa le 23.00.”

La teste L F, anch’essa dipendente L e madre single di figlio minore in tenera età, ha a sua volta dichiarato: “Ricordo che ad ottobre 2020, quando finì la cassa integrazione e dovemmo tornare a lavorare, noi donne che avevamo accettato di proseguire con il lavoro ci siamo rese conto che era impossibile. Alcune si sono licenziate, altre, parlando tra di noi, hanno deciso di provare a chiamare i capi e parlare con loro, per vedere se potevano venirci incontro. (…) Io ho chiesto loro come si organizzano: una mi ha detto che il marito fa il corriere e si porta il bambino in macchina finché lei non torna dal lavoro. Le altre sono riuscite a far venire le mamme, chi dal sud Italia chi da paesi stranieri. Il nostro stipendio pieno è intorno ai 1200 euro, io non mi posso permettere una baby sitter perché la baby sitter dovrebbe venire a casa mia alle 5.00 del mattino e farebbe più ore di me, praticamente: io non arrivo a coprire questa spesa. Se io facessi il turno di pomeriggio, sarebbe anche peggio perché la baby sitter dovrebbe andare a prendere il bambino al nido alle 17.30 e restare fino alle 22.30 e sono troppe ore da pagare. Io non ho la possibilità di chiamare mia mamma. Che io sappia, ci sono circa 15 ragazze che sono nella situazione disperata in cui mi trovo io, perché non hanno aiuti per gestire i bambini.” Rispetto alla propria situazione personale, la teste ha poi riferito: “Quando sono rientrata dalla cassa integrazione, ad ottobre 2020, per 3 settimane ho fatto i turni, prima che l’azienda mi venisse incontro: in queste tre settimane, ho cercato di prendermi in casa una ragazza studentessa, offrendo posto letto in cambio dell’aiuto come baby sitter, ho trovato una ragazza che alla fine non ha accettato perché il bambino si svegliava con me alle 4.30 e lei non riusciva a tranquillizzarlo, il bambino continuava a piangere fino all’apertura del nido. Quando è andata via, sono rimasta una settimana scoperta e mi sono organizzata con le mie vicine di casa, portavo il bambino a casa loro alle 4.30 di mattina oppure, quando facevo il turno pomeridiano, lo andavo a prendere alle 23. Poi per la terza settimana l’ho portato a Ravenna da mia sorella.”

La teste E B, operatrice sindacale per il sindacato Si Cobas, ha dichiarato: “so che alcune lavoratrici non hanno accettato il cambio appalto, almeno una quindicina, perché non erano in grado di conciliare i tempi di lavoro con i tempi di vita”, precisando che “quelle lavoratrici, che sono circa una quindicina, che abbiamo assistito nella nostra richiesta di intervento, continuano ad avere gli stessi problemi organizzativi. Proprio ieri una lavoratrice mi ha chiamato dicendomi che non riesce più a sostenere questo ritmo e chiedendomi come potersi dimettere con diritto alla NASPI.”

La circostanza è stata confermata anche dai testi indotti dalla società resistente e in particolare dalla teste S S, sindacalista della Filt CGIL, la quale, ripercorrendo la procedura di cambio appalto seguita in occasione del subentro della LIS, ha riferito della forte preoccupazione dei lavoratori a fronte del cambio di orario fin da subito prospettato dalla nuova appaltatrice (“I lavoratori erano già stati informati del fatto che con il nuovo appalto le attività sarebbero state svolte su turni, noi sindacati abbiamo chiesto e ottenuto un periodo di transizione di sei mesi in cui l’azienda si impegnava a mantenere il vecchio orario, ma venne detto in quella occasione ed era già stato detto prima nelle riunioni sindacali che poi si sarebbe passati al doppio turno.

Chiaramente i lavoratori non erano contenti perché gli cambiava la vita, c’erano tante problematiche varie, alcune relative ai mezzi di trasporto, e si era scatenato il panico. Noi avevamo portato a casa un cambio appalto con condizioni economiche sicuramente più favorevoli rispetto al pregresso, ma i lavoratori si sono tutti concentrati sul problema dell’orario. L’argomento era sentito, sicuramente ci furono delle lavoratrici madri preoccupate”) e della difficoltà della gestione del nuovo orario di lavoro da parte delle lavoratrici madri (“Ci sono iscritte CGIL che hanno figli o stanno per averli che sicuramente avranno problematiche ci gestione dei figli, e per alcune abbiamo fatto delle richieste in base all’accordo”).

D’altro canto, l’effetto oggettivamente discriminatorio della nuova organizzazione dell’orario di lavoro nei confronti dei lavoratori e in particolare delle lavoratrici con figli minori non ancora autosufficienti appare evidente sulla base, ancora prima che delle deposizioni sopra richiamate, dello stesso senso comune e della comune esperienza.

Non pare infatti potersi seriamente dubitare del fatto che il passaggio da un orario di lavoro su turno unico centrale (sostanzialmente coincidente con gli orari scolastici) ad un orario su doppio turno, il primo dei quali con inizio ad ore 6.00 del mattino (attualmente anticipato alle ore 5.30) e il secondo con termine alle ore 22.00 (attualmente posticipato alle ore 22.30) impatti molto più pesantemente sui lavoratori con figli minori e in particolare sulle lavoratrici madri, tradizionalmente e usualmente maggiormente impegnate nella cura della prole, piuttosto che sui colleghi/sulle colleghe senza figli o con figli autonomi ed autosufficienti.

E’ poi altrettanto intuitivo ed evidente che le difficoltà di gestione dei figli minori, cagionate dalla introduzione del nuovo orario di lavoro su turni, non possono essere agevolmente superate mediante il ricorso ad ausili esterni, e ciò ove si consideri che il reddito da lavoro medio delle operaie dipendenti della LIS non consente il massiccio ricorso a servizi di baby sitting o comunque a servizi di assistenza a pagamento.

Le lavoratrici con figli minori in tenera età sprovviste di una solida rete familiare si sono dunque trovate, come inequivocamente emerso dall’istruttoria, in situazione di oggettivo ed estremo svantaggio rispetto a tutti gli altri lavoratori, in conseguenza della disposta variazione dell’orario di lavoro.

A fronte di ciò, gravava sulla parte convenuta l’onere di provare la sussistenza di una finalità legittima e la circostanza che la variazione dell’orario di lavoro costituisse mezzo appropriato e necessario al perseguimento della predetta finalità.

Si esamineranno quindi partitamente i tre profili.

Sotto il primo profilo, ritiene il giudicante che la società resistente abbia adeguatamente provato il perseguimento di una finalità legittima. Ed invero, la L G ha allegato che la modifica dell’orario di lavoro è stata dettata da una duplice finalità: da un lato, quella di adattare la organizzazione del lavoro ai nuovi (e ridotti) spazi a disposizione per l’esecuzione delle attività appaltate, che erano passati dal vecchio magazzino 4.2 dell’Interporto, più grande, già in uso al precedente appaltatore Mr J, ad una parte del magazzino 15.1, più piccolo, attualmente in uso alla resistente; dall’altro lato, quella di adattare l’orario alla tipologia di attività e di filiera, in quanto le altre aziende coinvolte nell’appalto Y N P-Geodis lavoravano “in concatenazione oraria dalle 06:00 alle 22:00 e in stretta correlazione l’una con l’altra (propedeuticità di magazzini in e out, partenza ed arrivo delle navette inter-magazzini, partenze e arrivo dei corrieri dall’esterno e verso l’esterno), ivi incluso il personale Y N P che lavora su pre-anagrafica, controllo qualità, asseriamento et similia, secondo la modalità del doppio turno”.

Entrambe le allegazioni hanno trovato sufficiente riscontro in istruttoria, sia pure nei limiti della sommarietà della stessa, che caratterizza la presente fase cautelare.

Tutti i testi escussi hanno infatti confermato che, in occasione del cambio appalto, la subentrante L, pur avendo assorbito tutto il personale del precedente appaltatore, si è trasferita presso un nuovo magazzino di dimensioni sensibilmente inferiori al precedente: è quindi dimostrato che il regime orario basato sul doppio turno risponde anzitutto alla necessità di adattare le modalità di lavoro ai nuovi (e più ridotti) spazi disponibili per l’operatività aziendale.

I testi escussi hanno altresì confermato che le altre società facenti parti della filiera Y N P e in particolare sia la società MMP, che condivide con la L il medesimo magazzino e svolge attività speculare, sia la G lavorano su doppio turno, di tal che appare verosimile che, come sostenuto dalla azienda, il passaggio al doppio turno agevoli la concatenazione delle lavorazioni di tutte le aziende della filiera Y N P-Geodis, allineando gli orari di lavoro della L a quelli già osservati dalle altre società addette all’appalto, con conseguenti benefici organizzativi.

D’altro canto, secondo consolidata giurisprudenza, la modifica dell’orario di lavoro e del regime dei turni da parte del datore di lavoro rientra nella libertà d’impresa, riconosciuta dall’articolo 41 della Costituzione, ed ha, in linea di principio, carattere legittimo, in particolare qualora il datore di lavoro, come nel caso che occupa, eserciti il proprio ius variandi nel perseguimento di specifiche e comprovate esigenze dell’impresa.

Per quanto riguarda poi il secondo profilo, ossia quello del carattere appropriato dei mezzi adottati dalla datrice di lavoro per il perseguimento delle predette legittime finalità, occorre rilevare che la modifica oraria adottata da L – prevedente una divisione dei dipendenti in due gruppi e l’assegnazione degli stessi a due turni consecutivi, tali da coprire un complessivo arco orario, a regime, dalle ore 6.00 alle ore 22.00 – appare idonea ad assicurare il raggiungimento di entrambe le finalità perseguite, consentendo sia di occupare tutti i dipendenti del precedente appaltatore in uno spazio più ridotto, sia di garantire una più efficiente organizzazione del lavoro, incardinando le attività precipue della L in un flusso di processi più ampi e complementari svolti dalle altre società della filiera in regime di doppio turno.

Ricorre pertanto anche il carattere della appropriatezza dei mezzi adottati al perseguimento della legittima finalità aziendale.

Per quanto riguarda invece il terzo profilo, ossia quello della necessità dei predetti mezzi, occorre verificare se la modifica oraria imposta si limiti allo stretto necessario. Si tratta quindi di accertare se, per consentire il raggiungimento della finalità legittima perseguita dall’impresa, l’imposizione di un regime di doppio turno debba effettivamente essere rivolta all’intera platea di dipendenti, come fatto dall’azienda. In caso affermativo, detta variazione dell’orario deve essere considerata strettamente necessaria per il conseguimento della finalità perseguita. In caso contrario, invece, va ulteriormente accertato se, tenendo conto dei vincoli inerenti all’impresa, e senza che quest’ultima dovesse sostenere un onere aggiuntivo, sarebbe stato possibile per la L, di fronte alla situazione di oggettivo particolare svantaggio che la disposizione aziendale di variazione dell’orario lavorativo cagionava alle dipendenti madri di figli in tenera età, offrire a queste ultime una soluzione alternativa e, in particolare, l’assegnazione ad un turno unico centrale o ad altro orario compatibile con la cura dei figli minori.

Questa verifica va effettuata sulla scorta delle allegazioni e degli elementi di prova forniti dalla datrice di lavoro, giacché, una volta provata dalla Consigliera la discriminazione indiretta, era la società che aveva l’onere di allegare e dimostrare che la finalità legittimamente perseguita non sarebbe stata raggiungibile se non mediante le disposizioni per cui è causa, così da giustificare l’adozione indifferenziata a tutti i suoi dipendenti di una organizzazione dell’orario di lavoro peggiorativa, in particolare per i genitori e al loro interno per le lavoratrici madri, rispetto a quella precedentemente prevista.

Ebbene, ritiene il giudicante che questo onere probatorio non sia stato adeguatamente assolto dalla L G.

Ed invero, sul punto la società ha allegato che “sulla base dei verbali di sopralluogo RSPP e delle appendici di aggiornamento DVR al covid-19 non era a marzo scorso, al momento di formulazione della proposta conciliativa della Consigliera di parità, ne è ora possibile accedere ad una estensione del riconoscimento del turno centrale alle lavoratrici madri di figli da 1 a 3 anni, né tanto meno da 1 a 6 anni o, secondo la domanda giudiziale, addirittura da 1 a 12 anni perché implicherebbe la compresenza nel periodo tra le 8:30 e le 17:30 di un numero di persone non compatibili con i mt2 a disposizione per ciascuna persona, le vie di circolazione per i beni strumentali e le persone, le vie di fuga, i divieti di assembramento, il distanziamento sociale e l’aerazione minima, la necessità di evitare il più possibile i contatti nelle zone comuni (ingressi, spogliatoi, sala mensa), ecc.”. Ciò in quanto nell’appendice al DVR (p. 47 , doc. 8 res.) viene identificato il numero massimo degli operatori che possono essere presenti su ciascun turno nel numero di 61 (“massima capacità di capienza per turno mattino – pomeriggio in applicazione del DPCM 24/4/2020 e 6/4/2021”), di tal che, secondo quanto dedotto dall’azienda, “su un turno di una cinquantina di operatori è accettabile una deroga di una decina di persone, non certo delle 50-60 potenziali derivanti dall’accoglimento della domanda attorea, che va quindi rigettata non solo perché infondata ma anche perché impossibile da attuare stante le limitazioni imposte dal RSPP e dal medico competente”.

A fronte di tali allegazioni si osserva:

– anzitutto, che la LIS non ha allegato né dimostrato che, per il conseguimento delle finalità perseguite, sia necessaria la adibizione all’orario turnato sfalzato dell’intera forza lavoro; al contrario, dalle stesse allegazioni della resistente (che testualmente ritiene “accettabile una deroga di una decina di persone”) e comunque dalle previsioni degli accordi aziendali – di cui si tratterà infra – emerge la possibilità di adibire un certo numero di lavoratori al turno unico centrale, senza che ciò pregiudichi la funzionalità, nel suo complesso, della nuova organizzazione del magazzino basata sul doppio turno;

– il limite massimo di n. 61 lavoratori compresenti per turno – effettivamente risultante dalla documentazione offerta dall’azienda e comunque confermato dal teste E P, responsabile del Servizio Prevenzione – si riferisce all’attuale periodo emergenziale e discende dall’applicazione delle normative sanitarie volte ad evitare la diffusione del virus COVID-19 le quali, com’è noto, prevedono un maggiore distanziamento tra le persone; ne discende logicamente che, una volta cessato lo stato di emergenza, il numero dei lavoratori che potranno essere presenti contemporaneamente nei locali aziendali sarà senz’altro superiore agli attuali 61, per quanto non possa raggiungere, come riferito sempre dal teste P, l’intero organico aziendale;

– in ogni caso, anche all’attualità, a fronte di una capienza massima di n. 61 lavoratori per turno, come riferito dal teste P “mediamente l’organico impiegato per turno non supera la 50 unità”: sarebbe quindi possibile, già oggi, l’inserimento in turno unico centrale di almeno 11 lavoratrici madri di figli in tenera età (se non vi fosse l’ostacolo, attualmente in effetti sussistente, della necessità di dividere il personale nelle cd “bolle” la cui creazione è finalizzata a contenere eventuali focolai da COVID 19);

– infine, l’azienda non ha allegato, né è emerso, quale sia, sulla scorta dei generali criteri di sicurezza degli ambienti di lavoro, il numero massimo di lavoratori che possono essere compresenti all’interno del nuovo magazzino, una volte superate e cessate le attuali prescrizioni anti-covid.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, ritiene il giudicante che l’imposizione, a regime, di un orario basato su doppio turno alternato a tutti i dipendenti non sia strettamente necessaria per il conseguimento delle finalità perseguite.

Va allora valutata la concreta possibilità per l’azienda di offrire ai dipendenti genitori di figli minori non autosufficienti e in particolare alle madri una soluzione alternativa, senza oneri eccessivi e tenuto conto dei vincoli all’attività di impresa.

Sotto questo aspetto, vengono sicuramente in rilievo gli accordi sindacali dell’8 e del 12 marzo 2021 (docc. 5 e 6 res.) i quali prevedono una serie di azioni positive e compensative per mitigare gli effetti negativi a carico delle lavoratrici madri derivanti dall’adozione del doppio turno di lavoro in epoca pandemica.

In particolare l’accordo di filiera dell’8 marzo introduce:

1. la possibilità di assegnazione del c.d. turno centrale o altro orario concordato in favore di lavoratori e lavoratrici con figli al di sotto di 1 anno di età che ne facciano richiesta scritta al datore di lavoro;

2. la trasformazione a richiesta del lavoratore del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale per l’assistenza ai figli di età compresa tra 1 e 3 anni;

3. la possibilità di fruire del congedo facoltativo di maternità/paternità con un minimo di due ore, anche in deroga alle disposizioni Inps per tutti coloro che ne beneficiano entro i limiti e nelle previsioni del d.lgs. n. 151/2001 e successive modifiche;

4. Il riconoscimento di 5 gg. di congedo per malattia figlio tra i 3 e gli 8 anni, aggiuntivi rispetto a quelli legali di cui al c. 2, art. 47, d.lgs. 151/2001;

5. il riconoscimento di un periodo di aspettativa non retribuito continuativo per un massimo di 6 mesi per dipendente genitore con figlio di età inferiore ai 3 anni per assistere il proprio figlio con diritto alla conservazione del posto di lavoro (e aggiuntivo rispetto al biennio legale);

6.l’istituzione di un tavolo sindacale di filiera permanente finalizzato al sostegno della genitorialità. A queste misure, il successivo accordo aziendale del 12 marzo ne ha aggiunte altre due:

7. la possibilità di ricorso al part time da 20 o da 25 ore settimanali a discrezione dell’interessata/o, secondo modalità distributive dell’orario indicate nell’accordo, a favore di lavoratrici o di lavoratori con figli minori sino a 3 anni;

8. la previsione per tali lavoratrici/lavoratori di misure di compensazione economica erogate sub specie di buoni spesa in beni e servizi del valore rispettivamente di € 30 o di € 25 per ogni settimana di effettiva e piena prestazione di lavoro.

Sennonché dette misure correttive, come eccepito dalla Consigliera, non appaiono realmente idonee ed efficaci a elidere o comunque ridurre significativamente la condizione di particolare svantaggio gravante sulle lavoratrici madri in conseguenza e per l’effetto della adottata modifica oraria.

Ciò in quanto gli accordi prevedono la possibilità di assegnazione di lavoratori e lavoratrici al c.d. turno centrale o altro orario concordato in un’unica ipotesi, ossia nel caso di presenza di figli al di sotto di 1 anno di età.

Tale previsione pattizia non solo evidentemente non attinge a tutta la platea delle lavoratrici discriminate, ma ha portata così riduttiva da risultare, di fatto, sostanzialmente inapplicata, come provato dall’istruttoria.

Sul punto appare dirimente la deposizione della teste di parte resistente Lucia Lupo la quale ha dichiarato: “Da quando è stato sottoscritto l’accordo di marzo 2021 nessuna mamma ha usufruito del turno unico centrale in favore dalle madri di figli di età inferiore all’anno perché rientrano al lavoro quando il bimbo è già più grande.”

Quella che l’azienda ha indicato come la principale misura correttiva è dunque restata, fino ad ora, del tutto inapplicata e ciò nonostante vi fossero, in organico, lavoratrici astrattamente rientranti nella previsione.

Anche la seconda misura correttiva prevista dall’accordo, ossia la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale a richiesta dei lavoratori/ delle lavoratrici con figli di età inferiore ai 3 anni, non appare risolutiva ove si consideri che la riduzione dell’orario di lavoro ovviamente implica una riduzione dello stipendio, che può dissuadere le lavoratrici madri dal giovarsi della previsione.

Inoltre, la stessa teste Lupo ha dichiarato che l’azienda non incentiva il ricorso al part time, ritenuto poco confacente alla attuale organizzazione del lavoro (“Altre lavoratrici hanno chiesto un part time puro semplice e la richiesta in alcuni casi è stata accolta e in altri no. Questo appalto presentava già numerosi part time quando lo abbiamo ereditato, pertanto la direzione operativa non aveva interesse a nuovi part time perché diventano difficilmente incastrabili, soprattutto le 6 ore. Abbiamo limitato la concessione dei part time a quelli obbligatori per legge o a quelli introdotti con l’accordo marzo 2021”) e le testi F e D hanno riferito che la loro richiesta di part time non ha trovato accoglimento; l’istruttoria parrebbe dimostrare, pertanto, oggettive difficoltà delle lavoratrici madri a giovarsi concretamente della misura correttiva costituita dalla trasformazione del rapporto da full time a part time.

Quanto invece alle altre misure correttive previste negli accordi sindacali, basti osservare che le stesse consistono in previsioni migliorative rispetto alle norme di legge e di contratto collettivo rispetto a specifici istituti (congedo parentale, congedo per malattia del figlio, aspettativa non retribuita) che però non concernono l’orario di lavoro.

In conclusione, pertanto, ritiene il giudicante che la società ricorrente non abbia provato, com’era suo onere, che i mezzi impiegati per il perseguimento della legittima finalità perseguita siano strettamente necessari al raggiungimento della stessa. Al contrario, come si è sopra evidenziato, dalle stesse allegazioni delle parti e dall’istruttoria è emerso come fosse possibile raggiungere la finalità perseguita anche adibendo a turno unico centrale o ad altro orario concordato un certo – seppur limitato, quanto meno dalla capienza dei locali aziendali – numero di operatori, mentre gliaccordi raggiunti in sede sindacale attualmente, di fatto, non consentono a nessuna della lavoratrici madri di accedere al turno unico centrale, prevedendo condizioni così stringenti da vanificare, nella sostanza, la deroga apparentemente concessa.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, deve quindi essere accertata la natura discriminatoria, sub specie di discriminazione indiretta, della condotta datoriale lamentata.

Ai sensi e per gli effetti dell’art. 37, co. 4 d.lgs. n. 198/2006, deve, quindi, ordinarsi alla convenuta L G S.R.L la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli effetti delle discriminazioni accertati, provvedendo, tra l’altro, a definire e attuare un piano di rimozione delle medesime, sentile le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, gli organismi locali aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché la consigliera di parità regionale competente per territorio.

Ai fini della definizione ed attuazione del piano, che dovrà effettuarsi entro il termine di mesi 3 dalla comunicazione del presente decreto, la società dovrà attenersi ai seguenti criteri: assegnazione delle lavoratrici madri con figli in tenera età (fino a 12 anni) ad un turno centrale o altro orario concordato, a scorrimento e nei limiti della capienza massima dei locali aziendali, in forme comunque compatibili con la funzionalità aziendale e salvo il rispetto delle normative emergenziali anti-covid di tempo in tempo vigenti.

mPer quanto concerne, invece, la domanda risarcitoria proposta dalla Consigliera in relazione al lamentato danno non patrimoniale, dato atto che la lettera della norma prevede il diritto “al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita” attribuendogli, quindi, una funzione esclusivamente riparatoria del danno-conseguenza eventualmente prodottosi, deve tenersi conto, da un lato, che in sede penale (v. Cass., sez. VI, 16 aprile 2009, n. 16031) il giudice di legittimità ha da tempo ritenuto ammissibile la costituzione di parte civile nel processo penale ex art. 74 c.p.p. della Consigliera regionale di parità jure proprio come soggetto danneggiato dal reato (in un caso di maltrattamenti perpetrati da un preposto del datore ai danni di una collettività individuata) di lavoratrici, con ciò riconoscendo che il danno risarcibile attraverso l’azione collettiva possa identificarsi con il pregiudizio agli scopi istituzionali dell’ente e all’azione di contrasto delle discriminazioni che esso si propone; dall’altro, del fatto che, come è noto, le fonti sovranazionali attribuiscono (anche) allo strumento rimediale del risarcimento del danno connotati necessari di effettività, da rapportarsi, non solo alla gravità del danno, ma anche alla funzione dissuasiva e sanzionatoria del rimedio (vedasi Trib Firenze sez. lav., 22/10/2019). Ciò detto, deve, altresì, considerarsi come recentemente la Suprema Corte a Sezioni Unite (Cass.16601/2017), ha annoverato le norme che prevedono il risarcimento del danno a fronte di una condotta discriminatoria tra le fattispecie contemplate dall’attuale panorama normativo in cui, accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto del risarcimento del danno (che immancabilmente lambisce la deterrenza), ne emerge una natura polifunzionale “che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva”. Nell’occasione le Sezioni Unite hanno avuto modo di rilevare che vi è anche un riscontro a livello costituzionale della cittadinanza nell’ordinamento di una concezione polifunzionale della responsabilità civile, la quale risponde soprattutto a un’esigenza di effettività (cfr. Corte Cost. 238/2014 e Cass. n. 21255/13) della tutela che in molti casi resterebbe sacrificata nell’angustia monofunzionale. Va poi segnalato che della possibilità per il legislatore nazionale di configurare “danni punitivi” come misura di contrasto della violazione del diritto eurounitario parla Cass., sez. un., 15 marzo 2016, n. 5072. Di conseguenza, alla luce di tutto sin qui osservato, dovendo il giudice nazionale effettuare una interpretazione comunitariamente orientata della norma dell’ordinamento interno, e considerato che a fronte dell’interesse iure proprio, pubblico e funzionale alla tutela del bene collettivo – assunto dall’ordinamento come valore – della parità di genere, appare difficile prospettare una funzione del risarcimento diversa da quella dissuasiva e latamente sanzionatoria, si ritiene di dover liquidare, in via equitativa, alla Consigliera ricorrente, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, la somma di € 5.000,00, oltre interessi legali dalla pronuncia al saldo.

Venendo infine alle spese di lite, tenuto conto della assoluta novità e oggettiva complessità della res controversa, e tenuto altresì conto del perseguimento da parte della società convenuta di una finalità legittima e dell’adozione di misure correttive dell’effetto discriminatorio, seppure ritenute non efficaci e sufficienti, ritiene il giudicante che ricorrano gravi ed eccezionali ragioni per disporre la compensazione delle spese di lite nella misura della metà, dovendosi, quindi, condannare la parte convenuta soccombente a rifondere alla ricorrente solo la restante metà delle dette spese, liquidate come in dispositivo sulla scorta dei parametri di cui al DM 55/2014 (cause di lavoro; scaglione di valore indeterminabile; valori medi per ogni fase).

P.Q.M.

Il Giudice del Tribunale del Lavoro, ogni altra istanza disattesa e respinta:

– Accerta e dichiara la discriminatorietà della condotta di L G S.R.L consistente nella imposizione anche ai lavoratori e in specie alle lavoratrici con figli minori in tenera età del nuovo orario di lavoro sue due turni, meglio descritto in motivazione; per l’effetto ordina a quest’ultima la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli effetti delle discriminazioni accertate, provvedendo, tra l’altro, a definire e attuare, entro il termine di mesi 3, un piano di rimozione delle medesime, sentile le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, gli organismi locali aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché la consigliera di parità regionale competente per territorio;

– fissa i seguenti criteri da osservarsi ai fini della definizione ed attuazione del piano: assegnazione delle lavoratrici madri con figli in tenera età (fino a 12 anni) ad un turno centrale o ad altro orario concordato, a scorrimento e nei limiti della capienza massima dei locali aziendali, in forme comunque compatibili con la funzionalità aziendale e salvo il rispetto delle normative emergenziali anti-Covid di tempo in tempo vigenti;

– condanna L G S.R.L a corrispondere alla Consigliera ricorrente, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, la somma di € 5.000,00 oltre interessi legali dalla presente decisione al saldo;

– dispone la parziale compensazione fra le parti delle spese di lite nella misura di un mezzo e per l’effetto condanna la società resistente alla rifusione, in favore della parte ricorrente, della restante metà delle dette spese che liquida per l’intero in €. 8.815,00 per compensi professionali oltre rimborso spese generali, iva e cpa come per legge.

Si comunichi.

Bologna, 31/12/2021

Il Giudice

dott. Chiara Zompì