Discriminazione razziale, mancata concessione dell’assegno di maternità ai cittadini extracomunitari, Corte d’Appello di Firenze, sentenza del 5 maggio 2015.

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del popolo italiano

La Corte di Appello di Firenze

Sezione lavoro

nelle persone dei Magistrati:

 

Dott. Fausto Nisticò                                      Presidente

Dott. Vincenzo Nuvoli                                  Consigliere

Dott. Roberta Santoni Rugiu                        Consigliere rel.

nella causa promossa da

L. T

con l’Avv. A. M. Ventrella

appellante

contro

COMUNE DI CAMPI BISENZIO

con l’avv. M. Bulli

INPS

con l’avv. S. Imbriaci

appellati

nella causa iscritta al n. 308/14 RG all’udienza del 5 maggio 2015 ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Con ordinanza ex art. 702 bis cpc del 4.3.2014 il Tribunale di Firenze respingeva la domanda di L T tesa ad ottenere l'<assegno di maternità di base> previsto dall’art. 74 D. Lgvo 151/01, per difetto della carta di soggiorno.

Con il ricorso di primo grado l’interessata – premesso di essere madre di un bambino nato nel luglio 2012, nonché cittadina marocchina moglie convivente di cittadino marocchino che lavorava in Italia, titolari entrambi di permesso di soggiorno – denunciava la natura discriminatoria dello stesso art. 74 nella parte in cui, per la concessione dell’assegno di maternità ai cittadini extracomunitari, esigeva il possesso della carta di soggiorno, con ciò violando il principio di non discriminazione in materia di sicurezza sociale previsto dall’art. 65 dell’Accordo Euromediterraneo fra la UE ed il Marocco del 1996.

Il Tribunale, con l’ordinanza appellata, negava che tale Accordo potesse essere oggetto di diretta applicazione negli stati membri, poiché piuttosto all’art. 67 stabiliva che il Consiglio di associazione doveva adottare le disposizioni per l’applicazione dei principi ivi previsti. In concreto nemmeno riteneva sussistere l’ipotesi prevista dall’art. 65 dell’Accordo, poiché le prestazioni di maternità disciplinate nella fonte comunitaria avevano natura previdenziale e quindi spettavano esclusivamente alle donne lavoratrici, mentre l’assegno ex art. 74 aveva natura assistenziale.

L T appellava la decisione affermando che:

1) come ritenuto da giurisprudenza comunitaria e nazionale, nella gerarchia delle fonti l’Accordo Euromediterraneo fra la UE ed il Marocco, stipulato a Bruxelles nel 1996, approvato con decisione di Consiglio e Commissione nel 2000, pubblicato su G.U. CE del 2000 e ratificato dall’Italia già dal 1999, si collocava fra le norme self – executing che contengono disposizioni chiare, precise ed incondizionate, alla luce della relativa interpretazione fornita dalla CGUE, da intendere come norme a fronte delle quali dovevano essere disapplicate eventuali disposizioni nazionali contrastanti (in particolare, l’art. 74 D. Lgvo 151/01 quanto al requisito del possesso di carta di soggiorno)

2) era errato ritenere che le prestazioni oggetto dell’art. 65 dell’Accordo fossero esclusivamente di natura previdenziale; al contrario, testualmente, vi era invece stabilito il principio di non discriminazione in favore dei lavoratori marocchini e dei familiari conviventi, da riferire quindi anche a prestazioni non  contributive

3) l’Accordo del 1996, come il precedente analogo del 1976, facevano riferimento alla nozione sostanziale di < sicurezza sociale >, fondata su normativa comunitaria ed a sua volta elaborata dalla giurisprudenza comunitaria con inclusione altresì delle prestazioni (di vario tipo destinate a compensare i carichi) familiari, pur se a carattere non contributivo; quindi nel principio di non discriminazione di cui all’art. 65 doveva essere incluso l’assegno di maternità di base previsto dall’art. 74.

L’appellante chiedeva pertanto di accertare l’illegittimità perché discriminatorio dell’art. 74 D. Lgvo 151/01 nella parte in cui imponeva il possesso della carta di soggiorno, ordinando al Comune (titolare del potere concessorio), ed all’Inps (titolare del potere di erogazione), di cessare la condotta discriminatoria nei confronti della ricorrente, con conseguente condanna di entrambi al pagamento dell’assegno di maternità oltre interessi e rivalutazione.

L’INPS si costituiva chiedendo il rigetto dell’impugnazione poiché:

– la sentenza di primo grado doveva essere condivisa sia laddove aveva ritenuto che nell’ordinamento interno l’ Accordo Euromediterraneo fra la UE ed il Marocco non era fonte self executing, sia nell’ulteriore affermazione che le prestazioni previste nell’art. 65 avevano natura previdenziale riferendosi quindi ai lavoratori marocchini residenti in Italia, e non natura assistenziale estendendosi anche ai familiari degli stessi lavoratori

– in tutti i casi, l’appello poteva essere accolto limitatamente all’accertamento del diritto all’assegno, ma non quanto alla pretesa natura discriminatoria della norma interna né all’ordine nei confronti di INPS e di Comune di cessare la medesima condotta

– comunque, non poteva parlarsi di condotta discriminatoria dal momento che il diverso trattamento dipendeva da uno status giuridico (straniero fornito o meno di carta di soggiorno) a sua volta determinato da norme generali di ordine pubblico; a maggior ragione nessuna discriminazione poteva essere addebitata all’Inps quale soggetto erogatore sulla base di determinazioni altrui

– e, eventualmente riconosciuta la prestazione, gli accessori non potevano che decorrere dal 120º giorno successivo alla domanda amministrativa, escludendosi per legge il cumulo di interessi e rivalutazione (art. 16 L. 412/91).

Il COMUNE si costituiva per eccepire l’inammissibilità dell’appello perché:

– la domanda della ricorrente, se inclusa nella competenza del giudice del lavoro in quanto relativa a prestazione assistenziale, avrebbe dovuto essere introdotta con il rito di cui all’art. 414 cpc, altrimenti, se correttamente utilizzato il rito di cui all’art. 702 bis cpc, la controversia avrebbe dovuto essere trasferita al giudice ordinario.

– per la prima volta in secondo grado erano formulate domande relative all’illegittimità dell’art. 74  per la sua natura discriminatoria ed all’ordine di cessazione della stessa condotta discriminatoria, nonché alla richiesta di condanna nei confronti del Comune al pagamento dell’assegno (quest’ultima inammissibile anche perché per legge il Comune non sarebbe comunque tenuto ad erogare della prestazione)

– in fatto il permesso di soggiorno della ricorrente era scaduto nel febbraio 2014, ed allo stato la stessa ne era priva (avendo la Questura respinto la domanda di rinnovo), e di conseguenza non aveva legittimazione attiva a pretendere la prestazione, nemmeno sulla base dell’ampia lettura dei presupposti sostenuta nella sua domanda

– la ricorrente aveva impugnato il solo capo di decisione relativa alla natura assistenziale e non previdenziale delle prestazioni previste dall’Accordo Euromediterraneo, mentre si era quindi formato il giudicato sull’ulteriore capo di decisione relativo al carattere non self – executing del medesimo accordo

Nel merito sosteneva che l’appello era anche infondato poiché:

  1. a) l’Accordo Euromediterraneo del 1996 è stato ratificato ed eseguito in Italia già nel 1999, ovvero prima che il medesimo fosse approvato da parte del Consiglio e della Commissione CE, con decisioni che in Italia non sono mai state recepite; quindi non erano pertinenti con il caso in esame gli argomenti relativi al precedente Accordo del 1976, sostituito per intero dal successivo
  2. b) come già ritenuto da questa Corte di Appello (sentenza n. 64/14 del 21.1.2014), l’Accordo fondava la condizione di reciprocità fra il Marocco e gli Stati membri della CE quanto al trattamento dei lavoratori occupati nei rispettivi territori, e quindi lo status di lavoratore era sempre elemento identificativo del beneficio previsto dall’art. 65. Di conseguenza, il fondamento della domanda non poteva che riferirsi alla sola normativa nazionale (art. 74 D. Lgvo 151/01), che pone a carico dei Comuni l’assegno di maternità in favore di donne che non abbiano diritto all’indennità delle lavoratrici e si trovino nelle condizioni economiche ivi previste. La domanda non poteva essere accolta sulla base dei diversi principi enunciati dalla Corte Costituzionale con le sentenze che hanno ritenuto illegittime le norme in materia di invalidità civile perché esigevano il possesso della carta di soggiorno (indennità di accompagnamento, pensione di inabilità, assegno di invalidità). Infatti, in tali casi le prestazioni erano destinate a supplire gravi situazioni di necessità in funzione di sopravvivenza, mentre in quello in esame si tratta di mera integrazione del reddito. In altri termini, in quest’ultimo caso era ragionevole che il legislatore nazionale subordinasse alcune prestazioni al carattere di lunga durata del soggiorno in Italia ai sensi dell’art. 74 Lgvo 151/01, mentre secondo la Corte Costituzionale lo stesso non era consentito in materia di invalidità civile.
  3. c) la negazione in via amministrativa dell’assegno da parte del Comune non aveva dato luogo ad alcuna condotta discriminatoria in violazione dell’art. 43 D. Lg.vo 286/98, per difetto di nesso causale diretto fra la condizione di straniero ed il diniego della prestazione; piuttosto, il Comune si era limitato ad applicare normativa nazionale che esigeva la condizione di lavoratore da parte del richiedente, ed un titolo qualificato di presenza di lungo periodo nello Stato, considerando altresì che la disapplicazione della norma non conforme all’ordinamento comunitario era potere del giudice e non della pubblica amministrazione.

MOTIVI

Rito

Le eccezioni di inammissibilità sono infondate.

Il procedimento mira alla rimozione degli effetti discriminatori determinati dal rifiuto, del Comune quale ente concessore e dell’INPS quale ente erogatore, di riconoscere la prestazione alla ricorrente in quanto cittadina straniera moglie di lavoratore straniero, entrambi privi del permesso di soggiorno di lungo periodo CE.

Quindi, ai sensi dell’art.28 D.lvo 150/2011, il rito applicabile è quello previsto dall’art.702 bis c.p.c. Né rileva il fatto che venga richiesta anche la prestazione, che il Comune avrebbe dovuto concedere e quindi l’Inps pagare, trattandosi della modalità necessaria per far venire meno il comportamento discriminatorio denunciato (diniego in sede amministrativa da parte di entrambi gli enti).

Quanto alla condizione dell’Inps di mero ente erogatore, la questione potrebbe avere rilievo ai soli fini delle spese di lite, considerato peraltro che, in primo come in secondo grado, l’Istituto non si è rimesso a giustizia, bensì ha negato la fondatezza del diritto della ricorrente, chiedendo il rigetto del ricorso.

La diversa formulazione delle conclusioni del ricorso fra primo e secondo grado non sposta i termini della questione controversa, riassunta sempre nella spettanza del diritto all’assegno di maternità, negato in quanto straniera extracomunitaria priva della carta di soggiorno sulla base di disciplina nazionale, a sua volta ritenuta discriminatoria per violazione di disciplina comunitaria che imponeva parità di trattamento con i cittadini italiani.

In altri termini, il nucleo essenziale della pretesa su cui, in primo come in secondo grado, è chiesta la decisione, concerne il diritto della ricorrente alla prestazione, e la conseguente condanna dell’ente erogatore al relativo pagamento oltre interessi legali dal 121^ giorno successivo alla domanda amministrativa.

Merito

L’appello è fondato e va accolto con riforma integrale del provvedimento impugnato.

La ricorrente contesta il diniego del Comune di concederle l’assegno di maternità di cui 66 L.448/1998 come modificato dall’art.74 D.lvo 251/2001, per mancanza del requisito soggettivo. In particolare, la norma per ogni figlio nato dal 1.1.2001  riconosce la prestazione alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie o in possesso di carta di soggiorno di lungo periodo CE, qualora non beneficino delle indennità previste per le lavoratrici e il cui nucleo familiare abbia un reddito inferiore a determinati limiti.

La ricorrente è cittadina marocchina, risiede in Italia, è madre di figlio nato il 21.7.2012, è coniugata con cittadino marocchino che lavora in Italia, il nucleo familiare di appartenenza rientra nei limiti di reddito previsti dalla norma, non lavora e non beneficia delle indennità previste per le lavoratrici – circostanze tutte pacifiche, nonché documentate – e avrebbe quindi diritto alla prestazione richiesta.

Tuttavia, al momento della domanda amministrativa, era titolare del solo permesso di soggiorno per motivi familiari che, in base alla disposizione nazionale in esame, pacificamente non costituisce titolo idoneo per la concessione della stessa.

Ciò premesso, a fondamento del suo diritto invoca il principio di non discriminazione in materia di sicurezza sociale previsto dall’art.65 dell’Accordo Euromediterraneo tra UE e Regno del Marocco, siglato tra CE e CECA (e relativi Stati membri) e il Marocco il 27.2.1996, entrato in vigore il 1.3.2000 e recepito dall’Italia con la legge 302/1999, secondo cui:

Fatte salve le disposizioni dei paragrafi seguenti, i lavoratori di cittadinanza marocchina e i loro familiari conviventi godono, in materia di previdenza sociale, di un regime caratterizzato dall’assenza di ogni discriminazione basata sulla cittadinanza rispetto ai cittadini degli Stati membri nei quali sono occupati.

L’espressione < previdenza sociale > copre gli aspetti della previdenza sociale riguardanti le prestazioni in caso di malattia e di maternità, di invalidità, di vecchiaia, di reversibilità, le prestazioni per infortuni sul lavoro e per malattie professionali, le indennità in caso di decesso, i sussidi di disoccupazione e le prestazioni familiari”.

La disposizione ha sostituito quella analoga prevista dall’art. 41 dell’Accordo di Cooperazione tra CEE e Regno del Marocco stipulato il 27.4.1976, approvato con Regolamento CEE n.2211/1978, secondo cui:

Fatte salve le disposizioni dei paragrafi seguenti, i lavoratori di cittadinanza marocchina e i loro familiari conviventi godono, in materia di sicurezza sociale, di un regime caratterizzato dall’assenza di ogni discriminazione basata sulla cittadinanza rispetto ai cittadini degli Stati membri nei quali sono occupati”.

Secondo la Corte di Giustizia Europea (sentenza C-18/90 Kziber del 31.1.1991) l’art. 41 dell’Accordo del 1976 è oggetto di applicazione immediata negli ordinamenti degli Stati membri, in quanto “consacra in termini chiari, precisi e incondizionati, il divieto di discriminare, in ragione della nazionalità, i lavoratori di nazionalità marocchina e i loro familiari residenti con essi nel settore della sicurezza sociale”.

Analogamente la stessa Corte si è pronunciata con riguardo all’art.65 dell’Accordo del 1996, con l’ordinanza Echouikh 13.6.2006, causa C-336/2005 (punti 39-42) e con l’ordinanza  Mamate El Youssfi nella causa C-276/2006 (punto 50), ribadendo come la norma in esame abbia efficacia diretta e quindi gli interessati alla sua applicazione hanno il diritto di avvalersene dinanzi ai giudici nazionali.

Non si può convenire con il primo giudice sul fatto che la diretta applicazione del principio sia esclusa dall’art.67 dell’Accordo, secondo cui “..il Consiglio di associazione adotta le disposizioni per l’applicazione dei principi enunciati nell’articolo 65”, posto che la norma sembra attribuire al Consiglio poteri di tipo esecutivo di un principio peraltro già autosufficiente e immediatamente precettivo.

Ne deriva che ogni norma interna che si ponga in contrasto con tale disposizione deve essere disapplicata dal giudice nazionale per violazione del diritto comunitario.

Sul punto si è pronunciata anche la Cassazione con la sentenza n.17966/2011.

In particolare, nel recepire il principio dell’efficacia diretta dell’art.41 dell’Accordo del 1976, la Corte ha precisato che “il giudice nazionale deve disapplicare la norma dell’ordinamento interno, per incompatibilità con il diritto comunitario, sia nel caso in cui il conflitto insorga con una disciplina prodotta dagli organi della CEE mediante regolamento, sia nel caso in cui il contrasto sia determinato da regole generali dell’ordinamento comunitario, ricavate in sede di interpretazione dell’ordinamento stesso da parte della Corte di Giustizia delle Comunità Europee”.

Quanto all’ambito di applicazione dell’art.65 Accordo del 1996, la stessa Suprema Corte, così come la giurisprudenza comunitaria (ordinanza Mamate El Youssfi, punto 57, e ordinanza Echouikh, punti 50-51) concordano nel senso che l’espressione < previdenza sociale > oggetto dell’Accordo non coincida con l’accezione degli stessi termini nel singolo ordinamento nazionale, bensì vada intesa con quella più ampia del diritto comunitario, secondo la nozione contenuta nel Regolamento CE 1408/71 (tuttora in vigore, non essendo ancora stato adottata la disciplina di applicazione del Regolamento 883/2004).

In particolare l’art.4 del Regolamento stabilisce il proprio ambito di applicazione  prevedendo che lo stesso ”si applica a tutte le legislazioni relative ai settori di sicurezza sociale riguardanti (tra le altre) : a) le prestazioni di malattia e di maternità…..h) le prestazioni familiari, ed aggiunge che “Il presente regolamento si applica ai regimi di sicurezza sociale generali e speciali, contributivi e non contributivi..” e “alle prestazioni speciali a carattere non contributivo previste da una legislazione o da un regime diversi da quelli contemplati al paragrafo 1 o esclusi ai sensi del paragrafo 4, qualora dette prestazioni siano destinate: a) a coprire in via suppletiva, complementare o accessoria gli eventi corrispondenti ai settori di cui alle lettere da a) ad h) del paragrafo 1…”.

La Cassazione ha concluso quindi che deve essere considerata previdenziale ogni prestazione, a carattere contributivo e non contributivo, “attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione legalmente definita e riferita ad uno dei rischi elencati nell’art.4 n.1 del Regolamento n.1408/71”, norma quest’ultima che si estende alle prestazioni di maternità e alle altre prestazioni familiari, nel cui ambito è riconducibile l’assegno qui richiesto dalla ricorrente.

E ancora, secondo il diritto comunitario per “prestazioni familiari” devono intendersi “tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I” (art.1 lett.z Regolamento 833/2004) e che, quanto agli assegni speciali di nascita menzionati nell’Allegato I,  non compare l’Italia.

Ed è appunto in applicazione di tale principio che, con la sentenza n.17966/2011, la Cassazione ha riconosciuto ad un cittadino marocchino quella che il nostro ordinamento ritiene prestazione assistenziale e non previdenziale (pensione di inabilità).

Nello stesso senso con l’ordinanza Mamate El Youssfi, la Corte di Giustizia, ha stabilito che l’art.65 dell’Accordo del 1996 va interpretato nel senso che osta a che lo Stato membro ospitante lo straniero rifiuti di accordare il reddito minimo garantito per le persone anziane (prestazione di carattere non contributivo, secondo l’ordinamento di appartenenza del giudice che aveva sollevato la questione interpretativa) ad una cittadina marocchina ultrasessantacinquenne legalmente resistente in Belgio che avesse lavorato come dipendente nello Stato membro, o fosse familiare di un lavoratore di cittadinanza marocchina.

Tornando al caso in esame, documentato che la ricorrente, moglie convivente di un cittadino marocchino che lavora in Italia, all’epoca della domanda amministrativa del settembre 2012 risiedeva regolarmente in Italia in virtù di permesso di soggiorno per motivi familiari, va applicato l’art.65 dell’Accordo Euromediterraneo e va disapplicata la norma nazionale denunciata come discriminatoria, riconoscendole la prestazione richiesta nonostante all’epoca non fosse titolare di permesso di soggiorno di lungo periodo CE, poiché come detto sussistono tutti gli altri requisiti di natura amministrativa e reddituale.

Non si può convenire con il Comune a proposito del fatto che – in tutti i casi – la prestazione dovrebbe oggi essere negata anche per il solo motivo che la ricorrente non avrebbe ancora ottenuto il rinnovo del permesso di soggiorno, una volta scaduto nel febbraio 2014 quello breve di cui era titolare al momento della domanda. Infatti, la sussistenza dei requisiti del diritto deve essere verificata al momento in cui lo stesso era domandato (settembre 2012) e, secondo quanto qui ritenuto, avrebbe dovuto essere accolto, a nulla rilevando vicende successive (febbraio 2014) del titolare dello stesso diritto che non hanno attitudine a retroagire in funzione negativa su situazioni all’epoca già perfezionatesi (per gli stessi motivi per cui, se anche ad oggi la madre o il padre non fossero più residenti in Italia, la prestazione all’epoca dovuta dovrebbe comunque essere riconosciuta).

Quanto alla qualificazione della condotta tenuta dagli appellati come discriminatoria per motivi di nazionalità ai sensi dell’art.43 D.lvo 286/98, pur agendo nei confronti della ricorrente in linea con norma dell’ordinamento italiano astrattamente applicabile al caso in esame (seppur da disapplicare per contrasto con norma comunitaria), essi hanno tenuto una condotta oggettivamente discriminatoria, ovvero un comportamento che pregiudica una persona in ragione della sua origine etnica o nazionale. Infatti, se la madre richiedente l’assegno non fosse stata cittadina marocchina, il requisito (carta di soggiorno) la cui mancanza fondava il rigetto in sede amministrativa, nemmeno avrebbe avuto senso richiederlo, e la prestazione sarebbe stata concessa de plano per la pacifica sussistenza di tutti gli altri requisiti.

Spese

Devono essere compensate per metà le spese di lite di primo come di secondo grado, considerando da un lato l’esistenza di precedenti di segno opposto in entrambi gli uffici, e dall’altro lato l’esiguità della prestazione in esame (il cui importo finirebbe in toto assorbito dalle spese di lite, se compensate per intero). Di conseguenza, gli appellati devono essere condannati in solido fra di loro al pagamento in favore dell’appellante della restante metà, liquidata in €. 800,00 per grado oltre spese generali, Iva e Cpa.

Alla  procuratrice della ricorrente dichiaratasi antistataria compete la distrazione delle spese.

P.Q.M.

La Corte, definitivamente pronunciando, respinta ogni diversa istanza, eccezione e deduzione:

in accoglimento dell’appello contro l’ordinanza in data 4.3.2013 del Tribunale di Firenze, in funzione di giudice del lavoro, condanna l’Inps al pagamento in favore dell’appellante dell’assegno di maternità nella misura di legge, oltre interessi legali.

compensa per metà le spese di lite di primo e di secondo grado e condanna gli appellati, in solido fra di loro, al pagamento in favore dell’appellante della restante metà, liquidata in €. 800,00 per grado oltre spese generali, Iva e Cpa, con distrazione in favore del procuratore A. M. Ventrella.

Firenze, 5 maggio 2015.