Discriminazione indiretta di genere, Tribunale di Torino, 11 giugno 2013

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO, SEZIONE LAVORO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. 5790/2012  R.G.L.

promossa da

G R (C.F. RMNGRT74B49L219B), rappresentata e difesa dall’avv. ALBERTO BISCARO, elettivamente domiciliata presso il suo studio  in TORINO, VIA CORDERO DI PAMPARATO 6

– PARTE RICORRENTE –

                                                                C O N T R O

 AGENZIA DELLE ENTRATE (C.F. 06363391001) rappresentata e difesa dai funzionari  dott. M G e dal dott. D A ed  elettivamente domiciliata in CORSO VINZAGLIO 8 10121 TORINO presso la direzione regionale del Piemonte

-PARTE CONVENUTA-

Oggetto: Opposizione ex art. 38 d.lgs. 198/2006

FATTO  E  DIRITTO

La ricorrente, premesso di lavorare alle dipendenze dell’agenzia delle entrate dal 1° marzo 2004 con qualifica di funzionario tributario terza area F1; di aver ottenuto il part time al 50% a decorrere dal novembre 2004, poi modificato a far data dal 2009 in part time di 30 ore settimanali ( pari all’83,33% del lavoro a tempo pieno); di avere partecipato alla procedura selettiva di sviluppo economico del personale avviata dall’agenzia delle entrate il 30.12.2010; di essersi vista assegnare il punteggio di 35,25 a causa del riproporzionamento dell’anzianità di servizio con il part time rimanendo quindi esclusa dalla progressione economica propone opposizione ex art. 38 d.lgs. 198/06 avverso il decreto  emesso dal tribunale di Torino il 2.6.2012 chiedendo che, previo accertamento di una fattispecie di discriminazione indiretta di genere, l’agenzia delle entrate venga condannata a cessare il comportamento discriminatorio e ad assegnarle il punteggio di 37,76 dichiarandola vincitrice della procedura per la progressione economica da F2 ad F3 erogandole le differenze retributive in suo favore maturate.

Resiste l’agenzia delle entrate.

Acquisito in giudizio l’elenco dei dipendenti in part time suddivisi per genere all’udienza dell’11.6.2013 la causa è stata discussa e decisa come da dispositivo trascritto in calce.

L’opposizione è fondata e merita integrale accoglimento.

Il bando 30.12.2010 stabilisce che l’ordine di classifica degli interessati all’interno delle fasce sia determinato da due fattori: esperienza di servizio maturata e titoli di studio culturali e professionali.  L’esperienza di servizio viene poi calcolata in 2,5 punti per ciascun anno di esperienza maturata nella fascia retributiva di attuale appartenenza, 1,5 punti per ogni anno di esperienza maturata in fasce diverse da quella attuale ed 1 punto per ogni anno di servizio maturato in altra area o qualifica equiparata.

E’ pacifico che la ricorrente ha maturato 48 mesi di servizio nella fascia retributiva di appartenenza e 34 mesi in fascia diversa da quella di appartenenza: complessivamente le spetterebbero quindi in base ai parametri indicati nel bando  14,26 punti  per esperienza di servizio maturata.

L’agenzia delle entrate, in applicazione della nota del  5.3.2012 del direttore centrale dott. Pastorello, ha ridotto il punteggio in proporzione alla percentuale del tempo lavorato ogni anno riducendo il punteggio spettante per l’esperienza professionale nella misura complessiva del 16,67%.

La ricorrente sostiene che la svantaggiosa valutazione dell’esperienza di servizio integra una fattispecie di discriminazione indiretta di genere poiché, pur presentandosi come un criterio apparentemente neutro in quanto rivolto ad entrambi i sessi , di fatto produce effetti proporzionalmente più svantaggiosi per le lavoratrici di sesso femminile che costituiscono la quasi totalità dei lavoratori a tempo parziale.

Il primo giudice ha respinto il ricorso ritenendo la ragionevolezza dell’attribuzione di uno specifico punteggio legato all’esperienza di servizio prestato nonché della sua correlazione con l’effettivo tempo di lavoro e rilevando l’aderenza del principio di riproporzionamento alla regola del pro rata temporis di cui al comma 2 della clausola 4 dell’accordo quadro 6.6.97 attuato con la direttiva 97/81/CE del Consiglio dell’Unione Europea . Infine ha ritenuto che la circostanza che la maggioranza dei dipendenti part time siano donne è un aspetto di mero fatto ininfluente con riguardo al provvedimento in contestazione in quanto connesso con le realtà locali, con le fasce di età, con il livello professionale e con altri possibili fattori  dalla portata ambivalente.

Il percorso argomentativo sviluppato dal primo giudice non può essere condiviso.

Innanzitutto- anche se si tratta di un profilo non decisivo essendo stata dedotta la discriminazione di genere- la regola del pro rata temporis non ha certo l’ampiezza di applicazione affermata dal primo giudice: l’art. 4 d.gl.s 61/2000 testualmente prevede che “fermi restando i divieti di discriminazione diretta ed indiretta previsti dalla legislazione vigente, il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno comparabile, intendendosi per tale quello inquadrato nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi di cui all’articolo 1, comma 3, per il solo motivo di lavorare a tempo parziale. L’applicazione del principio di non discriminazione comporta che:

  1. a) il lavoratore a tempo parziale benefici dei medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno comparabile in particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione oraria; la durata del periodo di prova e delle ferie annuali; la durata del periodo di astensione obbligatoria e facoltativa per maternità; la durata del periodo di conservazione del posto di lavoro a fronte di malattia; infortuni sul lavoro, malattie professionali; l’applicazione delle norme di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro; l’accesso ad iniziative di formazione professionale organizzate dal datore di lavoro; l’accesso ai servizi sociali aziendali; i criteri di calcolo delle competenze indirette e differite previsti dai contratti collettivi di lavoro; i diritti sindacali, ivi compresi quelli di cui al titolo III della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni. I contratti collettivi di cui all’articolo 1, comma 3, possono provvedere a modulare la durata del periodo di prova e quella del periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia qualora l’assunzione avvenga con contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale;
  2. b) il trattamento del lavoratore a tempo parziale sia riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa in particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa; l’importo della retribuzione feriale; l’importo dei trattamenti economici per malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale e maternità. Resta ferma la facoltà per il contratto individuale di lavoro e per i contratti collettivi, di cui all’articolo 1, comma 3, di prevedere che la corresponsione ai lavoratori a tempo parziale di emolumenti retributivi, in particolare a carattere variabile, sia effettuata in misura più che proporzionale.

La norma quindi afferma in linea di principio il principio di non discriminazione e delinea  poi alcune ipotesi di legittimo riproporzionamento ( tra le quali non figura la professionalità del dipendente part time)  da intendersi necessariamente quali ipotesi tassative in quanto eccezione alla regola generale.

In secondo luogo l’art. 25 d.lgs. 198/2006 stabilisce che si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una condizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

La lettera della norma è di chiarezza cristallina: al fine della configurabilità della fattispecie della discriminazione indiretta è sufficiente che il criterio ponga gli appartenenti ad un certo sesso in una condizione svantaggiata rispetto ai lavoratori dell’altro sesso restando inesorabilmente preclusa al giudice ogni valutazione circa la ragionevolezza o la finalità che il criterio in ipotesi discriminatorio intende perseguire. Un criterio di per sé ragionevole o legittimo, quale potrebbe certamente essere quello di valorizzare l’esperienza professionale del lavoratore, se comporta nei fatti una posizione svantaggiosa per le lavoratrici di sesso femminile diviene per ciò solo illegittimo. La norma in sostanza sposta la valutazione sulla legittimità del criterio selettivo dal momento della sua elaborazione al momento applicativo del criterio stesso e se l’effetto finale è quello di mettere i lavoratori di un certo  sesso in una condizione svantaggiosa il criterio selettivo non può essere adottato in quanto lesivo del principio di non discriminazione.

Sotto il profilo probatorio l’art. 28 d.lg.s 150/2011 stabilisce che “ quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico  ai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione”.

I documenti prodotti in giudizio dall’agenzia delle entrate su ordine giudiziale dimostrano che nel quadriennio 2010/2013 la percentuale di dipendenti di sesso femminile in part time è stata sempre superiore all’84% il che dimostra in modo inequivocabile che nella categoria dei dipendenti in part time la netta maggioranza è rappresentata da  donne.

I dati statistici relativi ai dipendenti che hanno acquisito la progressione economica dimostrano poi con riferimento specifico alla progressione da F2 ad F3 ( area di appartenenza della ricorrente) che la percentuale di vincitori in full time è pari al 39,40% mentre quella dei dipendenti in part time è pari al 20%.

Inoltre l’elenco nominativo degli 83 dipendenti che hanno ottenuto la progressione da F2 a F3 ( doc. 7 di parte ricorrente) dimostra che solo 5 dipendenti in part time hanno ottenuto la progressione e di questi solo 3 donne .

La circostanza è peraltro sostanzialmente riconosciuta dalla convenuta ( cfr. pag. 14 della comparsa)  la quale  afferma che la presenza femminile nelle progressioni di area ha “nel peggiore dei casi la stessa consistenza numerica di quella maschile” il che significa, ove si consideri la netta prevalenza numerica delle lavoratrici all’interno dell’insieme dei dipendenti in regime di part time , che nei fatti la procedura selettiva ha posto le donne in una condizione svantaggiosa rispetto agli uomini poiché proporzionalmente un numero molto superiori di uomini ha ottenuto la progressione in carriera.

I dati statistici dimostrano quindi al di là di ogni dubbio che il riproporzionamento del punteggio relativo all’esperienza professionale all’effettivo orario di lavoro prestato ha di fatto svantaggiato le dipendenti portando al risultato che in ambito regionale e con riferimento alla fascia in cui concorreva la ricorrente  solo 3 donne hanno ottenuto la progressione.

Secondo una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia  vi è discriminazione indiretta quando l’applicazione di un provvedimento nazionale, benché formulato in modo neutro, di fatto sfavorisca un numero molto più alto di donne che di uomini (v. in tal senso, sentenze 14 dicembre 1995, causa C-444/93, Megner e Scheffel, Racc. pag. I-4741, punto 24, e 24 febbraio 1994, causa C-343/92, Roks e a., Racc. pag. I-571, punto 33).

In virtù dell’accertata vocazione prevalentemente femminile al part time deve quindi presumersi la discriminazione indiretta con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 28 d.lg.s 150/2011, incombeva sulla parte convenuta l’onere di dimostrare l’insussistenza della discriminazione e tale onere non è stato assolto non avendo la convenuta neppure dedotto l’oggetto dell’esperienza professionale da valutare .

L’unica eccezione alla regola tassativa del divieto di discriminazione è infatti costituita dall’ipotesi in cui la condizione di svantaggio sia giustificata da requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, ipotesi certamente non ricorrente nel caso di specie posto che non è certo essenziale al fine della  valutazione della professionalità dei dipendenti meritevoli di progressione in carriera la quantità di ore di lavoro prestato.

Come condivisibilmente affermato dalla corte di giustizia  nella causa C-100/95 in una fattispecie analoga a quella oggetto di decisione in cui una disposizione contrattuale aveva un’incidenza sui lavoratori a tempo parziale e li sfavoriva  rispetto a quelli che svolgono la loro attività a tempo pieno obbligandoli a maturare un’anzianità lavorativa maggiore rispetto ai lavoratori a tempo pieno “  disposizioni come quelle di cui trattasi nella causa pendente dinanzi al giudice nazionale comportano in effetti una discriminazione dei lavoratori di sesso femminile rispetto a quelli di sesso maschile e devono, in via di principio, essere considerate incompatibili con la direttiva. Ciò non varrebbe solo qualora la disparità di trattamento tra le due categorie di lavoratori fosse giustificata da fattori estranei a qualsiasi discriminazione basata sul sesso (v., in particolare, sentenze 13 maggio 1986, causa 170/84, Bika, Racc. pag. 1607, punto 29; 13 luglio 1989, causa 171/88, Rinner-Kühn, Racc. pag. 2743, punto 12, e 6 febbraio 1996, causa C-457/93, Lewark, Racc. pag. I-243, punto 31).20 Spetta al giudice nazionale, che è il solo competente a valutare i fatti e a interpretare il diritto nazionale, stabilire se ed entro quali limiti una disposizione di legge la quale si applichi indipendentemente dal sesso del lavoratore, ma colpisca di fatto le donne più degli uomini, sia giustificata da motivi obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione basata sul sesso (v. sentenza 31 marzo 1981, causa 96/80, Jenkins, Racc. pag. 911, punto 14; sentenza nella citata causa Bilka, punto 36, e quella nella citata causa Rinner-Kühn, punto 15).”

Contrariamente a quanto affermato dal primo giudice non può ritenersi che il maggior numero di ore lavorate dai dipendenti full time di per sé solo comporti una maggiore esperienza professionale e costituisca un criterio obiettivo estraneo alla discriminazione. Nella sentenza 7 febbraio 1991, causa C-184/89, Nimz (Racc. pag. I-297, punto 14), la Corte di giustizia ha condivisibilmente dichiarato che “l’affermazione secondo cui esiste un nesso particolare tra la durata di un’attività lavorativa e l’acquisizione di un certo livello di conoscenza o di esperienza, in quanto costituisca una semplice generalizzazione riguardante determinate categorie di lavoratori, non consente di trarne criteri obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione. Infatti, anche se anzianità lavorativa ed esperienza professionale vanno di pari passo, ponendo di regola il lavoratore in grado di meglio espletare le proprie mansioni, l’obiettività di un siffatto criterio dipende dal complesso delle circostanze del caso concreto e, in particolare, dal rapporto tra la natura delle mansioni svolte e l’esperienza che l’espletamento di tali mansioni fa acquisire dopo un determinato numero di ore di lavoro effettuate.”

Era quindi onere della convenuta dimostrare che il passaggio alla fascia superiore richiedeva necessariamente una professionalità specifica acquisibile solo in ragione di un lavoro a tempo pieno e tale onere non è stato assolto neppure sotto il profilo dell’allegazione.

In particolare nulla è stato dedotto in merito alla pretesa correlazione necessaria tra numero di ore di lavoro ed esperienza acquisita, non è stato neppure allegato che la ricorrente per effetto del suo regime orario non abbia svolto alcune mansioni né che sia inidonea allo svolgimento di mansioni appartenenti alla fascia superiore. Inoltre la pretesa correlazione è smentita dalla circostanza – rimasta incontestata – che la convenuta non ha ridotto il punteggio per l’esperienza professionale ai dipendenti assenti giustificati ed è altresì sconsigliata dalle parti sociali le quali all’art. 83 ccnl di settore hanno pattuito che in riferimento all’esperienza professionale occorre evitare di considerare la mera anzianità di servizio nell’ottica di valorizzare le capacità reali dei dipendenti e le loro effettive conoscenze.

Irrilevante è infine la circostanza che il criterio dell’esperienza professionale non fosse l’unico ma sia stato adottato in concorso con altri poiché ciò che rileva, è bene ribadirlo, è solo ed esclusivamente l’effetto che l’applicazione del detto criterio ha avuto.

Le conseguenze dell’accertata illegittimità dell’applicazione del criterio selettivo sono quelle indicate in dispositivo. Sotto il profilo della rimozione degli effetti della condotta discriminatoria la convenuta va condannata a riconoscere il punteggio per l’esperienza di servizio che le sarebbe spettato senza l’abbattimento di punti percentuale parametrato al part time; non può di contro essere accolta la domanda di dichiarazione della ricorrente quale vincitrice della procedura per la progressione economica trattandosi di effetto che può conseguire solo al rifacimento della graduatoria.

Merita invece accoglimento la domanda di pubblicazione della sentenza sui siti intranet nazionale e regionale  trattandosi di misura idonea a risarcire la ricorrente del danno alla propria immagine professionale subito a causa dell’illegittimo comportamento datoriale.

Per errore materiale in dispositivo è stata omessa la decisione in punto spese di lite: l’alterno esito dei giudizi e la novità delle questioni trattate ne giustificano l’integrale compensazione.

P.Q.M.

 

Visti gli art. 38 d.lgs. 198/2006 come modificato dall’art. 1 d.lg.s 195/2011 e l’ art. 429 c.p.c.

In parziale accoglimento del ricorso,

accerta la sussistenza di una discriminazione indiretta di genere nella nota D.C. Personale del 5.3.2012 (nonché nelle note 30.9.2011 e nei chiarimenti del 26.10.2011   e dell’11.11.2011)  nella parte in cui prevedono il riproporzionamento al rialzo dell’esperienza di servizio per i lavoratori in part-time;

ordina alla Agenzia delle Entrate – Direzione regionale del Piemonte la cessazione immediata della condotta discriminatoria e per l’effetto ordina di riconoscere alla ricorrente il punteggio per l’esperienza di servizio che le sarebbe spettato senza l’abbattimento di punti percentuale parametrato al part time;

ordina la pubblicazione integrale della sentenza nei siti intranet nazionale e regionale dell’agenzia delle entrate;

fissa il termine di giorni 60 per il deposito della sentenza.

Torino,  11 giugno 2013

Il Giudice

Drssa Clotilde FIERRO.