Del velo e della taglia 42. Osservazioni a margine dell’ordinanza del Tribunale di Lodi 3.7.2014. Dott. Elisabetta Tarquini, Consigliera presso la sezione lavoro della Corte d’Appello di Firenze.

 

Fu in un grande magazzino americano, nel corso di un fallimentare tentativo di comprarmi una gonna di cotone, che mi sentii dire che i miei fianchi erano troppo larghi per la taglia 42. Ebbi allora la penosa occasione di sperimentare come l’immagine di bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti quali l’Iran, l’Afghanistan o l’Arabia Saudita”.

Fatema Mernissi, L’harem e l’Occidente

 

 

La vicenda sottoposta all’esame del Tribunale di Lodi dice molto, non solo delle complessità che abitano le società multiculturali, ma anche e forse di più della crudele banalità dell’immagine femminile nel nostro paese (e probabilmente non solo).

E’ una storia semplice e accertata dal giudice senza alcun dubbio: una ragazza italiana di religione musulmana, partecipa a una selezione per l’assunzione di personale per mansioni di volantinaggio, da svolgersi in occasione di una fiera della calzatura.

La selezione è operata, per conto di un committente, da una società che si occupa professionalmente di fornire “il servizio hostess” in occasione di sfilate, fiere, manifestazioni sportive” (così testualmente la decisione).

La protagonista della storia invia foto e curriculum e riceve in risposta una mail del seguente contenuto: “ciao Sara, mi  piacerebbe farti lavorare perché sei molto carina, ma sei disponibile a toglierti  lo chador?”, cui risponde così: “ciao Jessica porto il velo per motivi religiosi e non sono disposta a toglierlo. Eventualmente potrei abbinarlo alla divisa.”

La risposta è: “ciao Sara immaginavo, purtroppo i clienti non saranno mai così flessibili. Grazie comunque”.

Sara conviene allora la società selezionatrice davanti al Tribunale di Lodi ritenendo la sua esclusione discriminatoria per ragioni di religione e comunque di genere.

Il Tribunale le dà torto, con un percorso argomentativo che non pare condivisibile (e che da notizie di stampa si apprende non essere stato condiviso dalla Corte d’Appello).

Il Tribunale nega in primo luogo l’esistenza di una discriminazione diretta per ragioni di religione, e quindi la relazione causale tra l’esclusione della lavoratrice dalla selezione e il fattore protetto, seppure, ci si permette di rilevare, con una qualche imprecisione terminologica nella parte in cui la pronuncia dice dell’assenza di un intento discriminatorio, così introducendo almeno sul piano lessicale nella descrizione della fattispecie un elemento di soggettività (l’intenzione dell’agente) del tutto estraneo alla natura obiettiva e funzionale dei divieti di discriminazione (da ultimo affermata dalla Corte di Cassazione con una decisione di grande rilievo che immuta un precedente diverso indirizzo; cfr. Cass.  6575/2016).

Ma l’esclusione, secondo il giudice, non sarebbe neppure l’esito di una discriminazione indiretta, cioè l’applicazione di una regola o di una prassi apparentemente neutre, ma in realtà suscettibili di arrecare ai soggetti portatori dei fattori protetti un particolare svantaggio rispetto ad un terzo comparabile (che di quei fattori non sia invece portatore).

E non lo è, prosegue il Tribunale, poiché la committente dell’impresa selezionatrice aveva richiesto che le lavoratrici selezionate avessero ben precise caratteristiche fisiche che merita riportare testualmente: “altezza di almeno m. 1,65, numero di scarpa 37, taglia 40\42, capelli lunghi e vaporosi, disponibilità ad indossare la divisa fornita dall’azienda con minigonna”, oltre alla conoscenza della lingua inglese parlata.

Avere “capelli lunghi e vaporosi” è allora, secondo la pronuncia che si commenta, un requisito essenziale della prestazione, per come essa è apprezzata dal committente che chiede alle lavoratrici “non solo di  distribuire volantini ma [di]  farlo prestando la propria immagine con le caratteristiche volute dal datore di lavoro” e ciò in un contesto (un evento fieristico nel settore della moda) “senz’altro compatibile con la richiesta di una figura di donna piacevole ed attraente”.

Con la conseguenza che dalla selezione sarebbe stata esclusa qualunque donna che avesse rifiutato per i motivi più vari di scoprire i capelli, così che la circostanza che la ricorrente non avesse inteso farlo per motivi religiosi non l’avrebbe posta in alcuna particolare situazione di svantaggio.

Neppure infine la scelta della società potrebbe dirsi discriminatoria per ragioni di genere, secondo il Tribunale, perché “il capo e la chioma possono essere elementi di seduzione e fascino anche del sesso maschile e potrebbero essere legittimamente richiesti, in un contesto analogo a quello del quale si discute, anche agli uomini”.

Una conclusione quest’ultima di cui c’è ragione di dubitare: se infatti i lavoratori da selezionare non fossero stati o non fossero stati tutti di sesso femminile non è irragionevole pensare che i canoni estetici non sarebbero stati così precisi, per un lavoro, merita ribadire, di distribuzione di volantini.

E allora forse il tema della discriminazione diretta di genere nella vicenda di causa non era stato erroneamente prospettato: è difficile infatti negare che solo alle donne siano richiesti (come sono stati richiesti in questo caso) requisiti estetici per l’accesso ad attività rispetto alle quali la cosiddetta bella presenza ha ben poco (o nulla del tutto) a che vedere con la prestazione da eseguire.

E si tratta spesso di requisiti assai dettagliati e generalmente omogenei (a partire dalla taglia 42, di cui parla Fatema Mernissi ricordando la sua disavventura in un grande magazzino americano), accompagnati dalla richiesta di un abbigliamento pure largamente omologato (minigonna, come in questo caso o tacchi o entrambi) ed avente chiari connotati di seduzione o ritenuta tale.

Si  stenta a credere che qualcosa di simile avvenga con gli uomini, ai quali al più, in alcuni contesti lavorativi, è richiesto di indossare un abbigliamento formale composto di giacca e cravatta, evidentemente ritenuto indizio di qualità, quali la competenza, o almeno la serietà e l’affidabilità, preziose nei lavoratori uomini. Preziose quanto la bellezza e la seduzione per le donne probabilmente, anche quelle selezionate per fare lo stesso lavoro degli affidabili colleghi in giacca e cravatta.

Non sarebbe stato allora eccentrico nella storia che si è raccontata ritenere Sara discriminata nell’accesso alla selezione, prima che come donna musulmana, come donna, perché solo alle donne era richiesto di corrispondere ad un canone estetico del tutto estraneo alla natura della prestazione da svolgere.

Né in contrario rileva la circostanza che la selezione fosse rivolta esclusivamente a candidate di sesso femminile.

E’ noto infatti come la direttiva 2000/78, e la normativa nazionale di recepimento (il D.L.vo 216/2003) in materia di discriminazione diretta costruiscano il giudizio relazionale nel quale si articola l’accertamento della discriminazione in termini di confronto tra due soggetti non necessariamente reali. Al contrario il lavoratore comparabile, non portatore del fattore di discriminazione e rispetto al quale deve operarsi il confronto (al fine di verificare il carattere assunto come deteriore del trattamento subito dall’istante) può essere un soggetto ipotetico o non più esistente al momento del giudizio di comparazione

Così che nella specie il confronto avrebbe potuto darsi tra Sara, ed ogni altra lavoratrice partecipante a quella selezione ed alla quale era richiesto di conformarsi ad un preciso modello estetico (quanto a caratteristiche fisiche ed abbigliamento), ed un ipotetico candidato uomo aspirante allo stesso lavoro.

Sarebbe stato allora possibile chiedersi se così stringenti requisiti sarebbero stati richiesti anche ad un uomo: taglia, misura di piede, capigliatura, un abbigliamento seduttivo…e tutto per distribuire volantini.

La risposta sembra davvero a chi scrive scontata e non è difficile pensare che un’analisi anche sommaria di analoghe selezioni per lavori analoghi aperte anche agli uomini avrebbe potuto dare conferma statistica di un fatto che pare di comune esperienza.

Avrebbe pertanto dovuto concludersi nel senso della discriminazione di genere perché il trattamento deteriore (l’esclusione dalla selezione) patito da Sara era stato conseguenza del suo genere, per essere stati richiesti alle candidate donne requisiti estetici del tutto irrilevanti ai fini dell’esecuzione della prestazione, diversamente da quanto invece richiesto, secondo dati di esperienza, agli uomini selezionati per lavori analoghi.

Ciò naturalmente a meno di non ritenere quello che ritiene invece il Tribunale di Lodi: che l’essenzialità di un carattere ai fini della prestazione, che costituisce deroga al divieto di discriminazione, sia connotato rimesso al datore di lavoro (in questo caso il committente della società selezionatrice).

Ed è proprio questo l’assunto meno condivisibile della motivazione: ove infatti dovesse darsi ad una tale affermazione un’applicazione coerente dovrebbe ritenersi la facoltà del datore di lavoro di individuare come essenziale qualsiasi caratteristica personale del lavoratore per quanto del tutto estranea al contenuto obiettivo della prestazione richiestagli, come era certamente estranea nella specie una “capigliatura folta e vaporosa” o l’indossare una minigonna rispetto al distribuire volantini per quanto ad una fiera della calzatura.

Che si tratti di una conclusione inaccettabile è agevole accorgersi ove solo si provi ad includere tra le caratteristiche richieste, per dire, la pelle bianca o l’eterosessualità. Meno facile è invece apprezzare una simile inaccettabilità in un caso come il presente.

E la ragione è forse proprio la pervasività del modello discriminatorio, che lo rende invisibile o naturale: è naturale (magari criticabile, come sembra dire la decisione del Tribunale in un passaggio), ma naturale e quindi legittimo che alle donne si chieda di essere belle, in uno specifico e prefissato modo, e seduttive per distribuire volantini.

Non può allora che darsi ragione a Fatima Mernissi e riconoscere che: “mentre l’uomo musulmano usa lo spazio per stabilire il dominio maschile escludendo le donne dalla pubblica arena, l’uomo occidentale manipola il tempo e la luce…Il potere dell’uomo occidentale risiede nel dettare quello che una donna deve indossare e l’aspetto che deve avere”, avvolgendo le altre, quelle che non corrispondono al modello, “nel chador della bruttezza”.