Le parole giuste – Violenza di Genere e linguaggio giuridico

Il giorno 14 giugno 2019 a Firenze, presso l’Auditorium Adone Zoli dell’Ordine degli Avvocati di Firenze si è tenuto l’incontro avente ad oggetto il tema della violenza di genere e del linguaggio giuridico, organizzato da Magistratura Democratica, sezione Toscana, assieme alla rivista giuridica Questione Giustizia, e a Di.re donne in rete contro la violenza.

Il nome dell’incontro, le parole giuste, prende le mosse da alcune recente pronunce di merito, in tema di condotte violente di uomini a danno di donne, e ha cercato di coinvolgere avvocate, avvocati, magistrati e magistrate, per stimolare una riflessione.

Il convegno partendo appunto dalla consapevolezza che i giuristi lavorano con le parole, cerca di capire quanto il linguaggio possa essere influenzato dal mondo esterno. In particolare, ci si è interrogati se la figura del giudice possa essere influenzata dai fenomeni e dagli stereotipi, ovvero se il contenuto delle sentenze possa in qualche modo esso stesso concorrere alla riproduzione di tali stereotipi, o invece possa porsi come punto di rottura con gli stessi. Attraverso la parola, il giudice esprime una scala di valori, e quindi anche stereotipi e pregiudizi.

Tale complessa riflessione è stata calata all’interno della violenza di genere.

I relatori che si sono succeduti hanno cercato di contribuire, tramite il proprio apporto, a questa riflessione individuando i pregiudizi che la donna subisce in ogni ambito o aspetto di vita che la riguarda, e dove il linguaggio assume rilevanza nel rafforzamento o nella riproduzione di tali pregiudizi.

Ecco come le parole assumono il loro peso anche solo a voler definire in modo reale determinati fenomeni che accadono in ipotesi di violenza di genere. Una significativa testimonianza in questo senso è arrivata dell’associazione Artemisia, da parte della Presidentessa Teresa Bruno, invitando a definire in modo proprio quanto accade alle vittime di violenza, ad esempio abbandonando l’utilizzo del termine conflittualità al posto di reato, ovvero di litigi al posto di aggressioni.

Il linguaggio pertanto può fondarsi su un pregiudizio ed è il mezzo più naturale per trasmettere gli stereotipi.

Partendo, da un’analisi sociologica del fenomeno, la professoressa Gabriella Turnaturi ha osservato come in tutte le professioni si proceda per automatismi, dando per scontato le cose senza chiedersi perché e se ciò sia naturale. Così accade con gli stereotipi: per quelli riguardanti la discriminazione fondata sul genere non si mette in discussione il dato biologico uomo e donna rispetto ai ruoli che di solito sono attribuito, ma ciò accade per ogni tipo di pregiudizio, anche quello razziale. E in questo complesso fenomeno si inseriscono le emozioni le quali hanno senz’altro una loro incidenza nel linguaggio.

Le emozioni hanno una importante funzione letteraria, in quanto un discorso depurato dalle emozioni potrebbe non avere la stessa capacità persuasiva rispetto ad un linguaggio emozionale.

Pertanto il linguaggio dovrebbe invece servire a operare una decostruzione ovvero per riportare la realtà ad una non ovvietà di cui invece è convinto colui che professa quell’affermazione.

 

Nel proseguo degli interventi dei relatori, la riflessione si è concentrata ulteriormente e più specificamente sul linguaggio utilizzato all’interno del processo penale, luogo principale dove la donna vittima di violenza riceve tutela.

In base a quanto riportato dall’avvocata Cristina Moschini, ciò a cui capita di assistere è la riproduzione in questa sede di stereotipi che permeano varie fasi, dalle indagini preliminari alla stessa prova testimoniale.  Gli stereotipi hanno la loro naturale conseguenza nel fatto che la donna debba dimostrare di essere una vittima, di non aver in qualche modo provocato con i propri comportamenti la violenza che ha dovuto subire. Determinati tipi di domande, come quelle sul vestiario, o sull’atteggiamento tenuto, possono infatti depotenziare l’unico testimone, la donna, che ha la sensazione di non essere creduta.

La violenza contro le donne è l’unico reato che può definirsi, purtroppo, democratico, in quanto colpisce tutte le donne di tutti i contesti e riguarda tutti gli uomini di tutti i contesti.

Dalla lettura di alcune sentenze da parte della magistrata dott.ssa Di Nicola sembrano voler in qualche modo riprodurre lo stereotipo di donna bugiarda a cui non si crede. Sentenze dove si mettono in discussione perizie mediche. Addirittura nel femminicidio, dove c’è solo la parola di un uomo, si spendono parole al posto della vittima che non ha la possibilità di esprimerle lei stessa.

 

Interessante è stato poi il coordinamento svolto dall’avvocata Marina Pasqua del quadro processuale con l’evoluzione legislativa in materia.

Il nostro ordinamento giuridico è stato a lungo permeato dalla violenza di genere: fino al 1956 era in vita lo jus corrigendi (il potere correttivo del pater familias che comprendeva anche la forza), e solo con la Legge 15 febbraio 1996  n. 66  lo stupro è stato inserito tra i reati contro la persona.

Con il D.L 2013, n. 93, sono state poi emanate nuove norme per il contrasto della violenza di genere che hanno l’obiettivo di prevenire il femminicidio e proteggere le vittime, sulla base delle indicazioni provenienti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa, fatta ad Istanbul l’11 maggio 2011.

Nonostante questa evoluzione, si assiste alla sopravvivenza di una sorta di “cultura della violenza”, alimentata dai luoghi comuni sull’identità del maschio e sull’identità invece della donna.

Infine, le considerazioni si sono concluse ponendo l’accento sugli stereotipi di genere e allargando la riflessione in altri ambiti. L’intervento dell’avvocata marina Capponi si è infatti focalizzato sugli stereotipi di genere, purtroppo moltissimi, nel mondo del lavoro. Infatti, il pregiudizio che finora è stato analizzato in tema di violenza di genere ha radici ben più profonde e permea ogni aspetto della via sociale.

Basta semplicemente analizzare il linguaggio italiano che non è un linguaggio orientato alla neutralità.

I nomi hanno una loro declinazione e al ruolo importante tendenzialmente corrisponde una declinazione solo al maschile, mentre se il ruolo è basso la declinazione è utilizzata anche al  femminile.

L’incontro a cercato di mettere in luce le innumerevoli criticità del sistema, provando anche e soprattutto a dare loro un’origine, e  a proporre alcune soluzioni.

Innanzi tutto occorre ribadire che la tendenza a riprodurre in ambito legale gli stereotipi non ha nulla di giuridico, ma l’imposizione di un punto di vista sociale e culturale perpetuato nel tempo.

Perciò si è concordi non solo sulla necessità di dover intervenire nello stesso procedimento, attraverso un dialogo tra gli stessi giudici, e tempi più rapidi e più certi che non rendano la vittima per molte altre volte vittima, ma anche che l’intervento di correzione debba trovare radici a monte.

Si rende necessaria un’adeguata formazione sulla violenza di genere per gli operatori del diritto, e magari questo primo incontro potrà essere il primo gradino da salire sulla scala della decostruzione di un linguaggio in forma critica e non riproduttore di stereotipi.