Finalmente il revirement della Cassazione sul licenziamento discriminatorio. Roberta Santoni Rugiu giudice della Corte di Appello di Firenze, sezione lavoro.

 

Con la sentenza n. 6575 del 18.12.2015/5.4.2016 sul licenziamento discriminatorio, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione si discosta in modo dichiarato dal precedente orientamento di legittimità che lo assimilava al licenziamento ritorsivo e quindi – per la prima volta in sede di legittimità – riporta il diritto antidiscriminatorio alle proprie radici comunitarie, evidenziandone la natura oggettiva e le relative ricadute applicative, fra cui quella fondamentale sull’onere della prova, nonché sulla valutazione del concorrente motivo lecito.

Il caso concreto

Una lavoratrice dipendente a tempo indeterminato di uno studio legale veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo per avere preannunciato al datore l’intenzione di sottoporsi all’estero alla procedura di fecondazione in vitro, con inevitabili conseguenti assenze dal lavoro. La motivazione scritta del licenziamento si riferiva alle ricadute negative sulla funzionalità dello studio legale delle assenze programmate per tali motivi sanitari. Secondo lo studio legale, si trattava di una ragione economica, in sé indiscutibile, che per di più escludeva ogni intento discriminatorio nei confronti della lavoratrice (quale donna e futura madre).

La sentenza in commento invece conferma la decisione di secondo grado che, accolta l’impugnazione del licenziamento come discriminatorio per motivi di genere, disponeva la reintegra ed il risarcimento integrale del danno ai sensi del nuovo testo dell’art. 18 comma 1 L. 300/70, ritenendo quindi irrilevante il difetto del requisito dimensionale della tutela.

In particolare, la Cassazione richiama un precedente particolarmente calzante della CGUE (sentenza Sabine Mayr contro Backerei und Konditorei Gerhard Flockner OHG del 26.2.2008, in causa n. 506/06), secondo il quale era discriminatorio per motivi di genere il licenziamento intimato ad una lavoratrice prima dell’impianto in utero degli ovuli già fecondati in vitro, per essere dimostrato che la risoluzione del rapporto era dovuta alla particolare condizione della lavoratrice in quanto donna. Non si trattava insomma di tutelare la condizione (futura ed eventuale) di malattia o di gravidanza della lavoratrice bensì, ancora prima, di prendere atto che le procedure di fecondazione riguardano direttamente soltanto le donne, e che quindi il licenziamento (disposto esclusivamente a causa di tale condizione della lavoratrice) rappresenta una discriminazione per motivi di genere, secondo la nozione propria della direttiva 1976/207, poi trasposta nella direttiva 2006/54.

Tornando al caso in esame, la riferibilità del recesso al fattore di protezione (di genere) è pacifica, poiché era stato lo stesso datore a motivare il licenziamento con l’intenzione della lavoratrice di sottoporsi all’inseminazione artificiale. Invece, il punto controverso è rappresentato dalla stessa difesa datoriale, secondo la quale mancava un intento ritorsivo, ed il dichiarato motivo economico del recesso (riflesso negativo delle future assenze sul funzionamento dello studio) avrebbe dovuto escludere ogni intento discriminatorio, impedendo di qualificare il recesso come nullo per motivo illecito determinante (secondo la nozione propria dell’art. 1345 cc).

Distinzione fra licenziamento discriminatorio e ritorsivo

Alla Corte di Cassazione si imponeva quindi di prendere posizione sui rapporti fra licenziamento discriminatorio e ritorsivo.

E ciò non solo per il necessario rigore sistematico nella ricostruzione delle diverse nozioni di vizio dell’atto datoriale (di particolare interesse nella nuova fisionomia del licenziamento ex art. 18 comma 1 L. 300/70, radicalmente trasformato dalla L. 92/2012 e dal D. Lgvo 23/2015), bensì per risolvere la questione della ripartizione e dell’oggetto dell’onere probatorio, fondamentale nella prassi applicativa in materia discriminatoria.

La sentenza in commento – per la prima volta in sede di legittimità – prende le distanze dall’equivoco insito nel precedente orientamento che assimilava il licenziamento discriminatorio a quello ritorsivo (Cass. sez. lav. n. 3986/2015, n. 17087/2011, n. 16925/2011, n. 6282/2011, n. 16155/2009). In particolare, la novità della pronuncia consiste nel superare la tradizionale sovrapposizione delle due figure del licenziamento, ritenendo improprio che fino ad oggi la giurisprudenza avesse così finito per esigere in entrambi i casi (e quindi anche per le discriminazioni) che il licenziamento risultasse non solo privo di giustificazione, ma anche fondato su un motivo illecito, unico e determinante, ponendo quindi il relativo onere della prova a carico del lavoratore.

E, superata tale impropria assimilazione, il revirement consente finalmente di chiarire come la diversa genesi normativa delle due figure di recesso si traduca invece nella necessaria diversità dei relativi fatti costitutivi, e dei conseguenti regimi di prova.

Da un lato il motivo discriminatorio discende direttamente dalla violazione oggettiva di specifiche norme di diritto interno ed europeo, secondo le quali la discriminazione diretta opera in modo oggettivo, e consiste un trattamento deteriore riservato al lavoratore in conseguenza del fatto di appartenere ad una categoria protetta tipizzata (età, genere, orientamento sessuale, handicap, convinzioni religiose e personali, razza o origine etnica), ed a prescindere da ogni intenzione datoriale di vessarlo per le stesse ragioni.

E, nell’ambito delle specifiche norme che tutelano contro le discriminazioni, è fondamentale sottolineare il carattere tipico dei fattori di protezione introdotti dalla disciplina interna ed europea a tutela di specifiche categorie protette, con l’ulteriore conseguenza che è nullo il trattamento inflitto ad un lavoratore se a sua volta dovuto a motivi di  età, genere, orientamento sessuale, handicap, convinzioni religiose e personali, razza o origine etnica.

Nel caso in esame, non vi è dubbio quindi che il licenziamento fosse discriminatorio per motivi di genere, poiché colpiva una lavoratrice per vicenda sanitaria relativa alla maternità che (come già sottolineato dalla CGUE nella sentenza Mayr) poteva direttamente riguardare soltanto una donna.

Dall’altro lato il motivo ritorsivo, previsto nell’ordinamento interno dall’art. 1345 cc, secondo il quale l’atto datoriale è nullo soltanto se dovuto a motivo illecito, esclusivo e determinante, profilo che quindi rende rilevante anche la volontà datoriale (ovvero l’intenzione posta a base del licenziamento).

Ed è appunto con riferimento al motivo ritorsivo che l’orientamento tradizionale (Cass. sez. lav. n. 3986/2015, n. 17087/2011, n. 16925/2011, n. 6282/2011, n. 16155/2009) affermava che la nullità prevista dall’art. 1345 cc doveva essere intesa in senso estensivo, ovvero quale sanzione del sistema per ogni condotta datoriale che rappresentasse una illecita reazione in funzione vendicativa nei confronti del lavoratore che avesse a sua volta esercitato un diritto o comunque tenuto una condotta lecita.

In altri termini, la stessa casistica esaminata nelle decisioni ora richiamate mostrava come lo sforzo estensivo da anni compiuto dalla Corte di Cassazione mirasse a sanzionare con la medesima nullità licenziamenti che non sempre ricadevano nella previsione testuale di atti nulli secondo le norme interne (art. 5 L. 604/1966; art. 3 L. 108/1990; art. 15 L. 300/1970), ma che ne condividevano la ratio di sanzionare condotte datoriale che esprimevano la volontà ritorsiva nei confronti dei lavoratori che, per esempio, avessero violato direttive aziendali (Cass. n. 3986/15), chiesto il pagamento del lavoro straordinario non retribuito (Cass. n. 16925/11), introdotto un precedente giudizio contro lo stesso datore (Cass. n. 6282/11) o rifiutato proposte di proseguire il rapporto mutandone il titolo giuridico (Cass. n. 16155/09), ovvero che fossero parenti di altri dipendenti che avevano avanzato pretese contro il datore (Cass. n. 17087/11).

In conclusione, alla luce dei decisivi chiarimenti della sentenza in commento, d’ora in poi sarà necessario tenere distinte le due tipologie di atti datoriali, individuando come discriminatorie le condotte che oggettivamente impongano un trattamento deteriore dovuto al fattore tipico di protezione, e come ritorsive tutte quelle che anche soggettivamente esprimano una qualsiasi indebita rappresaglia.

Onere della prova

Una volta chiarito che la discriminazione è una condotta oggettiva che si valuta per gli effetti lesivi nei confronti di lavoratore che appartiene a categorie tipizzate fornite del fattore di protezione, e che invece la ritorsione é condotta atipica che si valuta per l’esclusivo intento di rappresaglia ingiustificata nei confronti del lavoratore, la sentenza in commento affronta la fondamentale distinzione fra le due ipotesi per quanto riguarda il regime della prova.

Nell’ambito della discriminazione, il lavoratore che lamenti di essere stato licenziato per motivi di  età, genere, orientamento sessuale, handicap, convinzioni religiose e personali, razza o origine etnica, ha l’onere di dimostrare l’esistenza a suo danno di un trattamento deteriore rispetto a quello che astrattamente sarebbe stato riservato a un terzo soggetto privo dello stesso fattore di protezione, rispetto al quale operare il giudizio di comparazione.

La dimostrazione è agevolata per legge (art. 4 L. 125/1991, poi art. 28 D. Lgvo 150/2011), proprio in considerazione della sua estrema difficoltà. Il lavoratore che esercita l’azione anti- discriminatoria può limitarsi a fornire elementi di fatto, desunti anche da dati di tipo statistico (relativi ad assunzioni, regimi retributivi, assegnazioni di mansioni e qualifiche, trasferimenti, la progressione di carriera e licenziamenti) tali da fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di esistenza di oggettive condotte discriminatorie.

Ed, una volta che il lavoratore ha fornito tale prova (cd statistica), spetterà al datore di lavoro l’onere di provare l’insussistenza oggettiva della discriminazione. Sarà quindi irrilevante sostenere la mancanza di un intento discriminatorio, dovendo piuttosto il datore di dimostrare che nei fatti il trattamento riservato al lavoratore appartenente alle categorie protette ha una causa lecita (alternativa a quella discriminatoria presunta), ovvero non è diverso da quello che astrattamente sarebbe stato riservato a un terzo soggetto privo dello stesso fattore di protezione, rispetto al quale operare il giudizio di comparazione.

Invece, nell’ambito della ritorsione, l’onere della prova ricade per intero a carico del lavoratore che deve dimostrare gli elementi oggettivi e soggettivi della condotta datoriale, in sé arbitraria ed improntata ad intento di rappresaglia (seppur anche in questo caso la giurisprudenza consente ampio utilizzo delle presunzioni, fra cui la dimostrazione della inesistenza del motivo dichiarato a base del licenziamento, nonché di ogni altro motivo ragionevole).

Concorrente motivo lecito

Una volta chiarito il diverso regime della prova fra discriminazione e ritorsione, la sentenza in commento affronta l’ulteriore aspetto problematico, relativo al rilievo del concorrente motivo lecito a base dello stesso licenziamento.

In concreto, infatti, il datore aveva sostenuto la legittimità del licenziamento perché, in assenza di ogni motivo nei confronti di rappresaglia nei confronti della lavoratrice per la scelta del trattamento sanitario cui sottoporsi, la decisione di risolvere il rapporto sarebbe stata motivata dalle negative ricadute economiche che le sue assenze avrebbero provocato sull’andamento dello studio.

L’argomento datoriale si collegava a sua volta al tradizionale orientamento di legittimità che, assimilato in modo improprio licenziamento discriminatorio e per ritorsione, a carico del lavoratore finiva per rendere comunque necessaria la prova dell’intento di rappresaglia anche per ritenere il carattere discriminatorio.

Premesso che il caso in esame rappresenta una discriminazione diretta, nei confronti della quale non è ammissibile la causa di giustificazione della condotta datoriale propria delle sole discriminazioni indirette (rappresentata dalla finalità legittima del datore, e dal carattere appropriato e necessario dei mezzi utilizzati per raggiungere tale finalità), la Cassazione ritiene irrilevante il concorrente motivo oggettivo.

Del resto, il datore aveva affermato il preteso motivo economico di licenziamento  (evitare le negative ricadute economiche sull’andamento dello studio legale dovute alle assenze della lavoratrice per il trattamento sanitario cui si sarebbe sottoposta) in termini tali da rappresentare il mero riflesso della discriminazione di genere.

In altre parole, le discriminazioni dirette non possono essere giustificate dalla necessità datoriale di risparmiare. Altrimenti ogni licenziamento per motivi di genere, si presterebbe ad essere giustificato in modo oggettivo con il solo fatto che il datore di lavoro ha necessità di licenziare per evitare i costi ed i disservizi dovuti alle assenze della lavoratrice madre, per poi riassumere altro personale che non presenti gli stessi “inconvenienti”. E lo stesso si potrebbe dire di un licenziamento per motivi di appartenenza sindacale o di handicap, che il datore pretendesse di giustificare proprio sulla base inconvenienti aziendali dovuti ai permessi spettanti al lavoratore, rispettivamente sindacalista o handicappato.

Diverso è il tema relativo alla qualificazione giudiziale del licenziamento qualora, a fronte del motivo discriminatorio presunto in base ai dati di fatto forniti dal lavoratore,  il motivo alternativo lecito sia dimostrato dal datore di lavoro con riferimento a vicende (disciplinari o economiche) del tutto estranee alla discriminazione. Nella pratica si tratta infatti del profilo spesso più problematico da valutare, e la cui soluzione non può che scaturire dal libero convincimento del giudice nell’ambito delle caratteristiche concrete delle singole vicende.